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Riflessi di lago, specchio di un’anima…

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun ott 19, 2009 10:38 am


  • 1009: la distruzione del Santo Sepolcro
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In pochi lo sanno, ma in questi giorni ricorre a Gerusalemme un millenario molto doloroso per la comunità cristiana della Terra Santa: quello della distruzione della basilica costantiniana del Santo Sepolcro ad opera del sultano fatimide al-Hakim. Un fatto destinato a cambiare in maniera radicale la fisionomia dei luoghi cristiani nella Città Santa, dal momento che – anche se poi ricostruita – la basilica non avrebbe mai più ritrovato lo splendore che ebbe nella Gerusalemme del primo millennio. Un luogo – in particolare – sarebbe andato perduto per sempre: il Martyrium, cioè la grande chiesa in cui si faceva memoria della Passione di Gesù.

A ricostruire la data esatta dell’anniversario è stato – sull’ultimo numero della rivista Terrasanta – l’archeologo francescano padre Eugenio Alliata. Le cronache dell’epoca raccontano, infatti, che la distruzione cominciò «il martedì il quinto giorno prima della fine del mese di Safar nell’anno 400 dell’Egira». Annota padre Alliata: «L’anno dell’Egira 400 inizia il 25 agosto 1009 ed essendo Safar il secondo mese dell’anno lunare islamico bisogna aggiungere 54 giorni per arrivare a martedì 18 ottobre, secondo il calendario gregoriano (giorno ovviamente estrapolato, trattandosi di una data anteriore all’istituzione ufficiale del medesimo)».

Quella che il 18 ottobre 1009 si consumò a Gerusalemme fu una distruzione radicale: lo stesso Santo Sepolcro – racconta sempre il cronista dell’XI secolo – «fu scavato e sradicato nella maggior parte». Ma come mai mille anni fa (e quasi quattro secoli dopo la conquista araba di Gerusalemme), si arrivò a uno scempio del genere? La risposta sta nella figura del sultano al-Hakim, che regnò al Cairo dal 1000 al 1021. Fu lui a imporre una svolta nella politica dei fatimidi, dinastia appartenente alla corrente ismailita degli sciiti, che fino a quel momento aveva mostrato tolleranza nei confronti sia dei sunniti sia delle altre minoranze religiose. Al-Hakim, al contrario, tentò con ogni mezzo di imporre la propria fede. E ad essere più duramente colpiti furono soprattutto cristiani ed ebrei: il sultano, ad esempio, portò all’esasperazione la legislazione sui dhimmi. Ma fu proprio la distruzione del Santo Sepolcro il culmine della sua intolleranza religiosa. Un fatto la cui eco rimbalzò molto presto in Europa, divenendo una delle ragioni addotte per la convocazione della prima Crociata.

Quella del 1009 fu, dunque, una pagina nerissima nei rapporti tra islam e cristianesimo. Da ricordare, però, tenendo presente che lungo i secoli ce ne sono state anche altre di segno opposto. Proprio la basilica del Santo Sepolcro era stata testimone del gesto compiuto dal califfo Omar, quando nel 638, al momento della conquista araba di Gerusalemme, scelse di non entrare a pregare in questo luogo santo, in segno di rispetto verso i cristiani (un fatto questo molto importante, dal momento che se non si fosse comportato così la «madre di tutte le chiese» sarebbe stata trasformata in moschea, come tanti altri luoghi di culto cristiani in Oriente).

Va inoltre aggiunto che – anche dopo lo scempio ordinato da al-Hakim – sotto il regno del suo successore al-Zahim fu comunque raggiunto un accordo tra il sultano e l’imperatore bizantino Argyropulos in forza del quale già nel 1042 poté iniziare la ricostruzione del Santo Sepolcro. Dettaglio interessante: l’intesa di dieci secoli fa prevedeva qualcosa di molto simile a quello che oggi chiameremmo il principio della reciprocità. L’imperatore, infatti, concedeva contestualmente il permesso di edificare una moschea a Costantinopoli.

I lavori di ricostruzione – terminati nel 1048 – si concentrarono solo sulla parte più venerata del complesso costantiniano: la rotonda al cui centro era posto il Santo Sepolcro. Nell’edificio antico, consacrato nell’anno 336, esistevano però anche altri due elementi distinti. Entrando dal cardo maximo, la strada principale della Gerusalemme romana e bizantina, per prima cosa si accedeva al Martyrium, la grande chiesa a cinque navate. Dal fondo di questo edificio sacro si entrava poi in un giardino, circondato da un triportico, dove nell’angolo di sud-est era venerata all’aperto la roccia del Calvario, dove Gesù fu crocifisso. Oltre il giardino, infine, si apriva l’anastasis, la rotonda con al centro il Santo Sepolcro. Per dare un’idea della grandiosità dell’intero complesso basti citare il fatto che insieme queste tre parti sviluppavano un asse di circa 150 metri (tanto per dare un termine di paragone la basilica di San Pietro è lunga 186 metri, dunque non molto di più).

La scelta di concentrarsi sulla rotonda del Santo Sepolcro fu confermata dai crociati: quando nel 1099 nacque il regno latino di Gerusalemme si affermò subito l’idea di riportare la basilica all’antico splendore. Ma la struttura rimase comunque più piccola rispetto a quella costantiniana: si decise di allargare l’anastasis, andando però a ricomprendere all’interno della chiesa solo la roccia del Calvario, che prima si trovava – invece – nel giardino. Questo spiega la fisionomia attuale della basilica, consacrata nel 1149 e poi rimasta sostanzialmente inviolata anche dopo la sconfitta dei crociati a Gerusalemme.

Il Martyrium, dunque, è il luogo santo che non c’è più. Luogo fondamentale della Gerusalemme bizantina, una comunità di cui oggi in realtà si ricorda pochissimo. Invece era proprio qui che – tra il IV e l’inizio dell’XI secolo – ogni domenica si riunivano i cristiani per celebrare l’Eucaristia. In una chiesa anch’essa ricca di simbolismi: Eusebio, nella sua Vita di Costantino, racconta che l’elemento principale dell’intera opera era «un emisfero collocato sulla parte più alta della basilica, cui facevano corona dodici colonne pari al numero degli Apostoli del Salvatore e ornate in cima con enormi crateri d’argento che l’imperatore aveva offerto personalmente quale bellissimo dono votivo al suo Dio».

Era la morte gloriosa di Gesù che nella Gerusalemme bizantina la Chiesa qui celebrava. Fermando lo sguardo sulla sua Passione prima di correre al sepolcro vuoto della Resurrezione. Forse è proprio questa l’idea più importante che un millenario così nascosto ci può aiutare a ritrovare.
  • Giorgio Bernardelli
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » gio ott 22, 2009 2:17 pm


  • Lo scoglio che non t’aspetti: c’è un’Italia che tira la cinghia e non riesce a dirlo ai suoi figli
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«Figlio mio, sai che c’è? Si deve tirare la cinghia…». Così semplice, così difficile. Anche in tempi di crisi. Perché in fondo non ci si credeva poi tanto, perché sembrava lontana, perché le file di impiegati rampanti che vanno a casa con lo scatolone in mano le vedevamo solo in televisione. Parlarne, soprattutto in casa, a volte sembra uno scoglio insormontabile, più semplice lasciar parlare giornali e tg, e chi ha orecchie per intendere intenda.

I dati che emergono dalla ricerca 'Minori, mass media e crisi economica' sollecitano qualche riflessione. Perché se i genitori faticano a comunicare ai figli adolescenti le difficoltà, magari non ancora drammatiche, nelle quali si dibattono, i ragazzi, che pure percepiscono la criticità del momento perché bombardati dalle informazioni martellanti, non decodificano il messaggio e non ne traggono le dovute conseguenza. Chi si adagia nel senso di impotenza e chi prova impulsi di rabbia e di ribellione. Ma in pochi hanno visto diminuire le proprie disponibilità – ah, la mitica e mitizzata paghetta! –, in pochissimi si sono trovati a dovere o voler ridurre gli acquisti di abbigliamento, ricariche, oggetti elettronici. Solo una minima parte ha modificato il proprio stile di vita.

Sono lontani i tempi del paterno 'cappotto rivoltato', protagonista di una canzoncina del dopoguerra, che scaldò generazioni di ragazzini che nulla sapevano di look, ma apprezzavano il tepore di una palandrana sformata. La povertà non è mai davvero 'nuova' e non lo sono neppure il pudore con cui la si vive, la discrezione nell’esporla pubblicamente. Nuovo è il contesto in cui la si coglie. Ed è semmai sorprendente che, in tempi in cui tutto si ostenta, il privato è pubblico in tutte le sue pieghe più indiscrete, la comunicazione è un imperativo, si scorgano proprio tra le mura di casa le ombre dei silenzi, fors’anche della vergogna quando le cose non girano più per il verso giusto, quando la crisi buca lo schermo del televisore e invade il salotto, la cucina, sostituisce il dialogo schietto con imbarazzati bisbiglii. Improvvisamente si confrontano e magari si scontrano atteggiamenti diversi, persino opposti, dirompenti. La naturale ritrosia a rendere palesi le proprie difficoltà si avvita su se stessa, persino la famiglia da punto di forza poco a poco si trasforma in fortezza. Assediata. Scattano i piani di difesa, le rinunce, le attenzioni. Ma i ragazzi… No, loro non devono patire per le nostre piccole o grandi sconfitte. È pronto lo scudo, che solo in apparenza li difende, in realtà rende schizofrenica la loro percezione di ciò che sta accadendo. La crisi c’è, forse, ma è lontana, non ci tocca. E nulla deve cambiare.

Magari il posto fisso è già volato via travolto dagli eventi, magari c’è solo bisogno di darsi una regolata perché i prezzi corrono e lo stipendio no, magari «oggi per noi va tutto bene, ma domani chissà…». Ecco un’occasione preziosa di dialogo, di condivisione, di crescita. Perché si può dire al proprio figlio adolescente: guarda che non siamo in un videogioco, quella crisi di cui parla la tv ora è qui, in casa nostra! Non una sconfitta, ma una sfida, alla quale si può provare a rispondere insieme, portando ciascuno il proprio carico, sacrificando chi l’auto nuova o la borsetta firmata e chi cento sms. Un momento difficile che si trasforma in occasione educativa. Dall’umiliazione all’azione, dall’indifferenza alla differenza. Certo, non è la soluzione di tutto. Ma aiuta.
  • Marco Bertola
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun ott 26, 2009 3:56 pm


  • Solo la carità può salvare il mondo
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Carissimi fratelli e sorelle,
a tutti rinnovo il saluto liturgico: la grazia, la pace e la gioia del Signore Gesù sia nel cuore di ciascuno di voi. Insieme vogliamo rendere grazie a Dio per il dono fatto alla Chiesa di un nuovo beato nella persona di don Carlo Gnocchi.

Una gratitudine che estendiamo a quanti il Signore si è scelto come “strumenti” di questo evento di grazia: in particolare il Santo Padre Benedetto XVI – cui vanno la nostra preghiera e il nostro affetto - e S.E. l’arcivescovo mons. Angelo Amato, che oggi lo rappresenta in mezzo a noi; l’immensa schiera delle persone che hanno incontrato, conosciuto, stimato, amato don Carlo e ne hanno testimoniato il cammino di santità; quanti hanno tenuto viva la memoria di questo sacerdote ambrosiano continuandone le opere e lasciandosi ispirare dal suo carisma di carità intelligente e coraggiosa verso i giovani, i soldati, i piccoli, i malati, i sofferenti, i poveri, gli emarginati; tutti noi presenti e partecipi a questo solenne Rito di beatificazione, compresi quanti ci seguono grazie ai mezzi di comunicazione.
  • Ci vuole santi, come lui è santo
Questo rendimento di grazie al Signore, mentre dice la nostra gioia spirituale, diventa per noi un richiamo particolarmente forte a riscoprire la fondamentale e comune vocazione alla santità: questo e non altro è il grande progetto d’amore e di felicità che dall’eternità Dio ha stabilito per tutti e per ciascuno di noi: ci vuole santi, come lui è santo!

Questo è il progetto che abita il cuore di Dio e di conseguenza non ci può essere nel nostro cuore un desiderio, un’aspirazione, un bisogno più forti e radicali che di fare nostro questo progetto e con la massima generosità possibile. Così cammineremo sulla strada della santità: una strada divina ma al tempo stesso umana e umanizzante.

Beatificando don Carlo la Chiesa dichiara autorevolmente che il desiderio di farsi santo è stato il sentimento dominante del suo cuore e insieme il principio fecondo della sua comunione d’amore con Dio e della sua infaticabile attività al servizio dell’uomo: una santità mistica e umanamente contagiosa e missionaria; una santità che lo conduceva a vivere nell’intimità di Dio e ad aprirsi e donarsi agli uomini in ogni ambito della loro esistenza.

Di questo progetto divino di amore e di felicità don Carlo era profondamente convinto e non temeva affatto di proporlo, peraltro in modo affascinante ed esigente, ai suoi giovani: «Nulla è più santificante e salvifico della santità. Credetelo. […] La santità irradia tacitamente Fede e bontà. […] Ben più e ben meglio delle discussioni e delle industrie umane, la santità ha il magico potere di convertire. Credetelo!» (Andate e insegnate, in Scritti, Milano 1993, 51-52).

Così parlava ai giovani dei suoi oratori di Cernusco sul Naviglio e di San Pietro in Sala a Milano, ripetendo quasi come slogan la celebre frase di Leon Bloy: «Non vi è al mondo che una tristezza: quella di non essere santo». E questo sia il richiamo che vogliamo accogliere dal Rito che stiamo celebrando: la sfida che tutti ci interpella, la missione che come credenti ci viene affidata è quella di portare nel nostro mondo il fuoco della santità, il fuoco dell’amore, il fuoco della vera gioia. Ma come portarlo? È una domanda che trova risposta nella prima lettura della liturgia ambrosiana che oggi celebra la Domenica detta del “Mandato missionario”.
  • In ogni uomo lo splendore del volto di Dio
Gli Atti degli Apostoli (8, 26-39) ci presentano un ministro della regina Candace d’Etiopia: è alla ricerca di Dio ed è affascinato dal Dio d’Israele. Dal tempio di Gerusalemme sta tornando verso la sua terra e in viaggio legge il libro del profeta Isaia. È inquieto perché non ne comprende il contenuto. Proprio in quel momento gli si accosta il diacono Filippo, che si era messo in cammino obbedendo alla voce dell’angelo. Senza alcuna paura Filippo intavola il discorso, sale sul carro dell’etiope, prende il libro, ne spiega il senso e annuncia Gesù.

Questo ministro e questo diacono incarnano alcuni tratti che caratterizzano il nuovo beato. Anche don Carlo, come l’eunuco etiope, è stato inquieto cercatore di Dio e come Filippo fu coraggioso cercatore dell’uomo. È nella ricerca del volto di Cristo impresso nel volto d’ogni uomo che don Carlo ha consumato la sua vita. Lo ha cercato in ogni soldato, in ogni alpino - ferito o morente -, in ogni bimbo violato dalla ferocia della guerra, in ogni mutilatino vittima innocente dell’odio, in ogni mulattino frutto della violenza perpetrata sull’innocenza della donna, in ogni poliomielitico piegato nel corpo dal mistero stesso del dolore.

Sta qui il segreto dell’amore di don Carlo per l’uomo: la vivissima coscienza che nel cuore di ogni essere umano abita lo splendore del volto di Dio. Ma ogni cristiano è chiamato ad amare sino alla fine e senza paura ogni essere umano, sapendo che in tutti è l’impronta incancellabile del volto di Dio, di tutti Creatore e Padre.
  • L’impegno per la “personalità cristiana” nel mondo
La seconda lettura, tratta dalla lettera di Paolo a Timoteo (1 Timoteo 2,1-5), ci rimanda ad un tratto caratteristico della carità di don Gnocchi. L’Apostolo raccomanda, in particolare, “che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio”.

Don Carlo ha saputo coinvolgersi con dedizione entusiasta e disinteressata non solo nella vita della Chiesa, ma anche in quella della società. E lo ha fatto coltivando con grande intelligenza e vigore l’intimo legame tra la carità e la giustizia: una carità che “tende le mani alla giustizia”, egli diceva. Noi possiamo continuare la sua opera chiedendo oggi alla giustizia di tendere le mani alla carità. Don Carlo è stato mirabile nell’operare una sintesi concreta di pensiero e di impresa, appellando alle diverse istituzioni pubbliche e insieme alle molteplici forme di volontariato, ponendo come criterio necessario e insuperabile la centralità della persona umana sempre onorata nell’inviolabilità della sua dignità e nella globalità unitaria delle sue dimensioni – fisiche, psichiche e spirituali -, insistendo sull’opera educativa e culturale come decisamente prioritaria per lo sviluppo autentico della società. Mai egli ha dimenticato il privilegio e comandamento evangelico del servizio agli “ultimi”.

Don Carlo ha vissuto la sua vocazione come impegno leale nel mondo, senza sminuire – anzi arricchendo – il suo essere di sacerdote. Impegno nel mondo così come si presentava al suo tempo: lontano dalle nostalgie del passato, calato cordialmente nel presente, aperto, profetico e anticipatore del futuro, mai nel segno del pessimismo o della paura.

Egli era convinto che il tempo nel quale Dio lo aveva chiamato a vivere era il migliore possibile. Nell’opera Educazione del cuore scrisse: «Amiamo di un amore geloso il nostro tempo, così grande e così avvilito, così ricco e così disperato, così dinamico e così dolorante, ma in ogni caso sempre sincero e appassionato. Se avessimo potuto scegliere il tempo della nostra vita e il campo della nostra lotta, avremmo scelto… il Novecento senza un istante di esitazione» (Educazione del cuore, in Scritti, 328).

Al mondo moderno don Carlo augurava un tempo nuovo, un nuovo tipo di umanità; augurava la personalità cristiana, cioè “cristianesimo e cristiani attivi, ottimisti, sereni, concreti e profondamente umani; che guardano al mondo, non più come a un nemico da abbattere o da fuggire, ma come a un (figlio) prodigo da conquistare e redimere con l’amore…” (Restaurazione della persona umana, in Scritti, 728-729).

Sono parole preziose anche per noi: amiamo il nostro tempo; impegniamoci nel nostro mondo; portiamo in tutti gli ambienti della nostra vita le speranze umane e la “speranza grande” che ci viene da Cristo, il vincitore della morte e di ogni male.
  • Il vangelo della carità
Un ultimo pensiero vogliamo trarre dal Vangelo che ci ripropone il mandato missionario di Gesù risorto: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura” (Marco 16,15). A questo mandato hanno obbedito gli apostoli e tutti gli autentici discepoli del Signore. Ha obbedito il beato Carlo Gnocchi. Vogliamo obbedire anche noi.

Sì, siamo pienamente consapevoli della nostra debolezza e talvolta della nostra infedeltà: come nella pagina evangelica è stato per gli Undici, anche noi veniamo rimproverati dal Signore Gesù per la nostra “incredulità e durezza di cuore”. Ma siamo altrettanto consapevoli di non essere lasciati soli, perché possiamo beneficiare dello stesso aiuto che ha sostenuto gli Apostoli: “Allora essi partirono per predicare dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano”.

Ritorna la questione iniziale: si tratta di dire di “sì” con tutto il cuore al progetto di santità voluto da Dio per ciascuno di noi e di viverlo nella fiducia e nell’umile e generosa carità d’ogni giorno, dalla quale dipende la salvezza del mondo.

Ci doni il Signore di condividere la convinzione e la decisione di don Gnocchi, che così scriveva nel 1945 ad un confratello nel sacerdozio: “Non desidero che la mia santificazione, dalla quale sono infinitamente lontano. Forse mi manca il coraggio delle decisioni supreme eppure comprendo che oggi solo la carità può salvare il mondo e che ad essa bisogna assolutamente consacrarsi” (Lettera a don Sterpi).

Una santità che oggi con il Rito di beatificazione la Chiesa dichiara ufficialmente. Una santità che in questa piazza, cinquant’anni fa, nel giorno dei funerali di don Carlo Gnocchi, un ragazzo scelto dall’allora Arcivescovo Montini per portare il suo saluto al “papà di tutti i mutilatini e poliomielitici” profeticamente riconobbe. Tutti noi oggi facciamo nostre le sue parole: «Prima ti dicevo: “Ciao don Carlo”. Oggi ti dico: “Ciao, san Carlo”».
  • Dionigi card. Tettamanzi, Arcivescovo di Milano
    Omelia per la Beatificazione di don Carlo Gnocchi
    Prima Domenica dopo la Dedicazione, Milano-Duomo, 25 ottobre 2009
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven ott 30, 2009 9:55 am


  • Centinaia di milioni senza libertà di vivere la fede: questo immenso popolo invisibile a mass media e politici
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Giusto un anno fa, dopo due mesi di agonia per le gravi ferite subite durante l’attacco di fondamentalisti indù, moriva in India, in un ospedale di Chennai, padre Bernard Digal, una delle prime vittime delle violenze anticristiane dell’agosto 2008. Gli autori dell’omicidio, riferisce Asia News , non sono ancora stati arrestati.

Padre Bernard non è che la punta di un iceberg, uno dei tanti che formano l’immenso popolo dei cristiani discriminati nel mondo. Un popolo invisibile agli occhi dei media che, salvo gli episodi più eclatanti, generalmente ignorano la gravità della situazione. Un popolo spesso invisibile anche agli occhi dei politici, lontani dal farsi carico di un problema che ha a che fare con la negazione di un diritto umano fondamentale: la libertà religiosa.

A fare memoria di tutto questo ci ha pensato lunedì monsignor Celestino Migliore, osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite, nel suo intervento all’Assemblea generale dell’Onu a New York. Migliore ha ricordato che il diritto alla libertà religiosa «continua oggi ad essere ampiamente violato». Atti d’intolleranza religiosa vengono «perpetrati in molte forme» e toccano le diverse religioni. Ma sono proprio i cristiani l’anello debole della catena, il gruppo religioso maggiormente colpito. Sarebbero, infatti, oltre 200 milioni i fedeli, appartenenti a varie confessioni cristiane, che subiscono discriminazioni sotto il profilo legale e culturale.

Non è una novità degli ultimi giorni. In un’intervista di tre anni fa ad Avveinire, Asma Jahagir, relatrice speciale delle Nazioni Unite per la libertà di religione, dichiarava: «Le violenze verso i cristiani nel mondo stanno aumentando in maniera considerevole ». E anche LiMes , rivista di geopolitica, tempo fa sottolineava che «il cristianesimo è la religione oggi più perseguitata nel mondo. Conta migliaia di vittime. Ma l’opinione pubblica occidentale, proprio quella di 'cultura cristiana', non concede a questo dramma alcuna attenzione, se non in ambienti ristretti». Da quando quelle righe sono state scritte (era il 2001), la sensibilità su questo tema – complici i puntuali richiami di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI alla libertà religiosa – è cresciuta.

Negli ultimi anni le situazioni più delicate (dall’Iraq al Pakistan, dalla Somalia all’India…) sono state oggetto di ripetute denunce, anche se spesso condotte in solitudine dai media cattolici. E tuttavia nell’estate 2008 fece ancora scalpore l’arcivescovo Dominque Mamberti, segretario vaticano per i rapporti con gli Stati, costretto a chiedere di combattere la cristianofobia almeno «con la stessa determinazione con cui si combattono l’antisemitismo e l’islamofobia». Ora, finalmente, la politica si muove. Il ministro degli Esteri Franco Frattini, intervenendo al Consiglio della Ue, ha chiesto e ottenuto che nella riunione di novembre si discuta di libertà religiosa e ci sia un pronunciamento formale, con particolare attenzione per la condizione delle minoranze cristiane. Un segnale importante, a due anni dall’approvazione a larghissima maggioranza, da parte del Parlamento di Strasburgo, di una risoluzione bipartisan con la quale, su iniziativa di Mario Mauro, venivano condannati «risolutamente tutti gli atti di violenza che mettono a repentaglio l'esistenza delle comunità cristiane e di altre comunità religiose».

È tempo che la tutela delle minoranze religiose e il diritto alla piena libertà di fede entrino con forza nell’agenda politica, e che si adotti l’effettivo rispetto di entrambe come parametro per la concessione di aiuti e di coope­razione. Senza questo passaggio, la difesa dei cristiani e di ogni altro perseguitato rischia di rimanere un richiamo retorico.
  • Gerolamo Fazzini
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun nov 02, 2009 11:29 am


  • Santi e morti: occasione per educare
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«Meglio non pensarci». Di solito è questa la prima reazione nei confronti della morte. Ed è ovvio che non si può vivere bene se si è ossessionati dalla morte, ma è altrettanto vero che la morte non può essere messa in un angolo, credendo così di accantonare un problema una volta per tutte. Con la propria morte ciascuno di noi dovrà un giorno, vicino o lontano, fare i conti, e, in attesa, siamo chiamati a confrontarci con la morte di altre persone, talune a noi molto care, con il carico di dolore e sofferenza che essa comporta.

Meglio pensarci, dunque. Meglio saper guardare in volto quest'ultimo atto della nostra vita terrena. Invece, nella nostra società assai evoluta in cui l'uomo è riuscito ad allungare la vita con il giusto progresso della scienza, si cerca continuamente di esorcizzare la morte, di fare come se non esistesse.

Da qualche anno è invalsa anche da noi un'usanza commerciale, nota come festa di Halloween, e sotto cui si nasconde il tentativo di ridicolizzare un aspetto della vita che invece è oltremodo serio. Strano davvero che questa festa del tutto estranea alla nostra tradizione religiosa e culturale goda di tanto seguito non solo presso chi ci fa i soldi, ma anche presso quella categoria di persone - gli educatori, i genitori, gli insegnanti nelle scuole innanzitutto - che dovrebbero avere a cuore una crescita armonica dei ragazzi e dei bambini e che, invece, sembrano interessati a organizzare il carnevale... dei morti, proprio quando la Chiesa cattolica invita a guardare alla morte con una visione pienamente umana e con un messaggio di speranza. È molto strano.

Sembra che qualcuno voglia a tutti i costi sradicare queste due feste cristiane - i Santi e i Morti - che invece hanno tanto da dire anche a chi è credente all'acqua di rose, ma anela a dare delle risposte a domande che stanno nel profondo. Perché non fare la fatica - in qualità di educatori e di professionisti dell'insegnamento - di distillare il significato di queste feste, invece di lanciare i bambini - anche quelli della scuola materna, ormai - dentro un vortice di ridicolaggini, di scherzi, di paura? Eh, già, costa fatica. Invece, si va sempre dove l'acqua è più bassa. Si calpestano allegramente le tradizioni, perché è più facile organizzare un altro carnevale - e di cattivo gusto, per giunta - piuttosto che parlare della santità o della morte.

La Chiesa ha il coraggio di farlo, e ha messo l'una accanto all'altra la solennità dei Santi e la Commemorazione dei defunti. Due gesti di fede, un'unica Comunione.
  • don Agostino Clerici
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven nov 06, 2009 10:12 am


  • Santi La nostra famiglia allargata
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«Credo la santa chiesa cattolica, la comunione dei santi»: questo proclamiamo nel Simbolo o Credo apostolico, una delle più antiche professioni della fede cristiana.

L’espressione communio sanctorum , «comunione dei santi», compare per la prima volta nei canoni del concilio di Nîmes ( 394). Nello stesso periodo, sul finire del quarto secolo, Niceta vescovo di Remesiana, una piccola città dell’attuale Serbia, testimonia l’avvenuta inserzione di questo articolo di fede nel Simbolo apostolico. Egli scrive: «Dopo la confessione di fede nella santa Trinità, tu confessi di credere nella santa chiesa cattolica. Ma che altro è la chiesa, se non l’assemblea di tutti i santi? Dalle origini del mondo, infatti, i patriarchi come Abramo, Isacco e Giacobbe, i profeti, gli apostoli, i martiri e tutti i giusti che furono, che sono e che saranno, formano una sola chiesa: santificati da una sola fede creduta e vissuta, sigillati col segno dell’unico Spirito, sono resi un solo corpo, del quale Cristo è la testa (cf. Col 1,18) … Credi dunque che in questa chiesa tu troverai la comunione dei santi» (Spiegazione del Simbolo di fede 10).

Queste parole attestano un’interpretazione ecclesiologica della communio sanctorum, in sintonia con l’articolo di fede immediatamente precedente, «credo la santa chiesa cattolica». In questo senso, la comunione dei santi va compresa come unità tra chiesa celeste e chiesa terrena, come comunione tra le membra del corpo di Cristo già nella gloria e i cristiani ancora pellegrini sulla terra: è una grande comunione, estesa nel tempo e nello spazio, tra tutti coloro che sono stati, sono e saranno chiamati a essere «santi in Cristo Gesù» (Fil 1,1), a essere resi creature nuove non in virtù della loro perfezione morale ma grazie alla loro relazione vitale con il Signore.

Accanto a questa interpretazione, ve n’è un’altra che ha attraversato i secoli della tradizione cristiana. La communio sanctorum può essere cioè intesa anche in senso misterico, liturgico, come «comunione alle cose sante», ai santi doni, con particolare riferimento ai sacramenti dell’eucaristia e del battesimo: la forza santificatrice dei sacramenti è forza operante, che crea comunione alla santità. Scrive per esempio Cirillo di Gerusalemme (IV secolo), commentando la solenne proclamazione: «Le cose sante sono per i santi» , che nelle liturgie orientali precede la comunione dei fedeli: «I doni deposti sull’altare sono santi, poiché su di essi è disceso lo Spirito santo; ma lo siete anche voi fedeli, resi partecipi da Dio del medesimo Spirito. Vi è pertanto una perfetta corrispondenza tra le cose sante e i santi. E quando rispondete: ' Uno solo è il Santo, uno solo è il Signore, Gesù Cristo, a gloria di Dio Padre', affermate che uno solo è santo per natura, ma voi avete comunione alla santità per partecipazione» ( Catechesi mistagogiche 5,19).

Il fatto che questi due significati non siano in contrasto tra loro ma, anzi, si completino a vicenda, è attestato anche dal sorgere della festa liturgica di tutti i santi in parallelo con l’elaborazione teologica di cui si è detto; ciò prova una volta di più che la liturgia è ispirata dalla fede della chiesa e allo stesso tempo la conferma, secondo l’antico adagio «lex orandi, lex credendi». È infatti nel IV secolo che ha origine la solennità che oggi celebriamo, dapprima nella chiesa siriaca, dove era chiamata «festa di tutti i martiri». Ad Antiochia essa veniva celebrata la domenica dopo Pentecoste, a sottolineare lo stretto legame tra effusione dello Spirito dall’alto e testimonianza della santità dei cristiani fino al martirio. L’attuale data occidentale del 1° novembre, probabilmente di origine celtica, fu invece estesa a tutto l’occidente nell’ 835 da papa Gregorio IV.

Al cuore dell’autunno, dopo tutte le mietiture, i raccolti e le vendemmie nelle nostre campagne, la chiesa ci chiede di contemplare la mietitura dei cristiani stessi, «sacrifici viventi» (cf. Rm 12,1) offerti a Dio, la messe di tutte le sante vite umane ritornate al Signore, la raccolta presso Dio di tutti i frutti maturi suscitati dall’amore e dalla grazia del Signore in mezzo agli uomini, da «Abele il giusto» (Mt 23,35; cf. Gen 4,8) fino all’ultimo uomo che è morto nell’amore di Dio.

La festa di tutti i santi è un memoriale dell’autunno glorioso della chiesa, è la festa contro la solitudine, contro ogni isolamento che affligge il cuore dell’uomo. Se non ci fossero i santi, se non credessimo la comunione dei santi, saremmo davvero chiusi in una solitudine disperata e disperante… In questo giorno noi dovremmo cantare: «Non siamo soli, siamo una comunione vivente!»; dovremmo rinnovare il canto pasquale perché, se a Pasqua contemplavamo il Cristo vivente per sempre alla destra del Padre, oggi, grazie alle energie della resurrezione, noi contempliamo quelli che sono con Cristo alla destra del Padre: i santi nostri fratelli. A Pasqua cantavamo che la vite era vivente, risorta; oggi la chiesa ci invita a cantare che i tralci, mondati e potati dal Padre sulla vite che è Cristo (cf. Gv 15,1- 5), hanno dato il loro frutto, hanno prodotto una vendemmia abbondante e che questi grappoli, raccolti e spremuti insieme, formano un unico vino, quello del Regno.

Grande è il mistero che celebriamo nella fede: i morti per Cristo, con Cristo e in Cristo sono con lui viventi e, poiché noi siamo membra del corpo di Cristo ed essi membra gloriose del corpo glorioso del Signore, siamo allora in comunione gli uni con gli altri, chiesa pellegrinante con chiesa celeste, insieme formiamo l’unico e totale corpo del Signore. Per questo oggi dalle nostre assemblee liturgiche sale il profumo dell’incenso, segno del vincolo indissolubile tra noi sulla terra e la chiesa di lassù, la Gerusalemme celeste che attende il completamento del numero dei suoi figli ed è vivente, gloriosa presso Dio, con Cristo, per sempre (cf. Gal 4,26; Eb 12,22; Ap 21,2.10). I santi sono in stretta relazione con noi: con noi pregano e cantano la santità e la gloria di Dio, per noi intercedono uniti all’intercessione di Cristo al Padre, con noi continuano a invocare la venuta gloriosa del Signore. La sposa che con lo Spirito grida: «Vieni Signore Gesù, vieni presto » (cf. Ap 22,17), è proprio la chiesa tutta, comunione di santi.

Ecco dunque il forte richiamo che risuona per noi in questa festa: riscoprire il santo accanto a noi, sentirci parte di un unico corpo. È questa consapevolezza che ha nutrito la fede e il cammino di santità di molti credenti, dai primi secoli ai nostri giorni: uomini e donne nascosti, ' separati' dalla mondanità, capaci di vivere quotidianamente la lucida resistenza agli idoli seducenti, nella paziente sottomissione alla volontà del Signore e nel sapiente amore per ogni essere umano, immagine del Dio invisibile.

Il santo allora diviene una presenza efficace per il cristiano e per la chiesa, una presenza che ci spinge a confessare: «Non siamo soli, ma avvolti da una grande nuvola di testimoni» (cf. Eb 12,1), con loro formiamo il corpo di Cristo, con loro siamo i figli di Dio, con loro saremo una cosa sola con il Figlio.

In Cristo si stabilisce tra noi e i santi una tale intimità che supera quella esistente nei nostri rapporti, anche quelli più fraterni, qui sulla terra: essi pregano per noi, intercedono, ci sono vicini come amici che non vengono mai meno, come «amici invisibili eppure intimi» , secondo la bella definizione dei padri della chiesa. E se la chiesa ha voluto che il nostro nome battesimale fosse quello di un santo, è proprio per abituarci a contemplare l’amico, gli amici invisibili e intimi nel nostro cammino di fede cristiana. La loro vicinanza è capace di meraviglie perché la loro volontà è ormai assimilata alla volontà di Dio manifestatasi in Cristo, unico loro e nostro Signore: non sono più loro a vivere, ma Cristo in loro (cf. Gal 2,20), avendo raggiunto il compimento di ogni vocazione cristiana, l’assunzione del volere stesso di Cristo: «Non la mia, ma la tua volontà sia fatta, o Padre» (Lc 22,42).

Nella mia ormai lunga ed estesa esperienza spirituale ho conosciuto alcuni monaci che con naturalezza mi dicevano: «Io e il tal santo viviamo insieme»; così mi donavano una testimonianza del loro vivere, non solo del loro credere, la comunione dei santi.

Sostenuti da quanti ci hanno preceduto in questo cammino, scopriremo infine anche i santi che ancora operano sulla terra, perché il seme dei santi non è prossimo all’estinzione: caduto a terra si prepara ancora oggi a dare il suo frutto, un frutto di comunione, un frutto di un amore più forte della morte. Sì, la comunione dei santi è sperimentabile, vivibile, è davvero una realtà capace di dare senso alle nostre vite, già ora e poi per la vita eterna, quando saremo tutti insieme con Cristo nel Regno.
  • Enzo Bianchi
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » gio nov 12, 2009 10:33 am


  • Appello a sentirsi parte di un «noi»
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La prolusione del cardinale Bagnasco alla 60ª assembla della Cei aperta nel pomeriggio del 9 novembre ad Assisi ci offre un confortante e attraente esercizio del giudizio di fede sulla coscienza ecclesiale, sul suo compito storico, e sulla vita civile del nostro Paese. Una Chiesa sempre più consapevole dei suoi propri scopi è con ciò stesso aiuto, offerto alla Nazione in cui vive, a cogliere ciò di cui ha bisogno per essere se stessa.

Così facendo, «la nostra Chiesa non presume di sé, punta solo a essere fedele » e perciò a «risultare – come il Vangelo esige – lievito e luce per la società». La Chiesa non presume, perché non ha come scopo se stessa, ma la comunicazione con parole e fatti dell’evento di salvezza per gli uomini: quanto più è fedele al suo mandato, tanto più aiuta gli uomini a comprendere se stessi, la loro umanità, le condizioni stesse della loro socialità.

Un termine ricorrente della prolusione è «gente». A proposito del recente Sinodo sull’Africa, il presidente della Cei afferma che «il dinamismo ad gentes resterà un dato qualificante l’intera nostra pastorale, una visione di Chiesa che si traguarda sempre con gli altri, e mai senza di loro»; così come «dal punto di vista etico-culturale desideriamo che i nostri cristiani si sentano cittadini del mondo, corresponsabili della sorte degli altri». L’Anno Sacerdotale in corso ricorda, a sua volta, che «i nostri sacerdoti sono mandati a tutti, destinati a tutti [...]», perché «essere prete è la vocazione di chi sta accanto alla propria gente come testimone di misericordia». La Chiesa, dunque, sta presso la gente, proponendole una misura larga e profonda della vita, con cui essa possa «imparare a godere realmente» della vita stessa e a proteggersi da immagini di una «cultura irreale» e alienante.

All’occasione della nuova edizione italiana del Rito delle Esequie, la prolusione s’intrattiene sull’impoverimento dell’idea della morte, la sua riduzione privatistica, la sua sparizione sociale, in nome di un’immagine della vita «falsa» e «irreale», che chiude la cultura sociale ai grandi interrogativi e a ogni prospettiva di senso. La comunità cristiana non può avvallare una tale cultura, perché «la luce della fede – dice Bagnasco riferendosi al primo discorso di Benedetto XVI all’episcopato italiano – ci fa comprendere in profondità un modello di uomo non astratto o utopico, ma concreto e storico, che di per sé la stessa ragione umana può conoscere » e che la Chiesa lo ricorda non «per l’interesse cattolico » , ma per amore all’uomo creatura di Dio.

È con questo criterio che la Chiesa interviene nelle grandi questioni etiche oppure si preoccupa di posizioni assunte da certa burocrazia europea – come nella recente sentenza sul crocifisso –, che non badando al valore e allo spessore di tradizioni religiose e culturali, finisce in realtà per allontanare «sempre più dalla gente» l’Europa. Ancora, e con particolare attenzione, il presidente dei vescovi italiani si occupa del diritto della «gente con i suoi problemi [...] di cogliersi al primo posto» rispetto a un dibattito nazionale in cui sembra prevalere invece una pre­giudiziale contrapposizione e una conflittualità sistematica, che rispondono ad altre preoccupazioni e ad altri interessi. Con vigore e lucidità viene ricordato l’indispensabile patrimonio di «valori morali autentici e solidi [...] che formano l’anima di un popolo, la sua identità profonda», «quel senso di appartenenza che agisce sull’intelligenza e sul cuore, creando cultura e storia. E consentendo a ciascuno di sentirsi parte di un 'noi'». Una Chiesa, dunque, che proprio svolgendo la sua peculiare missione – e non fingendosi una «religione civile» – è amica della gente, contribuendo alla sostanza che la rende un «popolo», non un povero «incrocio di destini individuali».
  • Francesco Botturi
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven nov 20, 2009 11:24 am


  • Papa Benedetto, i sensi, l’anima: la bellezza di Dio e i suoi segni ci conservano il mondo
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Ormai, anche le pietre ci supplicano. Nella vecchia Europa, di 'alto' non vola quasi più niente, neanche gli stracci. Siamo peccatori, noi umani comuni, è vero. Eppure, siamo gente capace di sopportare molto, per qualche segno bello dello spirito, che ci rimescola dentro, e ci fa venir voglia di spiegare ai nostri figli che cosa significa davvero «non di solo pane vive l’uomo». Il pane è necessario, e guadagnarselo è un sacrosanto dovere. Col pane campiamo. Ma è di ben altro che viviamo.

Non è una faccenda per chierici e intellettuali (non ci sottovalutate, grilli parlanti della scena mediatica), si tratta della nostra vita migliore. Parliamo del tasso di insopportabilità della grande apostasia dell’anima, nella quale ci volete civilizzare a tutti i costi: al quale fa seguito – ne avvertiamo i sintomi, nelle generazioni in arrivo – la grande anestesia degli umani sensi. Dei sensi, sì, perché abbiamo gli occhi pieni di immagini e diventiamo sempre più miopi, siamo completamente avvolti di suoni e non sentiamo più niente. Il profumo delle cose è un vago ricordo: assumiamo sostanze che rendono l’olfatto inservibile. Toccacciamo tutto, e non riusciamo più ad essere 'toccati' da niente: l’intimità della gioia, l’intimità del dolore, nostro e altrui, li conosciamo soltanto come eccipiente dello spot che ci deve vendere qualcosa. Non ne conosciamo più i segreti, i tempi, le emozioni, gli slanci di verità che ci colpiscono al cuore, e gli archi di lunga durata che ci affezionano per sempre. Si oscurano i sensi, e perdiamo l’anima.

La ragione è semplice. I nostri sensi sono fatti per le qualità dello spirito: svuotali metodicamente di questa vitalità, e te li troverai smorti da far pena. Figurati lo spirito. È quella che chiamiamo, semplicemente, sensibilità delle persone umane: intendendo la qualità più alta e preziosa dell’essere umani. L’eccitazione sensoriale, l’esasperazione pulsionale, sono tutt’altra faccenda.

L’umana sensibilità è sotto tiro. Stanata e sbeffeggiata, e appena possibile, chirurgicamente asportata. I suoi segni sono nel mirino: i segni dei tempi, ormai, si leggono al meteo, i segni della vita al microscopio, e quelli della storia in Borsa. Molti di questi segni – i più forti e belli – sono intrecciati con la religione. Non è affatto strano: è in quel grembo che sta la più antica sapienza dei segni dell’anima, dei suoi enigmi più profondi, delle sue contraddizioni più dolorose, delle sue visioni più alte. Non è strano neppure il fatto che la sapienza spirituale dei sensi, ossia dell’umana sensibilità, abbia scritto il suo più singolare esperimento, nella storia a noi conosciuta, proprio qui. Dove l’arte ha intinto per secoli il pennello e il calamo «in quell’alfabeto colorato che era la Bibbia» (Chagall).

L’ultima catechesi di Benedetto XVI sul «tempo delle cattedrali», chiusa con questa citazione, si è aperta con la menzione del celebre 'cronista' dell’anno Mille, Rodolfo il Glabro, che racconta dello strano fervore con cui, in tempi particolarmente avviliti e difficili, i popoli d’Europa hanno fatto a gara nell’investire la loro sensibilità più fine, e la loro arte migliore, nello «scuotersi di dosso i vecchi cenci», investendo le passioni della loro anima a creare i segni più belli proprio nei luoghi del sacro. Come «una veste bianca» di bucato, per loro stessi: da guardare, toccare, odorare, per sentirsi vivi e ricompensati di speranza. Sacrosanta e meritata, in mezzo a mille fatiche per salvare la vita e l’anima: che non importavano niente ai poteri forti di un’epoca – per definizione – 'medievale'. Investimento fantastico, che ha impedito la fine del mondo. E ci ha lasciato qualcosa che vola ancora alto, anche per noi. Il 'cronista' del terzo millennio sia altrettanto spregiudicato, nel raccontare delle passioni per la bellezza di Dio. Non ci salvano solo l’anima, ci conservano il mondo.
  • Pierangelo Sequeri
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar nov 24, 2009 2:40 pm

  • Immagine Niente regali alle mafie, i beni confiscati sono cosa nostra

Tredici anni fa, oltre un milione di cittadini firmarono la petizione che chiedeva al Parlamento di approvare la legge per l'uso sociale dei beni confiscati alle mafie. Un appello raccolto da tutte le forze politiche, che votarono all'unanimità le legge 109/96. Si coronava, così, il sogno di chi, a cominciare da Pio La Torre, aveva pagato con la propria vita l'impegno per sottrarre ai clan le ricchezze accumulate illegalmente.

Oggi quell'impegno rischia di essere tradito. Un emendamento introdotto in Senato alla legge finanziaria, infatti, prevede la vendita dei beni confiscati che non si riescono a destinare entro tre o sei mesi. E' facile immaginare, grazie alle note capacità delle organizzazioni mafiose di mascherare la loro presenza, chi si farà avanti per comprare ville, case e terreni appartenuti ai boss e che rappresentavano altrettanti simboli del loro potere, costruito con la violenza, il sangue, i soprusi, fino all'intervento dello Stato.

La vendita di quei beni significherà una cosa soltanto: che lo Stato si arrende di fronte alle difficoltà del loro pieno ed effettivo riutilizzo sociale, come prevede la legge. E il ritorno di quei beni nelle disponibilità dei clan a cui erano stati sottratti, grazie al lavoro delle forze dell'ordine e della magistratura, avrà un effetto dirompente sulla stessa credibilità delle istituzioni.

Per queste ragioni chiediamo al governo e al Parlamento di ripensarci e di ritirare l'emendamento sulla vendita dei beni confiscati.

Si rafforzi, piuttosto, l'azione di chi indaga per individuare le ricchezze dei clan. S'introducano norme che facilitano il riutilizzo sociale dei beni e venga data concreta attuazione alla norma che stabilisce la confisca di beni ai corrotti. E vengano destinate innanzitutto ai familiari delle vittime di mafia e ai testimoni di giustizia i soldi e le risorse finanziarie sottratte alle mafie. Ma non vendiamo quei beni confiscati che rappresentano il segno del riscatto di un'Italia civile, onesta e coraggiosa. Perché quei beni sono davvero tutti "cosa nostra"
  • don Luigi Ciotti, presidente di Libera e Gruppo Abele
...per firmare clicca qui
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun nov 30, 2009 11:19 am


  • Il mio super-io e la felicità descritta nei vangeli
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Platone, il grande filosofo greco, ha pronunciato questa frase: «Tutti gli uomini vogliono essere felici».

Gesù ha risposto a tale desiderio nostalgico di felicità enunciando otto Beatitudini, che si tengono insieme come i fili della stessa corda…

Dobbiamo seguire questo cammino, per fare l'esperienza della felicità. Dio non promette un mondo sano, guarito, ma propone un cammino di saggezza verso una vita ben riuscita, verso la felicità, in mezzo alle turbolenze e ai conflitti della vita. Dio non consegna la felicità su un vassoio. La felicità non è sentirmi sempre contento, ma essere in armonia con me stesso. Arriverei a dire che è un'arte di imparare la felicità anche nell'infelicità. Con ciò, si tratta anche di confrontarsi con la sofferenza e con l'oscurità.

E quando Gesù dice: «Beati voi che ora piangete», ci invita a piangere la mediocrità della nostra vita, i sogni infranti, per raggiungere il fondo dell'anima e scoprirvi nuove possibilità, per trovare Cristo in fondo alla nostra anima. Gesù dice anche: «Beati i perseguitati a causa della giustizia». Per lui i conflitti, le dispute, sono importanti. Gregorio di Nissa, teologo del IV secolo, interpreta questa Beatitudine a partire dallo sport. Dice: «Se vuoi correre i mille metri, cerca altre persone che corrano con te, in modo da andare più veloce».

Paradossalmente la malattia, l'infelicità e la morte sono altri 'corridori' che ci pungolano, ci stimolano a precipitarci verso Dio in modo ancora più chiaro e determinato.

Tutto quello che ci succede, nel bene e nel male, può condurci allo scopo autentico della nostra vita.

È questa la felicità che Gesù ci mostra: non una felicità a buon mercato, ma una felicità per la quale dobbiamo darci un po' da fare. In tale cammino è difficile sapere con certezza assoluta se sto facendo la volontà di Dio. Ma ci sono criteri per discernere se è, o non è, così. Per i monaci di un tempo, un criterio importante era che la volontà di Dio libera in me la pace, la vitalità, la libertà e l'amore. Per capirlo, posso tendere l'orecchio verso ciò che accade in fondo a me stesso. Quando avverto giustizia e pace, allora sono nella volontà di Dio.

Quando esigo troppo da me stesso, quando stringo i pugni, è invece la volontà del mio super- io a spingermi a inseguire la perfezione. Poiché fare tutto in maniera perfetta non è sempre fare la volontà di Dio, ma dare soddisfazione al mio orgoglio.
  • Anselm Grün tradotto da Anna Maria Brogi
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar dic 01, 2009 9:26 am


  • Il «no» svizzero a nuovi minareti danneggia la libertà religiosa
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"Un duro colpo alla libertà religiosa e all'integrazione"; una "tendenza che complica le cose per i cristiani" che vivono in Paesi dove tale libertà "è già limitata"; un ostacolo, "ma anche una grande sfida", sul cammino dell'integrazione nel dialogo e nel rispetto reciproco.

La Conferenza dei vescovi svizzeri (Cvs) ha commentato così l'esito del referendum che, domenica, ha rivelato che la maggioranza dei cittadini - il 57,5 per cento - è contraria alla costruzione di nuovi minareti nel Paese. Su ventisei cantoni della Confederazione elvetica solo quattro (Basilea città, Ginevra, Neuchâtel e Vaud) hanno votato "no" al quesito referendario, respingendo la proposta sostenuta dall'Unione democratica di centro, il partito di destra che guidava il fronte del "sì", favorevole appunto al divieto di edificazione di nuovi minareti perché "simbolo di una rivendicazione del potere politico e sociale dell'islam".

Secondo un comunicato a firma del portavoce della Cvs, Walter Müller, "il sì all'iniziativa aumenta i problemi di coabitazione tra le religioni e le culture". Difficoltà di coesistenza che non si limitano alla Svizzera: la Chiesa cattolica, prima del voto, ha sottolineato infatti più volte che il divieto di costruire minareti non sarebbe servito "ai cristiani oppressi o perseguitati nei Paesi islamici" ma che, anzi, avrebbe deteriorato "la credibilità del loro impegno in quei Paesi". Nella nota si afferma che "la campagna, con le sue esagerazioni e caricature, ha mostrato che la pace religiosa non va da sé e che essa deve sempre essere difesa". Da qui la sfida "a ridare alla popolazione la fiducia necessaria nel nostro ordine giuridico e l'adeguata attenzione agli interessi di tutti" e l'incoraggiamento "a impegnarsi ancora di più oggi per stare accanto ai cristiani" che vivono in nazioni a maggioranza musulmana.

Don Felix Gmür, segretario generale della Conferenza episcopale, spiega così la vittoria dei sì: "La gente ha paura di chi viene da lontano, di chi non capisce, e si chiude". E poi "c'è stata una propaganda assai dura", in cui non si è parlato solo di minareti, ma anche di gruppi estremisti.

I minareti come i crocifissi. La religione non può essere un fatto privato: "Quelli che sostenevano il referendum - ha dichiarato Gmür alla Radio Vaticana - dicono che la religione deve essere una cosa privata; ognuno può pregare dove vuole, ma non in luoghi pubblici. Nello stesso tempo si dicono cristiani, ma per un cristiano il culto non può essere solo un fatto privato. Su questo - ha affermato il segretario della Cvs - occorre aprire un dibattito che faccia chiarezza perché la società è disorientata, c'è una contraddizione in tutte le società europee, come dimostra la questione aperta sui crocifissi in Italia". Si vince la paura quando si vive insieme, ha osservato ancora Gmür, sottolineando il fatto che il referendum è stato respinto in città come Basilea e Ginevra dove vive il maggior numero di musulmani, mentre il "sì" ha preso voti in zone a minor presenza di immigrati islamici.

"Amarezza" è stata espressa dalla Federazione delle chiese evangeliche svizzere, per la quale "il divieto di costruire minareti non risolve alcun problema ma ne crea di nuovi".

Va precisato che il divieto non colpisce i quattro minareti già esistenti nel Paese, tanto meno l'edificazione di altre moschee. Ma la delusione dei musulmani è grande. Per l'imam Youssef Ibram, responsabile del Centro culturale islamico di Ginevra, è un "avvenimento catastrofico. Avevamo fiducia nella lucidità del popolo svizzero, è una delusione enorme", ha aggiunto. Reazioni negative anche dall'estero. Il gran mufti dell'Egitto, Ali Gomaa, ha definito l'esito del referendum "un insulto" a tutti i musulmani e "un attacco" alla libertà di religione. In Indonesia la principale organizzazione islamica del Paese, la Nahdlatul Ulama, parla di segnale di "odio e intolleranza" ma invita i fedeli musulmani a reagire "senza eccessi".
  • Da L’Osservatore Romano 30 novembre-1 dicembre 2009
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven dic 04, 2009 4:53 pm


  • Voglia di certezze e paura del dialogo
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Di fronte alle novità e alla complessità in cui ci troviamo a vivere, la prima tentazione potrebbe essere quella di negare la stessa situazione problematica. Atteggiamento comprensibile, certamente, ma non per questo condivisibile. Basterebbe analizzare attentamente il nostro linguaggio religioso e chiedersi con estrema onestà: è un linguaggio in grado di comunicare o le parole pronunciate danno per scontato un interlocutore che, in realtà, non c'è? Non solo. Ci si dovrebbe chiedere come mai, spesso, le "parole della fede" sembrano collocarsi oltre la realtà quotidiana e appartenere ad un altro mondo, sempre più lontano. La conclusione: le parole della fede sono certamente belle, ma inutili per la vita, non appartengono alla quotidianità del vivere!
  • Saper ascoltare
Ci sembra che un primo atteggiamento da assumere sia quello dell'ascolto della realtà che ci circonda, anche se esso è difficile e, soprattutto, estraneo a tanto nostro contesto culturale. Ovunque si parla, ovunque si grida qualcosa: si ha la sensazione di essere un insieme di persone che, in tutti i contesti, parlano, parlano, parlano; in profondità nessuno comunica nulla. Solo suoni e rumori. Infatti, dove e come è possibile verificare la significatività del proprio linguaggio e la sua capacità di entrare in dialogo con l'altro? Si ha come la percezione che siano in pochi a parlare perché tanti ormai non credono più nel dialogo. Il dialogo richiede un clima di ascolto, un contesto dove ci si rapporta agli altri secondo la logica dell'ascolto. Non è forse vero che tante risposte non dicono nulla proprio perché danno apparenti risposte a problemi che nessuno ha? Oppure tentano di rispondere scavalcando l'interlocutore? Risposte impeccabili sul piano teorico, ma che non incontrano l'uomo quotidiano.

Il dialogo, che coinvolge le comunità credenti, deve muoversi in una duplice direzione: all'interno della comunità e dalla comunità verso le altre realtà. Esso è autentico se non esclude nessuno: chiunque è degno di essere ascoltato e chiunque ha qualcosa da dare. Non ci può essere dialogo là dove c'è imposizione, paura o ricatto. La verità va certamente annunciata; a nessuno, però, è lecito imporla: neppure il Figlio di Dio l'ha imposta. Egli si è rivolto a tutti, ha testimoniato con la sua vita, ha sollecitato il consenso e ha accettato il rifiuto.
  • Rimettersi in cammino
Nel dialogo tutti devono essere protesi verso un punto che sta davanti; il dialogo non può ridursi alla difesa del proprio spazio o delle proprie competenze e neppure della propria verità. Per dialogare occorre essere uomini liberi, capaci di cogliere ciò che realmente è essenziale e sta alla radice, eventualmente, della realtà complessa di cui si parla; solo così si può andare oltre il proprio punto di vista limitato. Una libertà che deve impedire di rinchiudersi in spazi ristretti, a difesa delle proprie visioni o dei propri interessi. Chi dialoga realmente vive una duplice esperienza. Da una parte, si accorge di essere povero (bisognoso di essere accolto e ascoltato); dall'altra, sperimenta di essere ricco (portatore di una realtà che ha ricevuto e che non può tenere per sé). Qui sta la radice della vera umiltà che esclude tanto l'intolleranza quanto l'impossibile neutralità, tanto l'arroganza quanto la passività. Allo stesso tempo i credenti e le comunità sanno di essere chiamati ad assumere una funzione critica: la logica del vangelo è critica contro tutte le pretese di assolutezza tanto verso le stesse comunità quanto verso tutti gli assoluti terreni costruiti dall'uomo.

Ci si dovrebbe interrogare tutti sul perché sia sempre di più avvertita - in tanti credenti - la necessità di "certezze dottrinali" sulle quali, si afferma, non è possibile discutere. Cosa nasconde la necessità di punti fermi irrinunciabili? Di valori intoccabili? Le "certezze dottrinali", i punti fermi, i valori intoccabili vengono prima dell'uomo concreto? O sono essi stessi a servizio dell'uomo e della sua crescita? E se per difendere dei valori si calpestano degli uomini? Un dialogo autentico deve misurasi anche con questi ineludibili interrogativi.
  • Arcangelo Bagni
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven dic 11, 2009 11:14 am


  • Facciamo il Presepe
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La liturgia della Chiesa, nella sua sana pedagogia, ogni anno dopo le letture apocalittiche della fine e del giudizio di Dio, ci incammina per le vie della speranza e con i profeti e i patriarchi percorriamo così, in visione, i secoli dell’attesa: «Ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà: Dio potente» (Is 9,5). Il Vangelo cita il verbo «sperare» una sola volta: «Speravamo...». Sono i discepoli di Emmaus che confidano il loro sconforto al passeggero che li accompagna nel cammino della vita. Ma l’Antico Testamento è la storia della promessa di Dio e la chiave di lettura più appropriata è la speranza. Spera Abramo nella discendenza numerosa come le stelle del cielo e la vede in quell’unico figlio nato nella sua vecchiaia e chiesto in sacrificio. Spera Mosé nella Terra promessa che vede solo all’orizzonte nella foschia del primo mattino.

La speranza che diventa fede, perché non si può credere in una cosa che non si è sperata, noi la celebriamo nella dolce tradizione del Presepe. Complice Francesco, il poverello di Assisi, ogni anno stendiamo la carta con le stelle, i fiumi di stagnola, le montagne e la grotta illuminata. È il piccolo mondo costruito dall’uomo che collabora con Dio. È il Regno di Dio, quello annunciato dai Vangeli come realtà iniziale, ma realtà in mezzo a noi che va crescendo.

Facciamolo il Presepe e facciamolo con dignità: Dio ha bisogno di noi per il sogno e l’utopia, per la speranza di un mondo preservato: «Siete i custodi del pianeta», diceva Giovanni Paolo II parlando ai giovani. Fare il Presepio è la liturgia domestica di questa attenzione, il simbolo dell’accettazione di un ruolo: uomini a cui è stato affidato il mondo creato e redento da un Dio bambino.

Facciamo il Presepe, ma facciamolo in fretta prima che qualche Erode, per legge, ci vieti di sognare, di celebrare la memoria viva di un evento, dell’Evento.

Ci diranno di non operare in luogo pubblico, di riportare al privato la storia della nascita del Salvatore, il più sociale e universale degli accadimenti: Erode non c’è nel Presepe perché non è un personaggio buono. Con la sua tracotanza, la violenza praticata e il sangue versato è meglio lasciarlo fuori dal Regno della pace: lui poi odia i bambini, disprezza il futuro, non accetta quelli che chiamano Dio con un altro nome. Il bambino di Betlemme lo chiama Padre. I protagonisti veri del Presepe sono i poveri (pastori, bottegai, artigiani), sono gli uomini giusti come Giuseppe il falegname di Nazaret. Con loro convivono gli angeli che annunciano, che cantano, che fanno profezie. Giuseppe, l’uomo «giusto» del dovere e del silenzio li frequenta nei sogni e a loro si affida. Giuseppe rappresenta ciascuno di noi: chiamato a un compito altissimo, non dice no. Non parla nemmeno, accetta solo e programma la sua vita a favore degli altri.
  • Antonio Tarzia
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mar dic 15, 2009 10:22 am


  • Il senso del dono: per un natale di gratuità
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Assaliti dall’ansia del regalo, nel mese di dicembre sembriamo ormai smarrire il legame con l’Avvento e, con esso, anche l’autentica dimensione umana e cristiana del dono. Sommersi dai doni da fare o da ricevere, abbiamo perso il senso della gratuità, non riusciamo più a vederla come ricchezza nelle nostre vite e nelle nostre relazioni, convinti di essere noi gli unici protagonisti di ogni cosa, coloro che determinano l’evolversi delle vicende e delle società. Eppure il Natale cui ci prepariamo dovrebbe ricordarci sia il dono per eccellenza che è ogni vita nuova che nasce, sia il dono inaudito che Dio ha fatto all’umanità e alla creazione intera con la venuta nella carne di Gesù, vero Dio e vero uomo.

Come la vita, infatti, il dono è qualcosa che ci precede, che esula dai diritti- doveri, che non può mai essere pienamente ricambiato, che nasce da energie liberate e origina a sua volta capacità inattese. La gratuità non è tale solo perché non comporta un prezzo, ma più ancora perché suscita gratitudine e, più in profondità ancora, perché sgorga da un cuore a sua volta grato per quanto già ha ricevuto. Nel dono autentico non si riesce mai a tracciare un confine certo e invalicabile tra chi dà e chi riceve: non perché vi sia il calcolo di chi pesa il contraccambio, ma perché, come dice Gesù, « c’è più gioia nel dare che nel ricevere » ( Atti 20,35). Chi dona, infatti, gode a sua volta della gioia che suscita in chi riceve. D’altronde, il fondamento dell’amore è la rinuncia alla reciprocità e alla sicurezza che ne deriva: occorre indirizzare l’amore verso l’altro senza essere sicuri che l’altro ricambierà.

E non dovremmo pensare al dono solo come a una possibile forma di scambio tra le persone: riscoprire la gratuità come istanza anche sociale costituisce un’esperienza liberante e arricchente per ogni tipo di convivenza. Lo ricorda con parole forti Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate: « La gratuità è presente nella vita dell’uomo in molteplici forme, spesso non riconosciute a causa di una visione solo produttivistica e utilitaristica dell’esistenza... Lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio di gratuità come espressione di fraternità » .

Forse il tempo del Natale e la maggiore sensibilità alla dimensione del dono che questa festa suscita potrebbe aiutarci proprio in due percorsi di approfondimento del senso delle nostre vite. A livello personale e relazionale, possiamo riscoprire la libertà profonda che il donare richiede e la gioia che suscita sia in colui che dona che in colui che riceve: A livello sociale, ci è dato di prendere coscienza di come, anche nell’ottica mercantile ormai dominante, si possano concretamente immettere istanze di gratuita fraternità: la solidarietà umana, uno stile di vita più sobrio ed essenziale, una ritrovata dimensione di fratellanza universale non sono alternative alle ferree leggi economiche o all’esercizio della giustizia, ma sono anzi correttivi preziosi per una più equa distribuzione di quei doni naturali che sono intrinsecamente destinati a tutti. Come cristiani testimonieremo così l’unicità del Signore di cui celebriamo la venuta nella carne e attendiamo il ritorno nella gloria: un dono sceso dall’alto che non ha cercato né atteso il nostro contraccambio per portare a tutti le ricchezze della sua grazia, il volto divino della gratuità. Senza il concetto di dono e di dono gratuito non sarebbe possibile un parlare cristiano perché, non lo si dimentichi, nel cristianesimo persino l’alleanza, che di per sé è bilaterale, è diventata alleanza unilaterale di Dio offerta all’uomo nella gratuità.
  • Enzo Bianchi
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun dic 21, 2009 10:04 am


  • In viaggio con Dickens e il suo Canto di Natale
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In questi giorni giunge nelle sale cinematografiche italiane la versione di un mito. L’ennesima, poiché sono venti i film e cinquanta gli sceneggiati televisivi tratti dal meraviglioso Racconto di Natale di Charles Dickens. Mi accorgo, non oggi, che nel nostro paese l’opera del grande scrittore inglese non solo non è percepita come mito, ma non è nemmeno particolarmente nota. Non è così nel mondo anglosassone, dove riveste un valore di riferimento archetipico, prima ancora che simbolico, superiore allo stesso Moby Dick, il romanzo-poema dell’avventura umana contro l’oscurità dell’abisso e del mito.

La mia attenzione rapita verso il prodigioso racconto di Charles Dickens risale all’infanzia, quando leggendolo lo inscrissi subito, immediatamente, nella costellazione dei libri della mia anima, accanto all’appena citato capolavoro di Melville e all’Isola del tesoro di Robert Louis Stevenson. Da qui, da questa intuizione infantile, poi elaborata e confermata negli anni a venire, vorrei iniziare per tentare di definire l’unicità assoluta del prodigioso racconto-canto del sommo autore di lingua inglese, il geniale prestidigitatore del Circolo Pickwick.

Il pubblico che vedo accorrere a questa versione cinematografica dell’opera è diverso da quello che attende un nuovo film di Wim Wenders, o di Kenneth Branagh. Ne sento parlare con eccitazione in palestra, da parte di ventenni o trentenni che sanno tutto di Mourinho o delle scarpe Adidas, ma crollerebbero di fronte a un interrogatorio duro sull’identità di Amleto, o anche di Pinocchio.
Al cinema, nella sala gremita, posto straprenotato, ero circondato da coppiette di fidanzatini impacciati, dal lessico limitato, ma dall’incontestabile emozione: «Allora domani facciamo l’albero», la lapidaria conclusione di un giovane bergamasco mentre, sui titoli di coda, baciava pieno di allegria la ragazza.

È un fatto importante, un mito della letteratura entra in casa di tutti (almeno potenzialmente) senza fanfare, senza dichiararsi nella sua importanza. Un po’ come quando Roberto Benigni portò Dante in piazza, facendo le debite proporzioni. Dickens non è certo Dante (nessuno tranne Shakespeare è Dante, e forse anche un po’ di più). In compenso Benigni con Dante è più bravo del regista Robert Zemeckis, che realizza in A Christmas Carol un Canto di Natale meritevolmente aderente al testo, ma troppo sbilanciato negli effetti speciali, e in questo senso poco dickensiano. Poco dickensiano perché dickensiana è la dimensione straordinaria nel quotidiano, il miracolo nella natura. Film comunque consigliabile, magnificamente recitato, sciaguratamente concluso nella versione italiana con una stornellata di Andrea Bocelli, ma comunque da vedere.

Senza rinunciare però all’acquisto del dvd ora in vendita anche in edicola (11,90 euro) Il Bianco Natale di Topolino, che contiene il capolavoro cinematografico assoluto sull’opera, Canto di Natale di Topolino, realizzato nel 1983 dalla Disney, cartoni animati non digitali, magnifica fiaba natalizia, uno straordinario Paperone, uno dei vertici del cartone animato. Che è connaturato al soggetto: sono spiriti, fantasmi, quelli che guidano Scrooge alla rinascita, e il cartone animato è il genere cinematografico più spirituale, fantasmatico, facendo a meno anche della presenza corporea degli attori.

Parlavamo di Dante: quanto Dante nel racconto dell’avaro e misantropo Scrooge (tre viaggi, oltre le leggi di tempo e luogo, guidato da spiriti, come nella Commedia), e quanto Shakespeare (la verità dei fantasmi, la realtà folgorante e svelante del sogno)! Analogamente a Shakespeare, Dickens, ovunque ma qui con molta più evidenza, fonde la visione con la realtà quotidiana e mescola, come il maestro, il registro tragico a quello fiabesco e a quello comico.

Credo che lo stupore che ancora oggi genera, all’improvviso, questa storia incantevole, sia lo stesso che colpì me, bambino: il miracolo della notte di Natale, certo, ma anche l’accettazione dello spirito come entità non ingannevole ma anzi buona, la fiducia nell’immateriale, e la vertigine del viaggio nel tempo e nello spazio. Qui, per comprendere il segreto di questo mito, dobbiamo tornare alla letteratura di mare che ha nel capolavoro di Stevenson e in quello di Melville gli astri di riferimento, a cui si aggregano come in una costellazione, Robinson Crusoe, e l’opera di Joseph Conrad.

La letteratura di mare è essenzialmente metafisica: la metafora dell’equipaggio sulla barca, in balia delle onde, è la rappresentazione quintessenziale, elementare del destino dell’uomo che naviga sulle onde della vita, mosse dal destino, a cui il navigatore risponde guardando verso un lontano orizzonte, cercando una nuova riva. Oltre il mare c’è il mondo sconosciuto e l’anelito che ci spinge a imbarcarci, come dice Ismaele in Moby Dick, è l’archetipica attrazione verso l’acqua e il mistero della vita.

Ci si potrebbe domandare: che c’entra il ricco avaro e misantropo Ebeneezer Scrooge, nella sua Londra bancaria e usuraia, in pieno ottocento, con gli eroi che salpano per mare? Non solo c’entra, ma è il loro erede: l’età delle scoperte e della pirateria, e dei tesori sepolti, e delle baleniere, è finita. Il mondo è borghese, non si salpa se non per affari. Ma all’uomo borghese, prigioniero della sua City, una notte, si profila, in forma di sogno o spirito, l’occasione per un grande viaggio, una straordinaria avventura: nel proprio passato, prima, e poi nel proprio futuro, e quindi nel presente che sarà rigenerato. Scrooge potrebbe rifiutare, invece accetta l’invito. Salpa, infatti, con lo spirito, in cielo, il primo e l’ultimo di tutti i mari.

È lui il navigatore che può essere ognuno di noi. Non più il coraggioso esploratore, ma l’uomo che riceve una visita e l’accoglie, segue lo spirito, salpa, alla ricerca di se stesso e del senso ultimo della vita. Nell’età che ha visto l’uomo levarsi in volo con l’aeroplano e toccare in volo il suolo della Luna, Scrooge, il cittadino, l’avaro, l’inaffettivo che diverrà buono, è il nostro modello, il nostro Ulisse, il nostro navigatore, il nostro grande nocchiero.
  • Roberto Mussapi
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun dic 28, 2009 9:35 am


  • Quel tuffo al cuore e i sommessi segni di Dio
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Quel gesto che la notte di Natale ha fatto tremare, risvegliando la memoria di un’altra lontana indimenticata aggressione, si è sciolto in fretta in un sospiro di sollievo: mentre ai medici una ragazza psicolabile balbettava che voleva solo «salutare il Papa», Benedetto XVI si era già rialzato e, tranquillo, aveva celebrato la Messa. Mentre le sequenze dell’accaduto arrivavano negli angoli più remoti del pianeta, l’onda di angoscia aveva già lasciato San Pietro. Una donna fragile nella ossessiva idea di abbracciare il Papa ha valicato, insieme alle transenne, quel buon senso per cui tanti, che pure vorrebbero sfiorare il Papa, si limitano a protendere le mani al suo passaggio. Forse la sovrana calma con cui Benedetto XVI, rialzatosi, ha proseguito verso l’altare indica anche che istintivamente ha percepito la natura di quel gesto, sconsiderato ma non minaccioso.

Chiunque abbia provato a essere in mezzo alla folla mentre passa un pontefice sa quanta è la pressione, e la spinta di quelli che vorrebbero farsi più avanti, nel desiderio di raccogliere una carezza. Nell’istintivo bisogno degli uomini di toccare colui che rappresenta la propria speranza. Accade ai vicari di Cristo qualcosa di ciò che accadeva duemila anni fa in Palestina: una gran folla supplicante che segue, stringe, incalza. Un Papa questo lo sa e, come Benedetto, non si sottrae all’assedio. Anzi, per quanto può stringe mani, e accarezza bambini. (E quei bambini non dimenticano. Quanti romani, ai funerali di Giovanni Paolo II, raccontavano: un giorno, quand’ero piccolo, mi ha fatto una carezza).

E dunque il Papa, mentre i servizi di sicurezza impazzivano, tranquillamente ha ripreso a incedere verso l’altare. Ha celebrato, ha pronunciato l’omelia, come se niente di così strano fosse poi successo. E a chi magari, in basilica o davanti alla tv, attendeva un cenno sull’accaduto, ha parlato di altro. Di Betlemme, e della Parola – ha detto – «che a Betlemme è accaduta». Del caso straordinario di una Parola che è diventata un bambino, così che anche i pastori analfabeti potevano vederla e amarla. (Mentre i Magi, che erano degli intellettuali, hanno dovuto camminare tanto, per arrivare a vedere). Alla folla di fedeli ancora scossa da quel tumulto Benedetto XVI ha parlato dunque di tutt’altro: di segni. Della necessità di «sviluppare una sensibilità per Dio; per i segnali silenziosi con cui egli vuole guidarci; per i molteplici indizi della sua presenza ». In un tempo, ha aggiunto, in cui la mentalità e le esperienze tendono a ridurre questa sensibilità, a renderci «privi di orecchio musicale» per Dio.

Stare attenti, vegliare per riconoscere i segni. Più difficile certo nel nostro rumore quotidiano che in una cultura contadina dove ogni germoglio, o l’onda d’oro del grano maturo, era implicito segno di un patto fra creature e Creatore. Difficile per noi, invece, sommersi da voci, messaggi, bombardati da immagini, scorgere Dio: nella faccia dell’altro, nelle semplici cose quotidiane, e, vistosamente, in ciò che è bello, e che per la sua bellezza ci commuove.

Che è poi la dinamica di quella notte in Palestina. I pastori non accorsero per un comando, o per essere buoni, o per una sperata convenienza. Andarono in fretta, tesi dietro a una luce splendente; dentro la quale riconobbero, come segno, un bambino. Umile segno, ha detto il Papa. Un segno che ha bisogno dell’attenzione del cuore per essere visto. Come un’impronta sul terreno. Chi l’ha lasciata? La risposta è nella libertà degli uomini. (Perché è possibile, nelle stesse identiche tracce, non vedere niente).

E dunque in una notte di Natale in cui tutti si era rimasti attoniti a guardare quel salto, quella caduta, quella mischia – nel tuffo al cuore della memoria, che andava a un giorno lontano – tranquillamente il Papa ha voluto spostare il nostro sguardo da quel fatto eclatante, che tutte le tv ormai rimandavano e rimoltiplicavano. Ha indicato i sommessi, minuti segni con cui nella quotidianità Dio si dice, a chi voglia vederlo. Nella antica certezza che «Unum omnia loquuntur», come si legge nella Imitazione di Cristo . Tutte le cose gridano, infine, una cosa sola.
  • Marina Corradi
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