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Riflessi di lago, specchio di un’anima…

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun lug 09, 2007 10:51 am


  • Piccolo dizionario estivo per meditare sotto l'ombrellone
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Mi hanno chiesto di scrivere un piccolo dizionario "estivo". Cioè che potesse essere letto anche sotto un ombrellone, in tempo breve e con ricadute positive immediate. Eccolo.
      • A come amore - Amatevi, come io vi ho amato. Signore, una parola!

        B come bambini - I nostri bambini o li idolatriamo o li uccidiamo. Possibile che ci sia sempre meno tempo e disponibilità per amarli?

        C come ciao - Il ciao è leggero come un bacio, dolce come un cioccolatino, solido come un abbraccio.

        D come domenica - Giù le mani dalla domenica. Far festa è igiene mentale, tranne che per i milanesi, per i quali è proibito far festa.

        E come Exodus - È il nome che mi è venuto spontaneo quando ho pensato di aprire delle comunità per il recupero dei disperati. L'Esodo non è solo storia di ebrei. È anche la nostra storia.

        F come felicità - Se c'è una parola che affascina, credo sia la parola felicità (ma con la F maiuscola).

        G come guerra - Che diversità c'è tra la pace armata e le guerriglie inventate? Chiedetelo a Gandhi.

        H come handicap - In Italia, Repubblica delle apparenze, delle veline, delle letterine... non c'è posto per le anomalie cromosomiche!

        I come inquinamento - Quello atmosferico uccide più degli incidenti stradali, più della guerra, più dell'Aids.

        L come lavoro - È tra i valori persi in questi ultimi tempi, nella sua versione più significativa e pregnante.

        M come Madonna - Da piccolo ero felice quando nonna Bice ci diceva che la Madonna era nostra Madre. Sorrideva molto di più della mia mamma vera.

        N come notte - Troppe cose accadono di notte. Per Cristo la notte ha segnato le sue ore migliori: la nascita, la cena, la resurrezione... Per i nostri figli, è pericolosa.

        O come Oriente - Da lì sorge il sole, ma tramonta la simpatia degli integralisti.

        P come parola - Una volta serviva parlare. Poi è arrivato il computer. E oggi ci basta cliccare.

        Q come quadro - Tra un quadro e un soqquadro c'è un quattordicenne adolescente.

        R come ricchi - Il Vangelo ci dice che ogni ricchezza puzza di ingiustizia.

        S come semplicità - Signore, perché da qualche tempo ti hanno fatto diventare così complicato?

        T come televisione - Credo che la gente sia meno stupida dei giornalisti e dei politici nonostante la televisione.

        U come umorismo - E se la vera terapia per questo mondo disastrato fosse il sorriso?

        V come veste - Vorrei capire quanto sia ancora credibile il vecchio proverbio tanto citato dai bravi cristiani: «È la veste che fa il monaco!».

        Z come zizzania - Perché la zizzania deve essere recisa così tardi? Nella logica del Vangelo è più facile per la zizzania diventare grano che viceversa.
  • don Antonio Mazzi
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun lug 16, 2007 8:40 am

  • Finalmente in montagna!
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Finalmente in montagna lontano dalla città e da tutte queste cose che succedono ogni giorno: potrò studiare e pregare, meditare e riposare». Sono parole pronunciate da papa Benedetto XVI appena giunto a Lorenzago di Cadore, ove sta trascorrendo un periodo di vacanza.

«Finalmente». Anche il papa si lascia andare ad un avverbio così liberatorio, che dice il suo desiderio di staccare dal ritmo incalzante delle giornate! Nel 2005, pochi mesi dopo la sua elezione, a Les Combes aveva detto che «la vacanza è quasi una necessità». Ci piace un papa che desidera, come un qualunque altro uomo, che ci sia un «finalmente» al termine di un anno intenso. Ci piace, perché copia il desiderio che c'è anche dentro il nostro cuore. E vorremmo pensare, in questo momento, ai tanti che non riusciranno a pronunciarlo e a realizzarlo questo «finalmente» di vacanza. Soprattutto chi è costretto in casa da malattie che si protraggono da tempo, e che, quindi, «costringe» in casa le persone che più lo amano e che lo curano amorevolmente. Ci sono, poi, famiglie che non possono permettersi la «quasi necessità» di un tempo di ferie e che cercano in ogni modo di regalare qualche giorno al mare o in montagna almeno ai loro bambini. Tanti anziani restano soli, infine, proprio quando «finalmente» gli altri vanno in vacanza...

«Finalmente in montagna». Benedetto XVI ci richiama la magia di questa parola che non indica solo un luogo del corpo, ma un destino dell'anima. Montagna dice purezza, altezza... e anche fatica e sacrificio. È la tensione alla vetta unita alla bellezza del cammino. Tranquillità non disgiunta da impegno. Sguardo lungo che sa andare alla meta, senza disdegnare i passi che vi portano. Il «papa teologo» va in montagna soprattutto a studiare - scriverà la seconda parte del suo libro su Gesù e, forse, abbozzerà una seconda enciclica dopo le stupende pagine dedicate a eros e agape - ma il «papa polacco» ci aveva abituati all'immagine dell'uomo di Dio che percorre chilometri in lunghe escursioni. Camminare è il destino della vita quaggiù, e la montagna dice perfettamente la pendenza di questo itinerario terreno, che alterna la salita alla discesa e che regala poche pause per tirare il fiato. Pensiamo alle mille, piccole e grandi, sofferenze fisiche e spirituali che segnano ciascuno di noi. Ogni famiglia ha la sua croce, ed essa è la chiave per aprire la porta di casa e per entrare non da stranieri, con il desiderio di condividere e amare, mettendo il bisogno dell'altro prima del nostro. Dobbiamo proprio imparare a vivere il tempo del meritato riposo come occasione privilegiata per apprendere questo sguardo sugli altri!

«Che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?»: è la domanda che ci troveremo di fronte nel vangelo di questa domenica. Gesù risponde con la stupenda parabola del buon samaritano. Ci insegna che è l'amore a creare vicinanza e non la vicinanza a creare amore.
  • don Agostino Clerici
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun lug 23, 2007 11:13 am


  • Anche la Chiesa deve guardarsi dai suoi "falsi amici"
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Non tutti avranno avuto interesse o modo di seguire la recente trasmissione televisiva dedicata al tema agghiacciante dei preti in cura d'anime resisi colpevoli di gravissimi comportamenti pedofili e di altre violenze sessuali, in riferimento a un reportage della Bbc che è stato mandato in onda nella stessa serata, con la presenza anche del giornalista che l'ha realizzato. Ma la maggioranza ha certo letto o sentito parlare del reportage, della trasmissione e delle dispute, soprattutto preventive, che l'hanno accompagnata, della forte presa di posizione di non poche personalità politiche, che hanno tentato di impedire la trasmissione stessa, dichiarando di farlo per difendere la Chiesa da una trappola, da un attacco sleale guidato dall'intento di processare la Chiesa sulla base di notizie-spazzatura.

Sarebbe davvero stato meglio che la trasmissione non venisse effettuata? Va ricordato che il filmato, oltre a essere stato trasmesso in molti altri Paesi, era visibile in internet (in una versione, anzi, più ampia) e milioni di persone, anche in Italia, l'avevano già visto. Certo, vederlo è stato molto doloroso, per ogni essere umano; più doloroso per i cattolici, che conoscono la dedizione della stragrande maggioranza dei loro preti; ancora di più per i preti degni di questo nome che spendono (e perdono) la loro vita a servizio dell'Evangelo e della famiglia umana.

Impressionante e sconvolgente per il dolore delle vittime, per la devastazione della loro anima e vita conseguente alle violenze subite, il filmato - al quale si possono anche muovere sensate obiezioni per come vi viene presentata la reazione delle autorità ecclesiastiche di fronte ai casi loro segnalati, ma che non pretende né di essere un documento giudiziario, né di essere perfetto - intendeva sollevare con forza e anche con rabbia un problema doppiamente drammatico; quello dei casi di pedofilia nel clero, certo rari e sporadici, ma non così eccezionali come si sarebbe portati a credere, e quello di una reazione ecclesiastica che, almeno in certi casi, è stata non abbastanza pronta e radicale, né sollecita nel prestare tutto il soccorso necessario alle vittime.

In trasmissione erano presenti e sono intervenuti dei rappresentanti della Chiesa cattolica; monsignor Rino Fisichella, in particolare, ha avuto tutto il tempo e l'opportunità di esporre il proprio punto di vista, di chiarire la posizione della Chiesa - che non solo condanna senza riserve tali abusi ma invita a denunciarli, a portarli alla luce - e di precisare il senso della richiesta di silenzio imposta in passato, sotto pena di scomunica, ai colpevoli, alle autorità ecclesiastiche indaganti e alle stesse vittime. Una riservatezza che riguardava la fase istruttoria e con la quale non si intendeva - ha detto monsignor Fisichella - impedire alle vittime di denunziare gli abusi alla magistratura ordinaria, bensì impedire il rischio di diffamazione nei confronti di persone eventualmente accusate a torto.

Sarebbe stato meglio che tutto ciò non venisse detto al grande pubblico, che magari aveva visto il filmato in internet?

Le importanti puntualizzazioni di monsignor Fisichella, certo, non cancellano la fondata impressione che il silenzio sia andato ben oltre e in direzioni errate, che in alcune autorità il desiderio di mettere a tacere la cosa, di evitare lo scandalo abbia prevalso sul dovere giuridico ed evangelico di fare giustizia.

Il fenomeno pedofilia si sta svelando assai ampio e si sta estendendo, almeno in versione virtuale; dietro la quale ci sono però bambini veri. Occorre riconoscerlo, soccorrendo le vittime passate; tutelando quelle potenziali, assicurando alla giustizia i colpevoli e mettendoli in condizioni di non più nuocere. Ma non basta. Occorre prevenirlo, vagliando molto meglio i candidati a funzioni delicatissime, come i pastori di anime, i maestri, gli educatori. Occorre individuarlo come una grave patologia, offrendo ai pedofili percorsi di cura.

«I panni sporchi si lavano in famiglia»; è un proverbio insidioso e tentatore per tutte le grandi istituzioni. Che anche nella Chiesa vi si ceda, fa parte del peccato dal quale nessuno è immune; non negarlo, ma riconoscerlo umilmente, chiederne perdono ed emendarsene: in questo sta la grandezza della Chiesa e di ogni cristiano.

Impedire che il reportage fosse trasmesso avrebbe radicato più profondamente il convincimento che la Chiesa non voglia ammettere il problema né assumersene la responsabilità, voglia coprire non certo i responsabili di quei misfatti, ma le autorità ecclesiastiche, quando abbiano privilegiato il buon nome della istituzione rispetto all'interesse delle vittime e alla necessità assoluta di impedire ai colpevoli di reiterare il crimine.

Chi apprende il francese viene tradizionalmente messo in guardia da les faux amis, i "falsi amici" che, nella fattispecie, sono parole o espressioni simili a quelle italiane, ma che hanno tutt'altro significato: anche la Chiesa deve guardarsi dai suoi "falsi amici".
  • Maria Cristina Bartolomei
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun lug 30, 2007 2:11 pm


  • Per cosa vale la pena…
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Forse è arrivato il momento di dire chiaramente che nella vita ci sono più cose più importanti del denaro e che occorre cercare di migliorare il senso del benessere generale, inteso come valore del vissuto dei singoli, qualità dei rapporti tra le persone, importanza della cultura di un popolo, rilevanza dei luoghi e della storia di una comunità.

Non credo che tutto questo si possa veicolare con la politica, o solo con la politica, né tanto meno per legge, o attraverso il mercato, che più di tutti, di tali concetti è antagonista per "costituzione". Penso, invece, che sia più raggiungibile prima con l'impegno individuale, che arriva per una presa di coscienza della situazione in cui versa la nostra società e la persona soprattutto che ne fa parte, e poi, sociale, grazie all'aiuto degli organismi fondamentali di una comunità: la famiglia, la scuola, le istituzioni, il lavoro.

Alla base di tutto però c'è da domandarsi per che cosa vale veramente la pena vivere? Grazie a che cosa l’uomo riesca ad esprimere il meglio di sé, inteso come forte partecipazione, coinvolgimento, coraggio, entusiasmo, sogno? Per effetto di quali cose egli si sente ricompensato, sereno, appagato, vivo e capace di percepire rivoli di felicità?

La risposta, credo, non può che riferirsi al sentimento, alla passione, all'amore. Il resto ha valore sì, ma è un valore che non appaga, che non riempie, che non entusiasma, che non coinvolge intensamente come il sentimento. Di questo è un corollario, un accessorio a volte utile, che vissuto come tale e di riflesso ad esso, può contribuire a creare un ulteriore alone di benessere. Ma è il sentimento vero, quello che alberga nel rapporto vissuto con responsabilità e condivisione di una coppia, nella famiglia, nell'amicizia, nel senso di appartenenza, che fa ricco l'essere, e lo dispone con vivacità, valore e stupore, alla vita.

Senza di esso l'uomo semina sui sassi. Non incide positivamente nel suo e nell'altrui percorso. Non da a questo quel respiro lungo e intenso di cui ha invece bisogno per esprimersi e offrire significato alla sua presenza.

Quante disfunzioni della nostra società potrebbero essere superate e vinte se alla base di ogni cosa ci fosse la responsabilità del sentimento.

Sentimento nel pensare, nell'osservare, nel fare, nel dedicarsi, nel rapportarsi, nel decidere, nel donarsi. Responsabilità che è foriera di quel benessere generale di cui dicevamo. La sola in grado di limare e giustamente indirizzare le logiche attuali del profitto, del mercato, del successo individuale e, non ultimo, della politica. La sola capace di farci riassaporare nel miglior modo e nei tempi giusti, il gusto della vita, quello in cui i sensi, il pensiero, la volontà, l'animo e il cuore siano in armonia, integrati all'armonia del tutto.
  • Romolo Paradiso
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mar set 04, 2007 11:25 am


  • Esercizi spirituali per laici: guardare negli occhi il mondo
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Gli esercizi spirituali sono certamente una bella e rigenerante abitudine per molti. Per tantissime persone, soprattutto laici con impegni lavorativi e familiari, poter disporre, non si dice del "mese" ignaziano, ma della classica settimana è però un miraggio irraggiungibile, almeno per larghe fasi della loro vita.

Ma a che cosa ci si esercita negli esercizi spirituali? Vivere e camminare nella presenza di Dio, nella costante consapevolezza della inabitazione in noi dello Spirito e della nostra vita in Dio, della nostra vita nascosta con Cristo in Dio, nella coscienza del nostro essere Corpo di Cristo nella storia, in attesa operosa della piena manifestazione del regnare di Dio nel ritorno del nostro unico Signore Gesù Cristo: tutto questo non è cosa che ci venga naturale.

È il "naturale" respiro della nostra vita soprannaturale, donataci per Grazia, ma l'usura delle preoccupazioni quotidiane rischia assai spesso di farci andare in apnea, di renderci incapaci di questo sguardo contemplativo. E tale respiro, tale visione ci vengono solo dall'operare in noi della Parola vivente di Dio, che ci raggiunge mediante l'ascolto - nel silenzio - della parola biblica, mediante il comunicarsi a noi del Cristo glorioso nei Sacramenti, mediante umane parole che ci riconducano a questa attenzione, che nella nostra vita è e deve essere, come formula Dietrich Bonhoeffer, quello che è il cantus firmus per le composizioni polifoniche: la melodia di fondo di riferimento, cui tutte le altre voci si rapportano in creativa libertà e dalla quale sono sostenute.

Chi non può riservare esclusivamente a tale immersione una serie di giorni può però, soprattutto nella pausa estiva, trovare momenti per riprendere contatto con la più profonda verità del nostro esistere. Ma, forse, anche così, i nostri esercizi non sono completi.

Dio, infatti, «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3, 16). E noi: amiamo altrettanto il mondo? Chi ama, vuoi conoscere. Ci dedichiamo abbastanza a conoscere come funziona i mondo, come si vive nel mondo, onde poter poi rispondere alle sue necessità? Occorre prendere coscienza dei problemi e di ciò che li produce, occorre smettere l'abitudine di considerare le situazioni e i loro rimedi solo a breve o brevissimo termine, solo in prospettive anguste. Occorre meditare a fondo sull'ordine del mondo e chiedersi quali siano le cause ultime di tanti mali e tante sofferenze. Occuparsi di politica e di economia è una urgente necessità per chi voglia vivere in verità la sua dimensione spirituale. Come stava dicendo monsignor Romero quando venne assassinato: «Ogni sforzo per migliorare una società piena di ingiustizia è benedetto da Dio». Ma questo richiede la presa di coscienza dell'ingiustizia, delle sue radici e dimensioni.

Purtroppo dovremo scontrarci con un'idra a sette teste: con l'onnipresente e onnipervasiva logica del profitto, dell'interesse, del guadagno. Questa è la logica disumana che domina i governo del mondo. Lo sanno molto bene i missionari, che denunciano, per esempio, come nel Terzo mondo tre bambini su cinque muoiano di diarrea, perché la cura (acqua, sale, zucchero) costerebbe così poco da non poter costituire un business; lo sa molto bene il pontificio Consiglio per la pastorale della Salute, che ha contrattato con un laboratorio (in Italia) la produzione di farmaci antiretrovirali al costo di 217 dollari per il trattamento di un paziente affetto da Aids, contro i 15 mila dollari richiesti dalle multinazionali farmaceutiche. In Ghana, dove i farmaci vengono inviati, si è passati da 30 a 2 morti al mese tra i ricoverati.

Davide vincerà Golia: è la fondata speranza della nostra fede, ma dobbiamo conoscere e riconoscere la forza di Golia. Ora si manifesta, per esempio, nei progetti di brevettare il Dna, far commercio e guadagno sulla vita; nel progetto di privatizzare l'acqua, che avrebbe effetti nefasti ovunque, ma devastanti soprattutto in Africa.

Non possiamo assistere inerti alla trasformazione di tutto, di tutto, in merce; non possiamo accettare che il valore di ogni cosa sia dato dal suo prezzo al mercato, dal suo potere di far guadagnare denaro.

Non possiamo accettare passivamente questa logica, che passa sotto il nome di modernizzazione e di sviluppo. Uno sviluppo che sta uccidendo il nostro pianeta di inquinamento e di guerre, del resto tra loro connessi: come testimonia suor Rosemary Lynch (francescana, statunitense, ora 90enne), arrestata molte volte per le forme di disobbedienza civile e per le veglie quaresimali davanti a deserto del Nevada, luogo di esperimenti nucleari, con gravissime conseguenze sulla natura e le persone.

Ecco: se nell'estate avremo trovato mezz'ora per cambiare sguardo e vedere in trasparenza la follia (egoista e criminale) che sta sotto l'apparente "logica" che governa il mondo, per riconoscere in noi eventuali inconsapevoli connivenze e cedimenti a tale logica, considerata come ineluttabile, avremo fatto un importante esercizio spirituale.
  • Maria Cristina Bartolomei
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun set 10, 2007 4:56 pm


  • Se anche curare una pianticella aiuta a pregare e a essere solidali
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Per il compleanno mi hanno regalato una piantina sempre verde che vive in acqua. Non so come si chiami, né da dove provenga. Mi hanno detto che appartiene al genere dei ficus che vivono in Asia e in Cina. È una pianticella, tipo alberello, con foglioline molto sottili: le foglie più grandi sono di colore verde intenso, quelle più giovani hanno un colore più tenue e striato di giallo. Il fioraio ha assicurato che può vivere con poca luce; l'importante è che abbia acqua sufficiente. L'ho posta sulla scrivania e ho notato che viveva sì, ma con un po' di affanno.

Essendomi dimenticato qualche volta di aggiungere acqua, le foglie tendevano ad appassire. Per non farla soffrire l'ho posta alla luce del balcone, sempre in ombra e mi sono impegnato a non farle mancare ogni mattina la quantità d'acqua necessaria. Da quando l'assisto con regolarità la pianta risponde alla grande. Nelle intersezioni dei rametti vedi nascere piccoli germogli che, giorno dopo giorno, crescono fino a diventare foglioline piccole, poi più grandi e infine adulte. L'impressionante è che la crescita è giornaliera. Ti accorgi a occhio nudo della vita della pianta.

Me ne sono talmente affezionato che ogni mattina la controllo e, per quando sono fuori, ho dato disposizione che sia curata. Sembra sia diventata parte della mia famiglia. All'inizio mi sono meravigliato di tale sentimento, poi l'ho elaborato e ho constatato che era giusto. In fondo anche una pianticella è un essere vivente e ha bisogno delle condizioni ideali per vivere: luce, acqua, nutrimento, ambiente. Se dovesse morire, un po' mi dispiacerebbe; sono infatti preoccupato per l'inverno.

A ben pensare, quella pianticella esprime le esigenze di attenzione e di cura di ogni creatura. Chiunque ha bisogno di requisiti ideali per vivere: se gli sono assicurati, la vita si svolge con profitto e in serenità; vale per le piante, ma anche per gli animali e soprattutto per le persone.

Sembrerà strano, ma anche quella pianticella mi aiuta nel procurare le migliori condizioni di vita per chiunque incontro. Come se la pianta facesse parte dell'attenzione per l'accoglienza e per la cura delle persone. Ma il pensiero è andato più in là, fino a raggiungere Dio: essa esprime la cura che Dio ha avuto nella creazione e che continua ad avere per la vita delle persone.

Nel nascere e crescere continuo dei teneri germogli è nascosta la forza del nascere, del crescere, del vivere. Accudirla mi aiuta a pregare: a rivolgere a Dio la lode per la sua grandezza, a ringraziarlo per i mille doni concessi, molti di più che alla pianticella. Soprattutto mi sprona a dare dignità a ognuno perché abbia il necessario.
  • Vinicio Albanesi
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun set 17, 2007 10:52 am


  • Non chi dice «famiglia, famiglia» ne serve sempre la causa
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L’offerta televisiva, come si sa, è (con le debite eccezioni) assai scadente; governata come è dalla logica del profitto pubblicitario, cerca di catturare il favore del pubblico soddisfacendone i più vacui e superficiali desideri e gli istinti peggiori; un problema che viene sollevato sempre di nuovo, al quale si risponde che gli utenti hanno il potere di spegnere la televisione.

Una falsa soluzione, mentre ci sarebbe grande bisogno di un maggior numero di programmi di qualità, per adulti e bambini, in tutti i settori, compreso l'intrattenimento, che non dev'essere necessariamente vuoto e volgare. Sia lecito qui aggiungere che qualche (insufficiente) contrappeso sarebbe realizzabile. In Germania, per esempio, esiste il canale Bibel Tv che trasmette solo riflessioni bibliche, prediche e testimonianze di vita cristiana, di tutte le confessioni: un "sogno impossibile", nella cattolicissima Italia?

Una emittente televisiva italiana (La 7) ha recentemente mandato di nuovo in onda una fortunata serie (S.O.S. Tata) la cui originale formula (britannica) è stata replicata in molti Paesi. Famiglie in difficoltà con i loro bambini (dai 2 ai 12 anni) ottengono di essere seguite per una settimana nella loro vita giornaliera da una esperta dell'infanzia che, dopo;aver osservato per un paio di giorni le dinamiche familiari, propone i necessari interventi, dei quali per qualche giorno guida l'attuazione. Certo, il "prezzo" da pagare per queste famiglie è l’esporsi a essere riprese: un piccolo cedimento alla logica del reality, ma applicata per il meglio e, quindi, più che perdonabile. Nel panorama desolato dei palinsesti, la trasmissione è apparsa una delle rare oasi, non pretenziosa, ma sensata e utile. Utile alle famiglie che sono state "soccorse", utile a molte altre famiglie con bambini, per ispirarsi nelle soluzioni di tante situazioni, ma anche assai utile, in generale, a far riflettere sulla famiglia.

Nelle trasmissioni apparivano evidenti gli errori pedagogici, più o meno gravi, compiuti dai genitori, pur mossi dalle migliori intenzioni e animati da grande buona volontà e prontezza a lasciarsi correggere. Se i genitori più attenti e dediti, del tutto alieni dal far violenza ai loro figli, sbagliano così tanto, che cosa accadrà là dove le disposizioni non sono ottimali?

Un papà ha osservato: «Ci troviamo a fare i genitori senza alcuna preparazione; nessuno ci ha insegnato come educare i nostri figli». Neppure per i genitori adottivi, che pure debbono passare una lunghissima trafila prima di essere dichiarati idonei, è poi previsto un accompagnamento psicopedagogico. Una grave lacuna di attenzione e responsabilità sociale che, verso la famiglia e 'infanzia, si limita alle cure mediche, prima e dopo la nascita, e prevede l'intervento psicopedagogico solo in casi di patologie, non come normale sostegno. Certo, la libertà educativa dei genitori è sacra. Ma l'obbligo della scuola guida e della patente coarta forse la scelta delle mete dei propri viaggi?

La famiglia è un luogo di interazioni delicatissime e di dinamiche profonde, che portano con sé tutte le luci ma anche le ombre e le incertezze delle persone coinvolte. Non a caso è anche il luogo prevalente in cui si esercita la violenza su donne e bambini, talora teatro di sconvolgenti tragedie. E questa non è una depravazione dei nostri tempi, ma è sempre accaduto e, anzi, in misura molto maggiore. È stato fatto osservare da psichiatri come in famiglia si attenui la sorveglianza su se stessi, ci si lasci andare, non ci si attenga alle regole di comportamento che si osservano all'esterno: questo è liberante, ma anche pericoloso. Ma chi educa alla vita in famiglia e chi educa gli educatori?

Moltissime famiglie sono inoltre gravate dai problemi del lavoro, che non c'è o è precario, dal reddito insufficiente, dalla carenza di aiuto nell'assiste-re malati e anziani; dai problemi abitativi, legati all'esorbitante prezzo degli alloggi, alla difficoltà di trovar casa e, quando la si trovi, alla angustia degli spazi che ci si può permettere. Persone schiacciate dall'esterno possono, sì, trovare conforto negli affetti familiari, ma possono anche finire con lo sfogare in famiglia la loro frustrazione, rabbia, impotenza, estenuazione. Persone che non possono trovare in casa il minimo spazio di intimità, di solitudine, di silenzio, come potrebbero mantenere serenità, rispetto reciproco, capacità di vera relazione, che comporta sempre il pendolo tra vicinanza e distacco?

Vogliamo credere che la recente giornata italiana per la famiglia (perché “Family day”, in inglese?) non fosse solo contro un progetto di legge a tutela di chi non vive in famiglie, ma sia stata una gioiosa e corale testimonianza del valore della famiglia. Una cosa bella. Ma dirlo non basta, occorre poi operare concretamente, non contro, bensì a favore: non chiunque dice «famiglia, famiglia» ne ha già servito la causa.
  • Maria Cristina Bartolomei
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun set 24, 2007 10:36 am


  • Il “paese spaesato”
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Il rischio di "un Paese spaesato": nella prolusione di mons. Bagnasco c'è un'analisi della realtà italiana largamente condivisa. E, nello stesso tempo, c'è una certezza, che tocca le corde più profonde dell'ethos collettivo: "L'Italia merita un amore più grande!". Sano realismo, dunque, e insieme la saldezza, la certezza dell'impegno e del contributo dei cristiani, che nasce dalla concretezza dell'esperienza della vita: "La componente sana della società è ampiamente maggioritaria: nel silenzio dignitoso e in spirito di sacrificio, con ancoraggio alla fede cristiana o per ispirazione a quell'umanesimo non astratto né generico, che nel Vangelo trova radici sempre fresche, essa vive i propri doveri, vive la realtà della famiglia e le varie relazioni, vive la sfida irripetibile della propria esistenza terrena con serietà, onestà e dedizione". Qui forse c'è il cuore del ragionamento del presidente della CEI e, nello steso tempo, il nesso profondo con il magistero del Papa.

Cosa proclama Benedetto XVI? In buona sostanza invita, in particolare, proprio noi, l'Occidente, ad allargare i nostri spazi di razionalità) per fare posto alla fede, cosicché ragione e fede, unite in modo nuovo, superino l'orizzonte chiuso del relativismo, cioè di una certa linea culturale, ma anche politica, esistenziale, etica, che ha finito col provocare un senso generale di stallo.

Aveva detto a conclusione del suo recente viaggio in Austria, Benedetto XVI che la "rassegnazione che considera l'uomo incapace della verità", che deriva dalla chiusura di cui si è detto, "è il nocciolo della crisi dell'Occidente, dell'Europa". Infatti, se per l'uomo non esiste una verità, egli, in fondo, non può neppure distinguere tra il bene e il male. Non è un discorso puramente filosofico e teologico. È cultura viva.

Questo non significa indire crociate integralistiche, ma con pazienza e determinazione applicarsi perché si aprano gli orizzonti limitati, perché, nella libertà, la religione, la fede, possano dare il loro contributo a molteplici livelli.

Aprendo il Consiglio permanente della CEI, mons. Bagnasco ha applicato questo metodo alle tante emergenze dell'Italia di oggi, a partire dall'"emergenza educativa", fino ai pressanti problemi dei giovani, delle famiglie, del Mezzogiorno, della formazione professionale.

Questo vale anche per la politica, oggi appunto più che mai in crisi. Non è cambiando l'ordine degli addendi che cambia il risultato, come si è ben visto già diverse volte, né invocando un generico nuovo. Bisogna ampliare gli orizzonti. Non è facile, perchè non basta strillare. Così per la politica italiana quel nuovo che tutti cercano, ha il sapere antico e sempre vivo del bene , comune, dei valori non negoziabili, della responsabilità e della coerenza delle persone, lontano dalle ribalte strillate, fedeli alla vita vissuta.
  • Francesco Bonini
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun ott 01, 2007 2:40 pm


  • Il piccolo ateo
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Quarant’anni fa c’era «Il piccolo chimico» tra i sogni di un fanciullo, ora sui banchi scuola è spuntato «Il piccolo ateo». Il manuale in 52 pagine a caratteri molto grandi (scritto da un professore napoletano, tale Calogero Martorana) circolerebbe in varie scuole del Nord Italia. Se il kit con provette e matraccio permetteva di ripetere in casa (non senza qualche rischio) esperimenti di chimica, questo zibaldone per ragazzi vorrebbe convincerli che Dio non esiste e la religione cristiana è un colossale imbroglio.

A sfogliarlo vien quasi da ridere, dato che gli argomenti utilizzati sono assai esili da un punto di vista razionale. Ma c'è poco da ridere! L'autore usa abilmente un linguaggio accessibile ai bambini e cerca di rispondere a quelle domande che ingenuamente i fanciulli pongono riguardo a Dio e alla religione. Domande a cui, spesso, i genitori non sanno o non vogliono rispondere. Naturalmente il professore napoletano (che ha un suo sito internet dal linguaggio assai meno accattivante e con punte di autentico livore anticlericale) afferma che egli vuole solo mettere i bambini in condizione di conoscere tutto prima di decidere a cosa credere. Un vero benefattore dell'umanità! Uno che provvidenzialmente apre gli occhi di bambini innocenti, magari rapiti da qualche suora e già battezzati, e plagiati da qualche prete e già costretti a fare la prima comunione e la cresima.

Non voglio entrare nel merito di come un libricino del genere possa davvero circolare nelle scuole (un'interpellanza in merito è stata presentata al ministro competente). Il laicismo, che non vuole catechismi in classe, evidentemente veicola poi il suo anticatechismo, in nome del solito appello alla dea ragione. Mi interessa qui segnalare solo due i aspetti preoccupanti della vicenda.

Il primo è connesso alla ragionevolezza che, proprio nella prima età scolare, diventa progressivamente il vero filtro della vita. Ebbene, il manualetto del prof. Martorana, nel tentativo di distruggere sul nascere la fede, toglie fondamento alla fiducia, che è, si badi, la ragionevolezza del 95% dei nostri atti quotidiani. In nome di una pretesa ragione sperimentale che vorrebbe estendere su tutto le sue maglie, si insinua nel bambino il veleno del dubbio su quello che dico alla mamma o su quello che la mamma mi dice. Operazione di pessima pedagogia, oltre che di cattiva filosofia.

Il secondo aspetto non riguarda il manuale del piccolo ateo. Che, anzi, diventa un campanello d'allarme per mettere alla prova la passione educativa che abita nelle nostre famiglie e dentro le nostre parrocchie. I fanciulli portano dentro, come una impronta di autentica umanità, le domande su Dio e sulla religione. A che punto siamo noi cristiani adulti con le nostre risposte? E facciamo ogni giorno l'ineliminabile fatica di trovare il linguaggio giusto per mettere queste risposte nel cuore e sulla bocca dei nostri bambini?
  • don Agostino Clerici
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mar ott 09, 2007 5:38 pm


  • Non pagare le tangenti, un dovere di tutti i cristiani
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Ho 52 anni e sono presidente del Consiglio d'amministrazione della Guajana ferramenta. Il giorno 31 luglio scorso alle ore 4,30 circa ho visto i capannoni della mia azienda andare in fumo per mano mafiosa, senza potere far nulla. Io sono cattolico e i miei maestri sono stati i gesuiti.

Svolgo un servizio di volontariato da circa 4 anni all'ospedale Villa Sofia di Palermo, guidato da un camilliano, padre Vincenzo Capozza, e faccio parte della Famiglia camilliana laica. Porto la comunione agli ammalati, non discriminando gli onesti dai ladri, i poveri dai ricchi, i giusti dai peccatori, assisto tutti con amore e fraternità. Sono un ministro straordinario dell'Eucaristia e ho ritenuto sempre inconciliabile la mia fede religiosa con il pagamento di tangenti alla criminalità, come ritengo inconciliabile non dare la giusta paga ai dipendenti o non pagare tutte le tasse allo Stato («Date a Cesare quel che è di Cesare...»). La tangente, però, è la cosa più grave di tutte, in quanto finanzia il traffico di armi, di droga, l'usura, la prostituzione, l'illegalità in genere.

Un cristiano non può sovvenzionane la criminalità e, alla domenica, avvicinarsi alla Comunione. Non può avere sulla coscienza tanti morti per droga o per guerre provocate da questi venditori di armi che spingono le nazioni a lasciare i tavoli del dialogo per iniziare conflitti devastanti, così che loro possano continuare il loro turpe traffico. Un cristiano non può, per salvare i propri interessi, condannare il prossimo a morte pagando la tangente: «Mors tua, vita mea». Perché Cristo ha scelto di morire, per dare la vita agli altri.

Un cristiano non può salvarsi l'anima se persiste nel pagare la tangente, finanziando le attività del demonio. Non c'è salvezza per chi si mette contro Dio e per i fiancheggiatori di coloro che danno la morte. I primi cristiani preferivano essere sbranati dalle belve nel Circo Massimo, pur di non abiurare alla propria fede, adorando la creatura (l'imperatore romano) al posto del Creatore. Oggi, dov'è finita questa fede, dov'è la coerenza? La sequela di Cristo si ferma di fronte alle minacce?

Gli uomini di buona volontà devono denunciare i prepotenti e chi vuole vivere alle spalle degli altri senza alzare un dito. Vorrei che le Chiese cristiane dichiarassero da tutti i pulpiti questi concetti, comprensibili e condivisibili anche da chi cristiano non è. Forse le cose cambierebbero. Non si può essere acquiescenti di fronte a un fenomeno così vasto e imponente, che non tocca solo il Meridione d'Italia e che anzi sta risalendo lo Stivale come una cancrena che nessuno vuole fermare.

Io un giorno ho fatto la mia scelta e questa forza e coerenza mi viene solo da Dio. Mi auguro che questo messaggio indirizzato ai cristiani (cattolici, evangelici, ortodossi) venga raccolto non solo dai leaders religiosi ma da tutti gli uomini di buona volontà. E sarebbe bello poter ribadire questi concetti davanti al Papa insieme alle associazioni antiracket della mia regione.
  • Rodolfo Guajana - Palermo
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La famiglia: un canto alla vita

Messaggio da alfy » gio ott 11, 2007 12:19 pm

  • La famiglia: un canto alla vita
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Guardando l'esempio di Gianna Beretta Molle e lasciandosi illuminare dalla sua vita si scopre, con stupore, che la sua esistenza è stata una sinfonia: un inno all'amore!
Le sue giornate sono state come tante note d'amore che hanno fatto risuonare, con le sfumature più diverse, il Sì di Maria di Nazaret: cioè il Sì alla vita.
Vi fu un'esperienza decisiva, che rivelò a Gianna, in modo del tutto particolare, che "Dio è amore" e dona la vera Vita.
All'età di quindici anni ella partecipa ad un ritiro spirituale, nel quale Dio le tocca le corde più intime dell'anima e le fa iniziare, in maniera personale, l'inno alla vita: e Gianna consegna a Dio un Sì radicale e incondizionato attraverso le mani di Maria. Dalla preghiera di quei giorni, infatti, scaturiscono queste parole: "O Maria, nelle tue materne mani mi rimetto e mi abbandono... A Te interamente mi consacro pregandoti di ricordarti che sono cosa e pessessione tua. Guardami e difendimi, o dolce Madre, e in ogni istante di mia vita presentami Tu stessa al tuo Figlio Gesù".
Gianna, in quei momenti di grazia, comprende che nel giorno del suo Santo Battesimo era iniziata la più fantastica delle avventure che l'uomo possa vivere: Gesù l'aveva unita alla Sua morte e Resurrezione, introducendola, come figlia amatissima nella sua divina famiglia. Questa illuminazione la renderà uno strumento docile nelle mani di Dio; e Dio farà vibrare tutte le corde dell'anima di Gianna per far sentire a tutti il canto della vita.
Da allora, ogni ambito della sua vita diventa un tempo della sua Sinfonia d'amore. Simpatica, gioviale ed affidabile, come aderente all'Azione Cattolica, condivise con coraggio ed entusiasmo la fede. Sentiva molto forte ed urgente la chiamata ad essere apostola del Signore per far scoprire a coloro che non conoscevano la Verità, la "sublimità della conoscenza di Cristo Gesù" (Fil. 3,8).
Come medico vedeva nella sua professione una missione altissima. Era consapevole che nel curare i corpi dei suoi ammalati, ella toccava il corpo di Gesù, visitava Gesù: "Ogni volta che aveva fatto queste cose ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me" (Mt 25,40). Non solo. Era certa che il medico avesse anche il compito di accompagnare con la parola, il sorriso e l'affabilità il malato tra le braccia di Dio. Un giorno si espresse in questi termini: "La nostra missione non è finita quando le medicine più non servono. C'è l'anima di portare a Dio e la nostra parola avrebbe autorità".
....
L'inno alla vita di Gianna raggiunge il suo vertice nell'ultimo sacrificio. Ella, nel luglio del 1961, riceve il dono di una nuova gravidanza, da lei fortemente desiderata, ma fu una gravidanza difficile, rischiosa e sofferta. La sua risposta di fronte a tale situazione fu perentoria: "Sono pronta a tutto pur di salvare la mia creatura". Parole d'amore vero che profumano di santità e che sfociarono nel suo ultimo Sì alla volontà di Dio: "Io faccio la volontà di Dio e Dio provvederà ai miei bambini".
Quale lezione di fiducia in Dio! Quale lezione di amore per la vita! Quale lezione di vita!
Venerdì Santo venne ricoverata in ospedale, Sabato Santo diede alla luce Gianna Emanuela e la mattina del Sabato in Albis, Gianna emise l'ultimo respiro nella sua casa. Un respiro che si unì a quello di Gesù in croce: "Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine" (Gv 13,1).
....
E' lì, nella famiglia dei genitori profondamente cristiani, che il seme della santità della piccola Gianna è cresciuta ed è germogliato. E' lì che ha "imparato Gesù", respirando i profumi dell'amore e della pace. Quell'amore e quella pace che scaturiscono dalla Messa quotidiana, a cui i suoi genitori partecipavano con tanta devozione, e che prolungavano nella recita quotidiana del Santo Rosario che trasferiva in casa il respiro della fede.
....
Signore, moltiplica questi esempi per ridare al mondo l'entusiasmante gioia dell'amore che oggi molti non conoscono più.
Prendiamo l'esempio di Gianna per trasmettere nel cuore di tutti il fascino del Sì alla vita e del Sì all'amore

ANGELO COMASTRI
Arcivescovo-Delegato Pontificio di Loreto
Ave Maria

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun ott 15, 2007 3:10 pm


  • Anche spingere una barella può essere fare teologia"
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Pensiamo spesso troppo male dei nostri giovani. Ci sono anche, e non sono pochi, giovani come l'infermiere che ci scrive. Le sue parole sono da ascoltare, senza altri commenti:

«Sono un giovane poco più che trentenne e lavoro come infermiere presso un noto ospedale milanese. Dopo il diploma e il militare ho fatto alcune brevi esperienze di lavoro e sono finito a fare il barelliere presso il reparto di radiologia-neurologia. Nel frattempo, mentre lavoravo, ho frequentato il quadriennio teologico e ho conseguito il baccalaureato in una Facoltà teologica romana. Non ho trovato nessuno che mi ha dato l'opportunità di insegnare religione a scuola. Non avendo mai perso la passione per lo studio, colpito dall'ambiente ospedaliere, ho pensato di iscrivermi al corso di laurea in infermieristica. Nel novembre scorso mi sono laureato, mi piace lavorare in ospedale dove mi trovo bene, nonostante gli alti e i bassi».

«Le garantisco», continua, «che lavorare e stare a fianco di chi soffre, facendolo bene, è già praticare la teologia. Non servono i bei sermoni, lezioni rompicapo di certi "luminari" se poi non si traducono e snocciolano nella realtà concreta della vita. La vera teologia è al letto del malato, di chi soffre, delle ragazze madri abbandonate a loro stesse, degli emarginati... Il letto del dolore è fontana di carità e di amore. Lì si innalza la croce della sofferenza che ci porta all'amore supremo, alla felicità di "essere". Ma si deve anche piegare la "cannetta", ci si deve sporcare le mani, affrontare umiliazioni, ingoiare "groppi" amari. Penso a molti maestri di testimonianza vera e sincera come don Tonino Bello, padre David Maria Turoldo, madre Teresa di Calcutta, don Lorenzo Milani, don Primo Mazzolar! e altri giganti della carità. Nella mia vita ho studiato molto e mi piacerebbe studiare ancora, in particolare nell'area medico-sanitaria ma anche in quella umanistica (informazione, relazioni con le persone) perché è importante mettere al centro l'uomo in tutto il suo essere. Ma vivere senza vivere ciò che credo e dico di credere non mi fa sentire a posto, ma solo un fuggitivo, un fuori luogo».

«Le scrivo dopo aver letto il suo libro Elogio del somaro (pubblicato dalla San Paolo). Le molte domande che pone sono grandi interrogativi a cui non è semplice dare una risposta e forse non ce n'è una certa. È vero che si deve perdonare ma è anche vero che sono necessari incontri significativi, messaggi caldi, emozioni scambiate, appartenenze forti, sentimenti positivi. È bene anche essere decisi, stabili, al contempo comprensivi».

«Oggi si percepisce un esasperato narcisismo e cinismo, un nauseabondo pessimismo. A mio modesto parere è necessario essere se stessi, sinceri, umili, dal cuore tenero ma fermo. Sento il bisogno di dire a gran voce che dobbiamo avere coraggio, osare di più! Karol Wojtyla, grande comunicatore, ci ha detto: "Non abbiate paura, spalancate le porte a Cristo!". Ed è in questo Cristo che trovo gli ultimi, i piccoli, i malati (e viceversa)».
  • don Antonio Mazzi
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun ott 22, 2007 3:23 pm


  • Tutte le Chiese per tutto il mondo
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Nell'ottobre missionario di quest'anno ogni comunità cristiana è invitata ad aprirsi al mondo intero. È il Papa stesso che, nel suo messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale e che fa da filo conduttore di tutto il cammino dell'ottobre, si rivolge a "tutte le Chiese" richiamando il loro essere "per tutto il mondo". Domandiamoci allora chi ci sta dentro in quel "tutte", quali sono alcune delle "Chiese" cui è rivolto questo appello, e cosa può voler dire il loro essere "per tutto il mondo".

È chiamata in causa, innanzitutto, la famiglia, "Chiesa domestica", dove si nasce e si cresce, si diventa adulti non soltanto per un fatto anagrafico, ma perché si è maturata là capacità di "prendere il largo", di "interessarsi a chi è fuori", di riconoscere ed accogliere come fratello e sorella ogni persona. La famiglia, ogni famiglia (anche la nostra), è "Chiesa per tutto il mondo" quando accompagna chi diventa grande, educandolo ad essere adulto. Adulto perché capaci di incontrare 1'"altro" (di qualsiasi razza o cultura, che abita in paesi remoti o nella casa accanto) lasciandosi da lui arricchire, scoprendo e riscoprendo, grazie a questo incontro, la propria identità, il proprio essere parte di una famiglia senza confini, una famiglia che abbraccia l'umanità intera.

È poi chiamata in causa la parrocchia, "famiglia di famiglie, comunità di comunità", invitata a ritrovare il proprio volto missionario. La parrocchia, che vive in un territorio preciso, eppure, se vuole essere fedele a se stessa, deve sempre "spostare i picchetti della propria tenda" per far spazio a nuovi ospiti, e per farsi ospitare in nuovi spazi. La parrocchia, che si riscopre carica di storia e tradizioni, ma anche sempre più bisognosa di tracciare strade nuove per raggiungere .tutti: dai battezzati che sembrano aver smarrito il desiderio di una vita cristiana, agli immigrati che giungono tra noi portando fedi diverse, o modi diversi di vivere la stessa fede. La parrocchia, ogni parrocchia (anche la nostra), è "Chiesa per tutto il mondo" quando sa guardare all'orizzonte della missione "ad gentes", per scoprire come lì viene portato avanti il primo annuncio del Vangelo, come si dialoga con chi non ha la stessa fede, come si da fiducia e responsabilità ai laici, come si vivono i cammini catecumenali di chi scopre la fede, come ci si mette comunitariamente in ascolto della Parola di Dio. Guardare a questo orizzonte non per ripetere le stesse modalità, ma per lasciarsi provocare e stimolare nella ricerca di un rinnovamento che non può più essere rimandato.

In senso più proprio ancorale chiamata in causa la diocesi, "Chiesa locale", o "particolare". Chiamata a mettersi in gioco e a "delocalizzarsi" aprendosi allo scambio e alla collaborazione con altre diocesi delle giovani Chiese. Perché non è chiudendosi in un "locale", che rischia sempre di essere un po' asfittico, ma spalancando porte e finestre, lasciando entrare aria nuova e fresca, che si ritrova la possibilità di respirare a pieni polmoni. Si ritrovano energie nuove, ci si sente ringiovaniti e desiderosi di accogliere le sfide del futuro che incalza. Non è chiudendosi nel proprio "particolare" che la Chiesa può essere fedele a quell' "andate in tutto il mondo", che Gesù ha affidato agli apostoli come dono e compito.

La diocesi, ogni diocesi (anche la nostra) è "Chiesa per tutto il mondo" quando sa che "la fede si accresce solo quando viene donata", ed è pronta allora a condividere il proprio patrimonio di fede con le giovani Chiese, sapendo che da loro verrà così ringiovanita. Quando invia preti e laici come "dono della fede" senza paura di perdere forze preziose, ricordandosi la promessa di un centuplo in cambio di ciò che è lasciato gratuitamente per essere fedeli alla Parola di Gesù. "Tutte le Chiese per tutto il mondo": non solo uno slogan per l'ottobre, ma una scelta perché ogni Chiesa sia missionaria. Cioè sia se stessa. Anche la nostra.
  • don Stefano Bianchi in “Il Settimanale” della Diocesi di Como
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun ott 29, 2007 4:21 pm


  • La memoria dei morti non è questione di zucche e spiritelli
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Il culto dei morti, la memoria rituale di quanti ci hanno preceduto nel cammino della vita è uno dei dati antropologici più antichi e universali. Nella nostra cultura occidentale europea sono stati i celti a collocare in questa stagione la memoria dei morti: culto che la Chiesa ha 'cristianizzato' e che è divenuto ben presto una delle ricorrenze più vissute e partecipate. Ancora oggi, nelle campagne come nelle città, anche in una cultura dominante che pur tende a rimuovere la morte dal proprio orizzonte, questa celebrazione rimane solidamente presente.

È vero che la tendenza della nostra società a sfruttare ogni festività religiosa per scopi mercantili ha reintrodotto elementi pagani infestandoci con maschere, spiritelli e zucche varie, ma la dimensione cristiana di questa ricorrenza non è ancora scomparsa dal cuore e dalla mente dei più. Ciò è dovuto al fatto che la Chiesa, nell’accogliere questo tentativo di risposta umana alla 'grande domanda' posta a ogni essere umano, ha saputo proiettarla nella luce della fede pasquale che canta la risurrezione di Gesù Cristo da morte e l’ha fatta precedere dalla festa di tutti i santi, quasi a indicare che i santi trascinano con sé i morti, li prendono per mano per ricordare a noi tutti che non ci si salva da soli e che tutti viviamo avvolti in un’unica grande comunione d’amore.

Così, è al tramonto della festa di tutti i santi che i cristiani non solo ricordano i morti, ma si recano al cimitero per visitarli, come a incontrarli e a farsi ascoltare da loro attraverso pochi gesti, una preghiera, un mazzo di fiori, l’accensione di un lume: sono semplici manifestazioni di un amore che la morte non può sopraffare, un affetto che in questa occasione è capace di assumere anche il male che ha attraversato la vita dei propri cari e di avvolgerlo in una grande compassione abitata dal perdono dato e ricevuto. Sì, porre i propri morti e se stessi davanti a Dio nella preghiera è un esercizio di comunione, un rinnovamento dell’amore: certo, con parole, linguaggi, gesti diversi, ma vissuti negli affetti e nel desiderio di dare e ricevere vita.

La memoria dei nostri morti è allora decisiva per vivere il nostro presente e sperare il nostro futuro, ed è sorgente di sapienza per coglierci nella catena di generazioni che abitano questa terra, ciascuna delle quali è tenuta a essere solidale e responsabile nei confronti della successiva.

Ciascuno di noi, poi, sa che molto di quanto lo abita in profondità e gli fornisce un’identità deriva proprio da chi lo ha generato, da quanti lo hanno amato e sono stati da lui amati, dalle persone con cui ha vissuto e dalle quali ha ricevuto il senso stesso della vita. Sì, come recita Qohelet, tutti gli uomini portano nel cuore il senso dell’eternità, anche quelli che non sanno da dove vengono e dove vanno, anche quelli che non sanno leggere l’azione di un Dio Creatore.

La morte resta un enigma perché stronca le nostre relazioni, i nostri amori, le nostre comuni speranze, ma questo enigma chiede di essere assunto affinché lo viviamo nella verità del ricordo e nella consapevolezza che per noi poveri esseri mortali solo l’amore è più forte della morte, più tenace degli inferi. E per i credenti l’enigma diventa mistero, cioè rivelazione del destino degli uomini attraverso la fede in Gesù Cristo risorto da morte e vivente per sempre. Non dimenticherò mai che la mia generazione fu ancora cristianamente educata in una memoria intensa e puntuale della propria morte e nell’esercizio di amore verso i morti: allora la visita al cimitero era d’obbligo alla domenica dopo i vespri, e ritornando a casa si sgranava la corona del rosario ripetendo: «Gesù Cristo è la vita eterna». Esercizi di fede nella vita più forte della morte!
  • Enzo Bianchi
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun nov 05, 2007 5:05 pm


  • Un "Padre Nostro" anonimo che sgorga dal cuore
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Mi è arrivata, via e-mail, una preghiera. Vi domanderete: don Mazzi è in crisi mistica? Ascoltatemi. Sono un prete molto laico. Vivo da sempre ai margini della società. Vorrei tanto che, piuttosto che dentro le nostre sontuose basiliche, fossimo obbligati a cercare Cristo la dov'è: tra la gente, nelle case. Fintanto che chiudiamo Cristo nei tabernacoli d'oro e costruiamo gli altari delle chiese lontanissimi dalla gente, la nostra fede religiosa sarà... al lumicino.
Ritorno. Questa e-mail è stupenda anche se anonima. È una riflessione sul "Padre Nostro". Ai vostri figli, per chi è credente e non, insegnate la preghiera che Gesù ci ha lasciato in dono e vi garantisco che si salveranno di qui e di là. Concentratevi e leggete.
      • «Posso dire PADRE, se vivo nell'isolamento e non manifesto sentimenti filiali nella vita di ogni giorno?

        Posso dire NOSTRO, se vivo nell'individualismo e non ho il senso della fraternità umana e della comunità?

        Posso dire che SEI NEI CIELI, se penso soltanto alle cose terrene e non innalzo lo sguardo al mondo delle realtà divine per le quali sono fatto?

        Posso dire SIA SANTIFICATO IL TUO NOME, se non mi occupo della gloria di Dio, dimenticando che, fatto a sua immagine, sono destinato a vivere la sua vita divina e a proclamare la sua santità?

        Posso dire VENGA IL TUO REGNO, se non m'impegno a testimoniare l'amore di Dio che salva e non gli permetto di regnare nella mia vita?

        Posso dire SIA FATTA LA SUA VOLONTÀ, se non cerco di scoprire il piano di Dio a proposito di tutto, in particolare della mia vita e se non cerco sempre di unirmi alle intenzioni di Dio?

        Posso dire DACCI IL NOSTRO PANE QUOTIDIANO, se non penso che tutto ciò che conserva la mia vita mi viene dalla mano di Dio, e non mi occupo del mio fratello che ha fame?

        Posso dire RIMETTI A NOI I NOSTRI DEBITI, se conservo coscientemente un risentimento verso qualcuno e non coltivo in me la volontà di perdono?

        Posso dire NON CI INDURRE IN TENTAZIONE, se accetto deliberatamente una situazione che favorisce il peccato?

        Posso dire LIBERACI DAL MALE, se non sono attento a tutte le forze del male che allontanano i miei fratelli, e se non sono disposto a combatterle con tutte le mie forze?

        Posso dire AMEN, se ho recitato il Padre Nostro senza convinzione, e se ho letto queste parole senza una volontà di conversione?».
Mi date ragione?
  • don Antonio Mazzi
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven nov 09, 2007 3:03 pm


  • Il vescovo anti-clan deve lasciare la Locride
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Sono in tanti, in Calabria, a brindare alla «promozione» di Giancarlo Bregantini, tolto alla «sua» Locri per essere destinato come arcivescovo metropolita alla diocesi più importante di Campobasso. Tanti. E levano in alto i calici: «Buon viaggio!» Lui no, però. E intorno a lui cresce l'angoscia di quanti, improvvisamente, si sentono orfani di chi per anni è stato il massimo punto di riferimento morale nella resistenza dei calabresi per bene contro la 'ndrangheta. Ma certo, è probabile che lassù, le gerarchie ecclesiastiche abbiano scelto pensando che fosse arrivato il momento, dopo quasi tre lustri, di premiare quella quotidiana, coraggiosa, incessante opera di battagliero apostolato del monaco stimmatino. Come è probabile abbiano immaginato che il promosso, all'idea di diventare con ogni probabilità, per una questione di alternanza tra le regioni, presidente della conferenza dei vescovi dell'Abruzzo e del Molise, avrebbe accettato con gratitudine. Ed è infine ovvio che lo stesso Bregantini, al di là del dolore all'idea di lasciare il suo tormentato gregge, possa obbedire con sollievo all'ordine di andare a fare il suo mestiere di prete in una terra meno difficile, meno pericolosa, meno lacerante della Locride, dove si è spesso battuto in solitudine come un paladino nella terra degli infedeli.

Però... Però il colpo, per la Calabria, è durissimo. Basti leggere, al di là delle parole forse un po' scontate e rituali di alcuni politici che certo non avrebbero potuto dire il contrario, la presa di posizione di tre intellettuali di spicco come l'economista Domenico Cersosimo, il sociologo Piero Fantozzi e l'antropologo Vito Teti. Che parlano d'«una notizia agghiacciante», denunciano un «provvedimento irresponsabile», contestano la «rimozione» di «un vescovo nella frontiera della Calabria più estrema, malata, degradata» che era diventato il «simbolo nobile della Calabria contemporanea civile, propositiva, fattiva. Un emblema dei brandelli residui di fiducia collettiva. Un'icona dei calabresi che lavorano quotidianamente per il cambiamento, per la risalita, per una società più equa, umana, inclusiva». Frasi che racchiudono lo sgomento collettivo di una comunità ammaccata. Diranno che la Chiesa è una cosa assai più importante del destino di un singolo prete, per quanto carismatico. Che nella regione ci sono altri quattordici vescovi impegnati nella loro missione pastorale. Che qua e là, anche nelle zone più complicate, ci sono sacerdoti (ad esempio il parroco di Polistena, don Pino Demasi, legato a Libera, il cartello di associazioni che fa capo a don Luigi Ciotti, promotore della «Giornata della memoria e dell'impegno in ricordo delle vittime delle mafie») che non arretrano di un millimetro davanti alle prepotenze delle cosche. Tutto vero. Quanto è vero che, come Bertold Brecht fa dire a Galileo Galilei, è «felice il paese che non ha bisogno di eroi».

Però... Però monsignor Bregantini, per quella che oggi è una delle terre più violente, povere e disperate d'Italia, non è stato un vescovo come altri, magari solo un po' meno afono di certi colleghi assai prudenti perfino nel pronunciare la parola «'ndrangheta». In queste terre dove una volta capitava addirittura che qualche sacerdote avesse in dono dai parrocchiani una pistola, fosse presentato all'insediamento da un padrino legato alla mafia o facesse figli su figli con la perpetua, questo monaco trentino sceso dalla valle dei Mocheni per fare l'operaio prima a Marghera e Verona e poi a Crotone, ha marcato fin dall'inizio la sua presenza a Locri come una svolta. Intendiamoci: il suo stesso predecessore nella diocesi della Locride, Antonio Ciliberti, era stato netto nella sua opposizione alle cosche. L'innesto del vescovo trentino, salutato con una falsa bomba di «benvenuto», fu tuttavia clamoroso fin dall'inizio.

Per prima cosa fece diffondere in tutte le parrocchie i nomi di tutte le 263 persone che erano state ammazzate negli ultimi dieci anni.

Poi distribuì un durissimo libro di preghiere di «sfida alla mafia».

Poi prese a battere a tappeto tutti paesi e le contrade martellando (soprattutto in luoghi come Motticella: poche centinaia di abitanti e una cinquantina di morti per una faida) contro «l'idea aberrante di un destino ineluttabile per cui in Calabria tutto è sempre stato e tutto sempre sarà così».

Quindi, appoggiandosi anche a collaboratori entusiasti quali Piero Schirripa, un medico «profugo del marxismo» che in questi giorni è il più addolorato per l'addio, cercò di spiegare alla gente di Platì, il paese incattivito da troppi tradimenti dello Stato fin dalla feroce conquista dei bersaglieri, il paese dei 68 sequestri in cui la mamma di Cesare Casella si era incatenata in piazza chiedendo la liberazione del figlio rapito, il paese in cui il nuovo parroco don Alessandro Di Tullio aveva trovato «registri parrocchiali dove non venivano annotati i morti da cinque anni e i battesimi da sette», che c'erano alternative ai posti di lavoro offerti dai boss. E aiutò i giovani del posto a fondare la Cooperativa Valle del Buonamico che nel giro di pochi anni, vincendo pure l'ottusità idiota di uffici pubblici capaci di chiedere 24 passaggi burocratici e intralciare la concessione al vescovo del certificato antimafia, fece capire per la prima volta alla gente che si poteva vivere, dignitosamente, anche coltivando fragole, mirtilli e lamponi. Non c'è stato giorno, per anni, in cui monsignor Bregantini non abbia picchiato duro sulla mafia e la cultura mafiosa.

Fino a suggerire «se necessario la militarizzazione della zona» perché «chi fa il male deve essere umiliato nel suo falso "onore" perché ritrovi la forza di cambiare». Ad attaccare frontalmente la politica «incapace di dare risposte adeguate ai problemi della gente». A proibire ai parroci di accettare come padrini ai battesimi uomini vicini alla malavita. A chiedere dopo la strage di Duisburg che il governo stesso elaborasse coi sindaci «una serie di provvedimenti straordinari».

Una guerra frontale. Totale. Assoluta. Dichiarata giorno dopo giorno con una voce che pareva ancora più tonante tra i silenzi, le afonie, i sussurri di tanti altri vescovi, parroci, cappellani. Per questo anche la Chiesa oggi, e non solo lo Stato, ha una responsabilità grande. Perché, dopo l'addio di un uomo come Giancarlo Bregantini, i calabresi onesti e pieni di fede rischiano di sentirsi ancora una volta abbandonati dopo troppi abbandoni. E questo sarebbe davvero un delitto.
  • Gian Antonio Stella in Corriere della Sera, 8 novembre 2007

  • Trasferito Bregantini, il vescovo che lottava contro la 'ndrangheta
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Monsignor Giancarlo Maria Bregantini, vescovo anti-’Ndrangheta e per 13 anni alla guida della diocesi di Locri, si trasferisce a Campobasso. Il Papa infatti ha annunciato la sua nomina questa mattina, attraverso un comunicato diffuso dalla sala stampa della Santa Sede, letto congiuntamente anche nella Cattedrale di Locri.

E il vescovo anti-cosche non nasconde la sua amarezza: «Per obbedienza son venuto e per obbedienza parto», commenta Bregantini ai microfoni di Radio Vaticana. «Oggi il Papa lo chiede a me e rispondo con questa disponibilità e, anche se con tanta sofferenza nel cuore, saluto la mia diocesi e mi avvio all’altra». «Obbedire non è mai facile e sempre eroico. Basta infatti guardare a Gesù, ad Abramo, e a tutti i Santi», afferma il monsignore. «Voglio però dire, cercando di rasserenare gli animi, che molto di quello che ho insegnato loro, è stato maturato insieme, con i giovani e con i collaboratori, cresciuti ormai fisicamente e spiritualmente. E, quindi, molte volte la mia voce era la loro voce, che io ho soltanto raccolto».

Grande commozione da parte di Padre Bregantini, che salutando i fedeli presenti nella cattedrale alla lettura, si è lasciato prendere dalle lacrime. Una grande appaluso ha accolto la promozione del prelato a nuovo metropolita della città molisana. Si conclude così l’esperienza del vescovo di Locri, noto per il suo forte impegno sociale e contro la ’ndrangheta. La notizia ha suscitato numerose proteste tra i fedeli ma anche tra le autorità di tutta la Calabria.
  • La Stampa, 8 novembre 2007


  • Stupore, Bregantini va a Campobasso ma dietro non c’è alcun oscuro disegno
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Nella promozione (sì, senza virgolette perché senza ironia) di monsignor Giancarlo Maria Bregantini alla sede metropolitana di Campobasso non c’è alcun oscuro disegno. E, dunque, non è lecita alcuna speculazione.

Bregantini era stato invitato nel mese di luglio a predicare un corso di esercizi al clero di Campobasso. Tenne riflessioni che colpirono molto gli uditori. Così, al momento delle consultazioni promosse dalla Santa Sede in vista dell’avvicendamento sulla cattedra metropolitana di Campobasso, ecco che i sacerdoti riservatamente interpellati fecero il nome di monsignor Bregantini , che in tal modo finì nella terna da presentare al Papa. E il Papa l’ha scelto, da una parte per la buona reputazione che questi si era costruito in anni di durissimo lavoro nella Locride, dall’altra proprio per quella unanime indicazione venuta dal Molise. A quel punto, era naturale che venisse chiesta la sua disponibilità, che Bregantini ha dato, con generosità, come suo solito.

Ieri, infine, la nomina è stata resa nota congiuntamente a Locri e a Campobasso, e in entrambe le sedi si è giustamente indugiato a rivelare anche dettagli che normalmente restano riservati, così da togliere qualsiasi alone di sospetto su manovre, rimozioni, trame o veleni.

Ogni speculazione a questo punto evapora nell’inconsistenza, anche se ben sappiamo che talora c’è più trasporto nel fantasticare complicazioni inesistenti che nel registrare una verità lineare. E senza pieghe. Spontaneo, allora, rivolgere a monsignor Bregantini l’augurio più affettuoso di un fervido ministero nella sua nuova terra, dove non mancheranno di amarlo e di seguirlo.

A Locri , dopo di lui, la Chiesa invierà chi saprà non farlo rimpiangere. La Calabria, d’altra parte, ha il diritto a un amore vero, quasi a una predilezione da parte della comunità nazionale. Nessuno può mancare di rispetto ad una terra in cui vescovi, preti, religiose e laici impegnati sul fronte della giustizia, della solidarietà e della dignità sono tanti. Tutte le loro storie sarebbero degne di finire con enfasi in prima pagina così come proprio ieri è capitato a Bregantini, su un importante quotidiano milanese che lodevolmente si preoccupava che i presìdi evangelici e civili in Calabria non venissero meno. Peccato che nella concitazione del ragionamento si prefigurasse una sorta di irresponsabilità verso la terra calabra di chi 'lassù' decide.

La Chiesa non è irresponsabile, e in duemila anni di storia qualche credenziale l’ha pure esibita. In Calabria, Bregantini – originario non della Val dei Mòcheni, ma di Denno in Val di Non – è arrivato un giorno non per iniziativa di qualche blasonato centro di potere. E neppure per segnalazione di qualche redazione di Milano o di Trento. Era quasi sconosciuto e l’ha mandato la Chiesa, la stessa che oggi – dopo tredici anni – lo manda a Campobasso, e la stessa che farà ora per Locri la provvista migliore. Chi è agitato si rilassi. Almeno fino a prova contraria. E giacché ci siamo, illustri colleghi dei cosiddetti grandi giornali nazionali, perché non ci impegniamo ad assicurare alla Calabria e alla sua vita, non solo alle sue patologie, un’attenzione meno pelosa, meno saltuaria, e meno infastidita?

Chi oggi per lo spostamento di un vescovo si strappa le vesti, quante volte ha provato sulle stesse pagine a raccontare la voglia di riscatto di quella gente, di quei giovani, di quei disoccupati, che talora solo grazie alla solidarietà cattolica (sì, anche grazie al famigerato 8 x mille, oltre che alle cooperative trentine) hanno trovato i mezzi per avviare sprazzi di socialità diversa e alternativa?
  • db in Avvenire, 9 novembre 2007


  • Ho solo annunciato il Vangelo
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«Tutto è lineare. Scrivetelo. Dietro la mia promozione, perché tale è, non ci sono trame oscure. Non ci sono giochi né della ’ndrangheta, né della massoneria, né del potere. Tantomeno gelosie o invidie». Monsignor Bregantini lo ha detto ai fedeli in Cattedrale e ci tiene a ripetercelo. Certo, ammette, «io non lo desideravo: nessun vescovo desidera una promozione». Ma avverte anche: «Nessuno osi giocare su quanto accaduto. Né pensi di approfittarne attaccando le cooperative della Valle del Buonamico». Un chiaro riferimento alle cooperative promosse dalla diocesi e vittime anche di gravi atti intimidatori. Non drammatizza e pur sinceramente, e giustamente, commosso, regala un’immagine di normalità.

Una giornata forte ma condotta come le altre. Sveglia alle 6,15; la preghiera, la consueta corsa in tuta anche se oggi, ammette, «ho corso di più perché avevo bisogno di scaricare la tensione ». Una colazione abbondante «con la marmellata della Locride», poi l’incontro previsto da tempo coi giovani sacerdoti. Una foto ricordo con loro «con l’abito della festa». E una anche con gli operai (lui che ha cominciato proprio come prete nei cantieri) che lavorano alacremente alla costruzione del grande Centro pastorale, tanto desiderato e che ora lascia in eredità al suo successore.

Sorride padre Giancarlo, come qui tutti lo chiamano, ricorda le tante cose fatte in questi tredici anni. Ma la sua è una riflessione che guarda al futuro. «La mia partenza non significa la fine di queste cose che hanno ormai radici profonde. Io sono convinto che la Locride non vede un albero ta- gliato ma potato e che sarà riinnestato dalla mano di Dio per produrre nuovi frutti».

Padre Giancarlo, qualcuno in questi giorni ha scritto che la ’ndrangheta sta stappando lo champagne perché lei lascia la Calabria.
Non lo credo. Io non sono mai stato un eroe anti ’ndrangheta ma uno che annuncia il Vangelo anche a persone che hanno avuto momenti difficili. Per questo nel mio messaggio in Cattedrale l’ultimo appello l’ho fatto a loro, ai mafiosi. Io non sono mai stato «contro» ma sempre «pro». La ’ndrangheta non va attaccata muro contro muro, va svuotata.

Difficile a farsi...
Certo ma in questi anni abbiamo fatto molti passi. La mafia non è più nascosta. Ora è chiaro a tutti quello che è bene e quello che è male. Tutti lo sanno. È purtroppo ancora difficile avere dei comportamenti conseguenti. Ma noi dobbiamo insistere, parlare coi segni che sono la concretizzazione del sogno. Più saranno armonici segni e sogni e più concretezza avremo. Segni frutto dell’ascolto e del confronto con la gente. Non sono stato un eroe isolato ma un interprete di un popolo che soffre e si esprime. Sono stato la loro voce. Un popolo in cammino. Non si fermerà, continuerà anche dopo di me.

Di cosa avrà ancora bisogno la Locride?
Di un buon samaritano e di un seminatore. Di entrambi. Da sola non può farcela. Non serve essere giudici e basta. Serve un vero aiuto. Perché gli abitanti della Locride sentendosi aiutati sono capaci di alzarsi in piedi. Ma serve anche il seminatore che sparge i semi anche se sa che una parte finirà tra le pietre. Bisogna essere tenaci, perché nella Locride il seme sta germogliando.
  • Antonio Maria Mira in Avvenire, 9 novembre 2007
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun nov 12, 2007 3:53 pm


  • Attenti ai cattolici "popolari"
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Inchieste e sondaggi richiamano periodicamente l’attenzione su vari aspetti del fenomeno religioso in Italia, offrendo preziosi spunti di riflessione, ma nel leggerne i risultati bisognerebbe sempre tener conto di alcune avvertenze. Innanzitutto, nessuna indagine “religiosa”, per quanto scientificamente condotta, così come nessuna intuizione o esperienza personale può pervenire a misurare la “fede” di una persona o di una collettività: si possono cogliere solo alcuni elementi esterni, quelli quantitativamente misurabili, e fotografie parziali di vissuti che restano comunque insondabili nella loro pienezza e profondità. Inoltre lo sguardo dei sociologi, sempre più acuto e importante, non pretende mai di essere esaustivo e sovente si rivela limitato perché troppo legato al presente, privo di “memoria” e di capacità di lettura delle dinamiche.

Anche quando si raffrontassero sondaggi analoghi effettuati a distanza di anni o anche solo di mesi, si avrebbero paragoni tra due “fotografie” puntuali e non una visione panoramica e dinamica dell’evolversi di una situazione o di un costume. Accanto alla sociologia, poi, resta fondamentale nel leggere situazioni segnate dal “religioso” il contributo degli antropologi, così come l’apporto di persone immerse nelle realtà religiose e capaci di ascoltare con prossimità i movimenti, le oscillazioni e le contraddizioni che contraddistinguono l’ambito particolare del rapporto tra l’essere umano e le realtà “altre”.

Quando si applicano questi tentativi di lettura alla situazione italiana, l’impresa si complica ulteriormente perché il cattolicesimo nel nostro paese ha una specificità a volte enigmatica nelle sue patologie come nelle sue positività. Chi, come me, conosce bene la situazione della chiesa cattolica in Europa occidentale grazie alle frequenti occasioni di confronto in diversi paesi, non può non rilevare alcune particolarità.

Innanzitutto il cattolicesimo italiano è un fatto ancora visibile, che si impone a sa essere eloquente anche a livello pubblico. Se gli ultimi quarant’anni hanno visto un sensibile calo della pratica religiosa domenicale – attualmente attestata tra il 17% e il 20% della popolazione – questo non significa una scomparsa delle convinzioni cristiane nella vita degli italiani: non a caso, se interrogati, gli italiani si dichiarano per il 70% cattolici (un dato non lontano dal numero dei battezzati) e una percentuale ancor più elevata di genitori desidera per i propri figli l’insegnamento della religione cattolica nella scuola. Qui sorge un primo enigma: come mai solo un quinto di quanti si dichiarano cattolici ha un legame reale e non sporadico con la comunità cristiana e la sua vita liturgica?

Da alcuni anni molti sono portati a leggere questa specificità del cattolicesimo italiano con la categoria della “popolarità”. Sovente si attesta l’esistenza di “un volto popolare del cattolicesimo italiano”, “un radicamento della fede nella società”, “una presenza capillare del cattolicesimo nella vita quotidiana”... Sono espressioni che contengono elementi di verità ma che richiederebbero un discernimento ulteriore e più profondo, soprattutto non ci si dovrebbe accontentare di un cristianesimo “minimo” ma, prima che sia troppo tardi, richiedere e favorire scelte coerenti con una misura “alta” della vita cristiana ordinaria.

Altrimenti il rischio è quello di un cattolicesimo popolare, sì ma svuotato di una rilevanza del primato della fede cristiana: già oggi come possiamo interpretare il dato che, se interrogati, più di metà di quanti si dichiarano cattolici affermano di non credere nell’al di là, nella vita eterna, nella risurrezione di Cristo e della carne? E cosa indica il fatto che non si provi contraddizione né consapevolezza di peccato nel proclamarsi cattolici e nel disattendere in modo sistematico le esigenze morali del vangelo e nell’assumere comportamenti etici che – nell’ambito dell’uso dei beni o dell’esercizio della sessualità, per esempio – disattendono il messaggio di Gesù di Nazaret?

In questa situazione molti finiscono per auspicare un cristianesimo vissuto secondo il paradigma della religione forte e incarnato in minoranze attive ed efficaci, capaci di assicurare identità e visibilità che si impongono perché pensate in una strategia difensiva e di concorrenza. Da parte mia ritengo invece che, pur mantenendo una dimensione “popolare”, solo vivendo la differenza cristiana nella compagnia degli uomini si innesta una dinamica che scuote l’indifferenza alla fede cristiana e alle sue esigenze propria anche a molti sedicenti cattolici.

Se invece ci si accontenta di questa “popolarità” e la si cavalca a scapito della qualità cristiana della vita e, di conseguenza, della testimonianza, si corre il rischio di divenire sale che perde il suo sapore, di veder svanire la forza del regno che come lievito fa fermentare tutta la pasta, di essere magari città posta sul monte ma priva di splendore che attira lo sguardo, di scoprirsi lampada posta sul candelabro ma incapace di illuminare alcunché.

Per questo rimane indispensabile la lettura e la conoscenza del vangelo tra quanti compongono la comunità cristiana. Infatti, se è vero che il cristianesimo non è religione del libro, è altrettanto vero che solo il vangelo consente la conoscenza di Gesù Cristo, centro e cuore del cristianesimo. “L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo”, affermava san Girolamo, ripreso non a caso dal Vaticano II.

Quale figura di cristiano può mai emergere senza una conoscenza diretta di Gesù Cristo e della sua umanità esemplare come quella che può venire dalla lettura e dalla familiarità con i vangeli? Un cristianesimo in cui il vangelo non ispira la vita e il vissuto dei credenti come riuscirà a non divenire rituale, devozionale, a non ridursi a fatto culturale o sociale, se non addirittura a fenomeno folcloristico o superstizioso? Solo con la lettura personale e diretta della Bibbia – e, in primo luogo, dei vangeli – il cristiano può nutrire la sua fede e irrobustire la sua capacità di testimoniarla. In questo senso sarebbe auspicabile un percorso di serio approfondimento nella comunità cristiana che tenga conto di due esigenze.

La prima è quella di porre l’accento sul vangelo, su quel testo che il concilio ha voluto e saputo ridare in mano ai cattolici nella sua interezza e ricchezza dopo secoli di esilio della Scrittura dalla catechesi e dalla predicazione: alcuni si stupiscono, altri si rammaricano di fronte al dato che neppure un quinto degli italiani afferma di aver letto i quattro vangeli. Senza conoscere il vangelo com’è possibile conoscere Gesù Cristo e sentirlo quale Signore? Come si può cogliere la sua umanità esemplare per noi uomini, l’essersi fatto uomo di Dio “per insegnarci a vivere da uomini in questo mondo”, secondo l’espressione di san Paolo? Come percepire che scopo dell’umanizzazione di Dio è l’autentica umanizzazione dell’uomo?

La seconda esigenza è l’ascolto dell’umanità di oggi, uomini e donne: un ascolto che deve avvenire attraverso l’emergenza della dimensione antropologica. Sì, sul tenere insieme il vangelo e l’uomo, la fede e la dimensione antropologica si gioca il futuro della fede cristiana in Italia. Se c’è stato e c’è un fallimento, è quello della trasmissione, della “tradizione” della fede, ma l’antidoto consiste ormai solo nel ristabilire il primato del vangelo e l’ascolto dell’umano. In una stagione in cui tutto è rimesso in discussione – la concezione del rapporto con il proprio corpo, con l’altro sesso, con la sofferenza, con il tempo, con la natura... – occorre elaborare risposte di sapienza che dicano chi è l’essere umano e come possa umanizzarsi attraverso una qualità di vita personale e di convivenza.

La religione ha bisogno dell’esercizio della ragione per non cadere in forme paganeggianti, magiche o superstiziose, ma ha anche bisogno che questo esercizio razionale avvenga non senza gli altri ma con gli altri, tutti abitanti della stessa polis. Insieme, cristiani e non cristiani, dobbiamo porci la questione antropologica: chi è l’uomo? Dove va? Come può vivere in una società che lotta contro la barbarie e a favore dell’umanizzazione? Dalle risposte che ciascuno saprà dare attingendole dal proprio patrimonio spirituale dipende certamente il nostro futuro, ma anche, già da oggi, la qualità della nostra vita personale e della convivenza civile.
  • Enzo Bianchi
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun nov 19, 2007 4:43 pm


  • Ecco perché, in fondo, essere solidali è conveniente
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Puntuale, come ogni anno, l'Istat, l'Istituto nazionale di statistica, ha pubblicato i dati sulla povertà in Italia. Anche quest'anno, le cifre sono molto chiare. Il 12,9 per cento della popolazione italiana è povera: significa che una famiglia con un solo componente non ha a disposizione che 582,20 euro al mese; una famiglia di due persone ha soltanto 970,34 euro e una di quattro arriva appena a 1.581,65 euro.

Questi dati, elaborati secondo l'indagine dei consumi, ci dicono in altre parole che 7 milioni e 537 mila persone vivono sotto la "soglia di povertà". L'Istat ha anche avvertito che rispetto all'anno scorso la situazione non è migliorata. Aggiungiamo noi: è una decina d'anni che la situazione è la stessa. Se leggiamo più in dettaglio, i dati descrivono i tipi di famiglie povere: abitano al Sud d'Italia; sono composte o da anziani o da nuclei numerosi (cinque componenti e più con tre figli); hanno un capofamiglia con istruzione bassa.

La notizia dovrebbe un po' agitare l'opinione pubblica, la politica, le coscienze. Nulla di tutto questo. Sembra che il bollettino delle povertà faccia parte dello scenario del Paese: come il tempo, l'inizio della scuola, i consumi dell'estate. Eppure si tratta di un dato allarmante e triste. Anche perché vengono colpite le parti fragili delle componenti della società: vecchi, bambini, famiglie numerose. La risposta a questo fenomeno, nella coscienza comune, è facilmente imputabile a mille motivi: l'indolenza del Sud; l'incapacità delle persone a darsi da fare. Insomma una specie di povertà colpevole. Nel frattempo il Paese che conta si occupa di dettagli, di sciocchezze, di gossip, di reality show, insomma di altro.

Probabilmente, nel clima di autoreferenzialità di larga parte della popolazione, si sta facendo strada il principio che una sana economia debba essere attenta al proprio territorio senza nulla cedere a chi non è al passo. In altre parole una buona fetta dell'Italia del Sud andrebbe lasciata alla deriva, senza rimpianti. Che questo sia un pensiero liberale può anche passare... Quello che è davvero inconcepibile è che a pensare allo stesso modo siano dei cristiani, non solo anagraficamente, ma che frequentano - la domenica - le nostre chiese. I racconti degli Atti degli apostoli che parlano degli aiuti ai cristiani di Gerusalemme da parte delle altre comunità paiono diventati una favola, in grado al massimo di essere tradotti in una pia esortazione a fare un po' di elemosina, ma senza rompere gli equilibri della propria sicurezza e ricchezza.

Le solidarietà sembrano scomparse: tra generazioni, tra tenitori, tra nazioni. Continuando di questo passo il futuro diventerà sempre più cupo. Nessun popolo o porzione di popolo può essere autosufficiente nel lungo periodo: lo dice la storia, la democrazia, ma anche il buon senso. Basta a volte poco - una calamità, un'inondazione, un tracollo - perché i ricchi si ritrovino poveri. Immaginate se, nel momento del bisogno, gli altri si voltassero dall'altra parte: una vera tragedia. In fondo essere solidali conviene.
  • don Vinicio Albanesi
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun nov 26, 2007 2:21 pm


  • Se i bambini giocano a fare gli adulti…
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«Ho saputo una cosa sconvolgente, che ci sono bambini che si giocano a dadi centinaia di euro e che poi organizzano la baby-prostituzione per pagarsi i debiti». La denuncia è del ministro dell'Interno, Giuliano Amato. La notizia sconvolge anche noi: parla di bambini che a dadi giocano... la propria vita, abbruttendola, prima che sbocci, nel modo che un certo mondo adulto ha loro precocemente insegnato. Eppure abbiamo il sospetto di trovarci di fronte all'ennesima diagnosi perfetta di una malattia che non si vuole poi veramente debellare.

Le cause vengono individuate, ma se i rimedi intaccano la sfera della pretesa autonomia individuale, di quella libertà male intesa secondo cui è vietato vietare, allora in concreto non se ne fa niente. Per esemplificare, prendiamo a prestito alcune affermazioni "esatte" della senatrice Anna Serafini, presidente della Commissione bicamerale per l'infanzia, in una intervista rilasciata al quotidiano Avvenire.

Si dice: gli spot televisivi veicolano modelli ad alto rischio. Vero. Ma allora perché si permette la produzione e la martellante ripetizione di questi spot? E perché nel nostro Paese la pubblicità destinata ai bambini è doppia rispetto a quella degli altri Paesi europei? Naturalmente la libertà nella produzione e nella trasmissione mediatica deve essere totale - o limitata da ridicole autoregolamentazioni con bollini colorati o fasce orarie! - per cui non se ne farà mai niente. Ciascuno può creare i modelli che gli risultano più redditizi - perché, alla fine, è l'economia che comanda - e veicolarli nella misura che crede. Gli stessi che inquinano sono abili, poi, a pontificare circa la necessità di adeguati percorsi ecologici... un po' come, nel mondo dell'informatica, chi produce software antivirus ha l'interesse che di virus in rete ne circolino sempre di più e sempre nuovi.

Si dice: è urgente una legge contro il bullismo che sappia ridare fiducia ai minori e presentare gli adulti come figure autorevoli. In Italia c'è sempre bisogno di una nuova legge; poi, però, ci vuole un'eternità a farla; e, quando è fatta, ci si accorge che è stata talmente... emendata dai mille passaggi in aula e in commissione, che non ha più il vigore che avrebbe dovuto avere.

E quale legge può pretendere di presentare gli adulti come figure autorevoli? Autorevoli lo si è davvero, non si può pretendere di esserlo in forza di una legge che ti presenta come tale! Diciamo tutta la verità. Se i dodicenni giocano a dadi centinaia di euro, è perché gli adulti ne giocano migliaia... e lo Stato incassa percentuali da favola dal mercato delle case da gioco e delle lotterie e dei gratta e vinci. Se i dodicenni si prostituiscono o organizzano la prostituzione, è perché questa stessa cosa la fanno gli adulti... e lo Stato protegge questo libero mercato del sesso, a patto che sia tra maggiorenni e consenzienti. Quale autorevolezza può pretendere di avere un simile mondo adulto, che, con i capelli bianchi in testa, continua a scimmiottare l'adolescenza in una inarrestabile corsa al piacere?

Si dice ancora: è urgente rimettere al centro la questione famiglia. Verità sacrosanta, ma smentita da tutta una serie di inadempienze legislative, e, soprattutto, negata sull'unico autentico terreno di coltura, che è quello dell'educazione.

Ho letto i risultati dell'indagine svolta dalla Società italiana di pediatria su un campione di oltre 1.200 bambini tra i 12 e i 14 anni. Lo sconcerto circa le risposte date dai ragazzi è d'obbligo. Ma è lecito domandarsi dove siano finiti i genitori, e se non abbiano forse abdicato al loro ruolo autorevole per assecondare le mode e giocare a fare gli «amiconi» dei propri figli invece che il padre e la madre.
Alcune ragazzine che frequentano le baby-discoteche del sabato pomeriggio ammettono: «Mamma e papa cosa dicono? Mica lo sanno che veniamo qui. Altrimenti dove andiamo?». No, forse lo sanno, forse si sono con- -vinti che è il meno peggio. Se lo domandassimo a loro, a mamma e papa, forse risponderebbero, allargando le braccia come tante bandiere ammainate: «Ma che cosa c'è di male? In fondo, devono divertirsi in qualche modo... Lo fanno tutti... Il mondo è cambiato... E poi, è meglio il sabato pomeriggio che la notte...».

Insomma, il problema è davvero lì, dentro la famiglia, ma non si risolve regalando improbabili patenti di autorevolezza. Si risolve solo se il mondo dei cosiddetti adulti torna a riconoscere la necessità dei valori, e a riconoscersi in quei valori, per poterli presentare e testimoniare alle giovani generazioni. L'autorevolezza dentro la famiglia, un papa e una mamma la conquistano sul campo, giorno dopo giorno, accettando la fatica di qualche no detto prima di tutto a se stessi, così che sia credibile anche quello da pronunciare a coloro che sono affidati alle loro cure.

Educare è un'arte che s'apprende tessendo la trama della vita con i fili dell'amore e della fermezza, facendo tesoro degli errori del cammino, ma desiderando sempre camminare.
  • don Agostino Clerici
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun dic 03, 2007 7:21 pm


  • Dateci di questa poesia
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Benigni e Dante: non lasciamo cadere l’argomento. È vero che, nella serata del televisiva del 29 novembre, la parte dedicata alla satira politica si è protratta troppo a lungo, che certe battutacce erano scontate (e qualche volta volgarotte). Ma sarebbe fuorviante fermarsi qui.

Limiti come questi, nulla tolgono al fatto che la serata sia stata infine memorabile. Per vari motivi. Primo, perché la grandezza umana, poetica e cristiana di Dante è stata fatta arrivare direttamente al cuore e alla mente di dieci milioni di italiani: Roberto Benigni – uno che ha cominciato come comico, e perfino comico di partito – da quando ha incontrato di nuovo sulla sua strada il nostro massimo poeta, ne è uscito irrimediabilmente arricchito, trasformato nel profondo. Come accade a tutti coloro che sono capaci di incontri veri. Definire chi sia oggi il Benigni che – più che leggere, spiegare, recitare – vive Dante nella sua carne di uomo e di personaggio da palcoscenico, è difficile; e forse non è neppure importante.

Quello che si può constatare, è che per la rinascita della nostra poesia nazionale, e ancor prima, per la sua conoscenza a livello di massa, il Benigni della Divina Commedia, assistito in questa sua veste, dai migliori dantisti italiani, sta facendo molto di più e meglio di quanto non riescano a fare, da anni, la nostra scuola e la nostra università. E magari anche molti convegni o happening, più o meno 'letterari', siano essi di accademia o di strada. Per parlare al grande pubblico di poesia, ci vuole già un bel coraggio e ce ne vuole ancora di più per farlo in un clima culturale post-moderno, umanamente inaridito (e tanti casi di cronaca, da Perugia a Garlasco, continuano tragicamente a ricordarcelo). Riuscire a farlo, poi, attraverso il mezzo televisivo, sempre più spesso usato in modo da costituire la negazione stessa di tutto quello che è pensiero fondante, arte di qualità, emozione alta, diventa quasi un miracolo. E c’è di più. Incontrando dal vivo un credente della statura di Dante, Benigni non può far a meno di imbattersi nel profondo delle 'radici cristiane' e umane della nostra fede.

C’era, la sera di giovedì, nella sua 'performance', il riferimento alto a Tommaso d’Aquino e ad Agostino, due autori che i manuali scolastici «aggiornati » hanno praticamente cancellato.

C’era, intero e vivo, il nome nuovo che Cristo ha dato a parole fondanti come vita, libertà, amore, bellezza ,verità.

C’era la «pietas» che, non per niente, è «cristiana».

C’era l’invito a non «perdere» quell’ «attimo» capace di rivelarti il senso profondo dell’esistenza…

Qualcuno, spenta la tv, ha detto: «Mai vista e sentita una catechesi così bella». Esagerato? Forse. Eppure si potrebbe davvero provare a tornare all’antico, a quando Dante si leggeva in chiesa (e in certe chiese, già lo si fa, ma pochi lo sanno, pochi ne parlano: anche se la cosa affascina, e il pubblico è sempre folto e molto attento). Avendo un Dvd a disposizione – e qualche amante del genere: un professore in pensione, un giovane di belle speranze, un prete di buoni studi... –, potrebbero riuscirci tante parrocchie. Trovando l’angolo e la 'guida' adatti, si potrebbe provare a proiettarlo, un Benigni come questo, pure in quei non luoghi di cui parla Marc Augé: stazioni ferroviarie e della metro, sale d’aspetto degli aeroporti, ipermercati, discoteche. Là dove si accalcano, per riti collettivi senza nome, masse di giovani e non giovani, ai quali nessuno, oggi, dice mai quelle 'parole di vita' che la poesia di Dante sa dire scaldando il cuore. Parole di cui tutti hanno bisogno, magari senza saperlo.
  • Gabriella Sartori
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun dic 10, 2007 4:14 pm


  • Presepe: Betlemme in casa
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Da alcuni decenni abbiamo preso consapevolezza delle difficoltà nella trasmissione della fede cristiana alle nuove generazioni che appaiono non solo sempre meno praticanti, ma anche ignare degli elementi più decisivi del cristianesimo.

La trasmissione della fede abbisogna che i cristiani siano innanzitutto testimoni di Cristo, credibili e affidabili iniziatori dei figli al mistero cristiano, capaci di appellarsi al Vangelo per consegnare una conoscenza autentica di Gesù Cristo, colui che ci ha raccontato il Dio dei padri, sempre rimasto invisibile.

Tuttavia questa che è la grande tradizione, la trasmissione essenziale della fede cristiana si accompagna ad elementi minori che non dovrebbero essere sottovalutati. In particolar modo i 'simboli', i 'racconti' sono eloquenti e hanno una capacità performativa che tocca in profondità e plasma la fede. Del resto, da sempre l’annuncio cristiano non è veicolato solo dalla parola, ma anche e soprattutto dalla liturgia, che è linguaggio simbolico per eccellenza.

Penso al presepe, questa possibilità di avere 'Betlemme in casa' in occasione delle feste di Natale: vedere rappresentato ciò che si vive nella liturgia in chiesa, assieme a tutta la comunità cristiana, toccare con mano ciò che si medita pregando personalmente in quei giorni, dare una forma plastica a ciò che è causa di una gioia condivisa e rende il Natale non un semplice momento di evasione, ma un’autentica opportunità di festa.

Se l’oriente cristiano ha affidato all’icona – questa scrittura immaginifica del Vangelo collocata negli angoli delle case o esposta in chiesa – la narrazione teologica del Natale, il genio dell’occidente ha inventato il presepe. Nell’occidente cristiano medioevale si volevano celebrare, rivivere i misteri della vita di Cristo mediante rappresentazioni sceniche attorno alle cattedrali e alle chiese affinché il popolo che non sapeva leggere e non poteva quindi avere assiduità con la sacra Scrittura potesse imprimere nella mente e nel cuore il mistero celebrato liturgicamente, soprattutto quello del Natale di Gesù e quello della sua passione e morte.

La tradizione cristiana già a partire dal II e III secolo, con Giustino e poi Origene, testimonia che a Betlemme, il luogo dove secondo i Vangeli Maria partorì Gesù, c’era la grotta della natività su cui l’imperatore Costantino fece erigere una basilica. Successivamente Girolamo, che lasciò Roma per vivere nel deserto della Giudea, stabilitosi a Betlemme descrisse con particolari la «grotta naturale in cui è nato il Creatore dei cieli: qui è stato avvolto in fasce, qui fu trovato dai pastori, qui fu indicato dalla stella, qui i magi lo hanno adorato». Una descrizione che è già l’anticipazione del 'presepe', termine che significa recinto chiuso, mangiatoia: questa scena sarà raffigurata nei mosaici, poi dai pittori, e darà luogo a questa originale rappresentazione dell’incarnazione.

E così nel XIII secolo Francesco d’Assisi – che all’epoca della V crociata aveva tentato senza riuscirci di andare in Terrasanta per venerare il mistero dell’incarnazione a Betlemme – con un’intenzione che voleva anche essere una critica all’idea delle crociate – invitava i cristiani non a passare il mare con le armi in nome della fede, ma a vivere Betlemme nel cuore, a «far nascere Gesù nel cuore!».

Tommaso da Celano scrive: «Si dispone la greppia, si porta il fieno, sono menati il bue e l’asino. Si onora la semplicità, si esalta la povertà, si loda l’umiltà e Greccio diventa la nuova Betlemme». Ha scritto Raul Manselli, il grande storico francescano: «Il presepe di Greccio non si risolve in un gesto, in una 'pensata' popolaresca e chiusa nel mondo popolare: è invece l’estrinsecazione umile, anche la più impressionante forse, dell’umanizzazione di Gesù Cristo, l’uomo-Dio».

Da quell’intuizione di Francesco i presepi si moltiplicano, specie in Italia, grazie ai misteri celebrati in cui personaggi viventi mimano le scene descritte nei Vangeli. Dal XVI secolo le statue sostituiscono le persone nei presepi che vengono esposti nelle chiese durante il tempo di Natale.

Poco alla volta il presepe diventa domestico, allestito in casa: come non ricordarlo come l’evento familiare che predisponeva a celebrare il Natale? Iniziata la novena di preparazione, andavamo nei boschi a raccogliere il muschio, cercavamo carta da pacco che spruzzavamo con vari colori e poi l’accartocciavamo perché assumesse la forma di rocce, grotte, speroni di montagna. Quindi su un tavolo in cucina o nella sala si disponeva le statuine del presepe, cercando ogni anno che la composizione assumesse un aspetto diverso.

Era davvero come allestire un dramma sacro: nella grotta si metteva la mangiatoia vuota, Maria e Giuseppe, l’asino e il bue; sulla soglia i pastori che adoravano e portavano i loro semplici doni; più sopra gli angeli sormontati dalla stella che brillava in alto luminosa (lì venivano in aiuto le prime luminarie che cominciavano a diffondersi nei negozi e sulle bancarelle del mercato); attorno, la campagna riproduceva ambienti familiari: specchi d’acqua con le oche, prati con pecore, agnelli e asini, poi le case con la gente intenta nei propri mestieri: il mugnaio, il fabbro, il falegname... Lontano, ai margini, austero su una rocca vi era il castello di Erode e lassù erano collocati i magi con i loro cammelli, che ogni giorno venivano spostati di qualche passettino in modo che giungessero alle soglie della grotta il giorno dell’Epifania.

Noi bambini mettevamo tanta cura in quell’allestimento perché sentivamo di poter vivere dentro di noi quello che cercavamo di raffigurare. Mi ricordo che mi mettevo accanto al presepe con il Vangelo in mano e che, in base a quello che vi leggevo, disponevo e spostavo statuine e personaggi. Ero sorpreso di non trovare nel Vangelo l’asino e il bue, che pure mi erano così familiari e che consideravo necessari per riscaldare quel bambino che stava per venire «in una grotta al freddo e al gelo»!

Il parroco mi aveva tranquillizzato dicendomi che il profeta Isaia aveva scritto che «il bue riconosce il suo Signore e l’asino riconosce la greppia del suo padrone» (cf. Is 1,3). Questo mi aveva tranquillizzato e, poco alla volta, portato a capire che anche le povere bestie, come i semplici pastori e i sapienti magi avevano saputo riconoscere la venuta di Dio nel mondo, mentre invece re potenti, sacerdoti, scribi, uomini religiosi non se ne erano accorti.

La vigilia di Natale, poi, si pregava tutti attorno al presepe: noi bambini contemplavamo quelle lucine che nella povertà del dopoguerra erano capaci di stupirci con i loro colori e il loro lampeggiare, ma nello stesso tempo eravamo attratti dal mistero di un infante deposto sulla paglia, incapace di parlare, eppure proprio quel bambino era il Dio per noi e tra di noi, il Dio che per amore nostro volle farsi uno di noi. Sì, anche facendo il presepe noi ci esercitavamo a sapere, a conoscere chi era Gesù e come era venuto al mondo. Così imparavamo fin da piccoli ad amarlo.
«Nascesse pure mille volte Gesù a Betlemme, non serve a nulla se non nasce in te...», ha scritto Silesio. Ecco, per i bambini 'fare il presepe' è il modo più semplice per imparare a far nascere Gesù in sé, per rivivere con amore l’evento di Betlemme.
  • Enzo Bianchi
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun dic 17, 2007 3:39 pm


  • La lettera dei 138 musulmani e il futuro del dialogo con i cristiani
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Nonostante le tese, e talvolta violente, proteste contro il discorso di Benedetto XVI a Ratisbona, quell'avvenimento ha avuto, inaspettatamente, un dolce frutto: una lettera scritta da 38 saggi musulmani nel 2006, e un anno dopo, una seconda lettera firmata da 138 musulmani, in una crescita considerevole del consenso, segnando una nuova apertura dialogica, tramite nuovi dinamismi e metodi. Il Vaticano, da parte sua, ha saputo mandare segnali rassicuranti dopo un momento di transizione e di attesa, con la visita del Papa alla Moschea blu di Istanbul e la sua preghiera davanti al mihrab, e poi con la nomina del cardinale Jean-Louis Tauran come presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso.

La prima lettera rispondeva a un'esigenza di reagire al discorso del Papa in un modo civile e sapiente. Certamente, dopo l'ondata del terrorismo, la crisi della satira danese e altri episodi negativi, tanti musulmani sentono il bisogno di rispondere in modo responsabile e dire al mondo che quello che i media trasmettono ampiamente, nonostante la sua gravita, non ha niente a che fare con l'immagine che hanno della propria religione. La seconda lettera, invece, rappresenta nuovi sviluppi. Intanto, non è più una risposta ma un appello; non un testo apologetico ma un testo conciliante, che cerca una parola comune, meditando l'essenziale delle nostre Tradizioni e Scritture: l'unicità di Dio che si riflette nell'unicità dell'umanità, e l'amore di Dio che si riflette nell'amore del prossimo. Tutto quello che tradisce questi principi di unità e di amore esprime, in verità, una deviazione del significato religioso della religione e della sua missione vitale.

Altra novità è l'ampiezza dei mittenti e dei destinatari. La lettera non è più, come la prima, indirizzata solamente al Papa, ma a tutti i leader religiosi della cristianità in tutto il mondo, e al Papa ovviamente in primo luogo. I firmatari stessi sono di tutti i continenti, e di diverse tendenze e correnti, sunniti, sciiti, ecc. Questo fatto è la prova che il dialogo interreligioso non rappresenta una minaccia per la coesione dei fedeli, ma al contrario ha delle conseguenze molto positive sul dialogo intrareligioso. Altro dato interessante, il ruolo intermediario svolto dai musulmani impegnati nel dialogo: ad esempio Aref Nayed, che ha insegnato al Pisai, e Sohail Nakhooda, che ha frequentato le Pontifìcie università di Roma. Senza dimenticare l'interesse crescente delle istituzioni ìslamiche nei confronti del dialogo: l'Istituto di Aal al-Bayt di Amman ha avuto un ruolo decisivo nel mettere insieme tutti questi sforzi.

Alcuni firmatari della lettera aspetterebbero una risposta diretta da Benedetto XVI, o almeno un accenno in uno dei suoi discorsi, ma le reazioni cattoliche, in generale, sono state abbastanza soddisfacenti, sia per l'opinione espressa dallo staff del Pisai, sia per i commenti dei padri gesuiti Samir Khalil Samir, Christian W. Troll e altri. Il sito ufficiale della lettera è diventato ormai uno spazio di dialogo scritto, e speriamo che questa corrispondenza sia l'inizio di una nuova fase qualitativa nel nostro cammino umano comune, purché l'ultima parola non sia dei guerrafondai e dei seminatori di odio. È una lettera onesta e sincera, per questo ha avuto un tale consenso e accoglienza. E come dice Rumi, il vino che piace a Dio è proprio l'onestà umana.
  • Adnane Mokrani
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » dom dic 23, 2007 11:22 pm


  • 31 volte Natività
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      • ...Natività sospesa, Natività offesa, Natività ansiosa,

        Natività amorosa, Natività fiduciosa, Natività affettuosa,

        Natività gioiosa, Natività luminosa, natività prodigiosa,

        Natività desiderosa, Natività generosa, Natività silenziosa,

        Natività vistosa, Natività ariosa, Natività preziosa,

        Natività pericolosa, Natività giocosa, Natività lacrimosa,

        Natività odorosa, Natività sanguinosa, Natività speranzosa,

        Natività dolorosa, Natività grintosa, Natività sontuosa,

        Natività paurosa, Natività coraggiosa, Natività gaudiosa,

        Natività ansimosa, Natività festosa, Natività maestosa,

        Natività radiosa...

        Natività senza nome raccogli i frammenti
        alla deriva dell'unico firmamento conosciuto e che ogni stella
        diventi diamante d'attesa nelle tue notti di febbre divinatoria.
        Tu storia di tutte le strade che infilano perle
        nelle pozzanghere del mondo. Corra veloce la tua luce
        e senza attesa genufletta le voci della terra alla tua dolce attesa... sacrum tego.
        • Omar Galliani
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » gio gen 03, 2008 11:09 am


  • L’invito a scoprire il disegno di Dio sul nostro oggi: mettere insieme i segni come Maria, e così noi…
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Quando inizia l’anno, c’è la festa di Maria. Come se fosse un appoggio per iniziare, per sperare davvero. Così che gli auguri non siano solo lievi auspici. La festa di una donna che è madre di Dio. Che è come dire una cosa incredibile. Come fa una donna, e vergine, ad essere madre dell’Eterno? Mistero dei misteri. La Chiesa ha pian­tato la memoria di questo mi­stero dei misteri all’inizio di ogni anno. A ogni inizio nor­male, consueto degli anni e del tempo, c’è la memoria dell’inizio più inconsueto. Così il tempo solito, che si misura e si distende nei soliti giorni, è da subito segnato, aperto, dalla presenza più insolita, dalla faccenda più grande che sia mai esistita. Dall’avvenimen­to che ha dato un altro inizio alla storia del mondo.

Ma il Papa nell’omelia di martedì 1 gennaio ha fatto, se si può dire, un passo in profondità. Ha ricordato perché la festa di Maria è stata posta, ad un certo punto, all’apertura dell’anno. E poi è entrato nel cuore di quell’inizio. È entrato a guardare nel cuore di Maria. Esiste luogo, esiste spazio, spettacolo più misterioso del cuore di Maria? Il cuore di Gesù, in un certo senso, lo conosciamo. S’è così tutto aperto. Tutto mostrato, e piagato, per noi. Il cuore di Gesù s’è spaccato e ha fatto vedere cosa c’e­ra dentro. Quale passione per gli uomini. E quale disponibilità a suo Padre. Nel vangelo sappiamo che Lui parla sempre 'con il cuore'. Il che non vuol dire sentimentalmente. Il cuore per gli antichi – e specie per il popolo ebreo – non era una specie di spugna dei sentimenti. Non era il cuore banale di cui parlano ormai tutte le pubblicità, tutti i politici, tutti gli slogan di quest’era sentimentale e tragica.

No, il cuore era il segreto di ogni uomo. La sua personalità di affetto e intelligenza. La sua costituzione interiore, la finestra da cui guardava il mondo. Gesù ha mostrato il suo cuore. Ne ha mostrato il grido e il silenzio. L’allegria e l’implorazione. Di quello di Maria sappiamo poco, pochi cenni nel racconto. E il Papa ha voluto guardare il cuore di Maria. Il cuore dell’inizio.

Tra le altre cose, ha ricordato il senso delle parole che il vangelo riferisce su di lei. Lei assisteva agli eventi della vita di Gesù e 'serbava queste cose meditandole nel suo cuore'. Il Papa andando alla originale versione greca del racconto, traduce quel meditare con 'metteva insieme', e sottolinea con delicata precisione il senso di 'scoperta' che doveva abitare il cuore di Maria nel mettere insieme i segni di un grande mistero. Come dire che la sua mediazione di fronte a Gesù era un mettere insieme i segni. Era, in definitiva, l’atteggiamento di chi sta scoprendo un disegno mentre gli si mostra. Lei, che ne era la madre, scopriva il Figlio. Come noi, prima di noi. Il suo cuore era un cuore dunque sorpreso. Continuamente sorpreso dall’approfondirsi, dal chiarirsi dell’inizio.

Maria sta dunque al principio dell’anno non come una specie di statua sul portale. Non si tratta solo di onorarla mentre si passa sotto l’arco del passaggio dei giorni. Non c’è da fare solo una riverenza alla Donna più onorata nei secoli. Si tratta di conoscere e sperimentare il suo stesso cuore. Quel 'mettere insieme' ragionevole e stupefatto che è il tratto vero di ogni vita cristiana. La speranza e la pace si nutrono così. Non grazie a slogan o a programmi impeccabili. Ma in cuori che in un Volto presente, familiare, riconoscono la grandezza, e il significato del tempo.
  • Davide Rondoni
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Messaggio da miriam bolfissimo » gio gen 10, 2008 11:17 am


  • Noi napoletani non guariremo se non facciamo verità in noi
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Mentre l’aereo decollava dall’aeroporto di Capodichino, in partenza per l’India, mi lasciavo alle spalle la mia città, dall’alto la più bella del mondo, sommersa dai rifiuti. È proprio come se per sfregio qualcuno dall’alto avesse improvvisamente catapultato sulla nostra terra tonnellate e tonnellate d’immondizia. Uno scenario da Terzo Mondo, dove mi reco da vent’anni per sollevare i villaggi più poveri dal degrado e consentire le più banali norme igieniche, quelle che nella mia città, nel civile mondo occidentale, sono state spazzate via da cumuli e cumuli di spazzatura.

Mai avrei immaginato di atterrare a New Delhi e vedere sulla prima pagina del Free press la foto di Napoli che annega nell’immondizia con su scritto: «Una città di m.!». L’espressione non è dei cronisti indiani, è degli stessi napoletani che hanno affisso questo cartello su una delle tante montagne di rifiuti, ma sta di fatto che qui le prime pagine dei giornali così titolano questa vergogna che infanga in tutto il mondo l’immagine della nostra città.

Il dolore e l’umiliazione che ho provato come napoletano m’impone e c’impone, come ha detto il cardinale Sepe, il coraggio della verità. L’emergenza sarà risolta in qualche modo, ma senza verità non ci sarà liberazione e il problema ci ricadrà addosso tra altri dodici anni. Oggi la verità è ancora sommersa sotto i cumuli d’immondizia.

Il governo, la regione, il comune, il ministro dell’ambiente, nessuno ha avuto il coraggio di assumersi le proprie responsabilità. È più facile alludere agli ostacoli creati dalla malavita organizzata, e certamente in questa vergognosa vicenda la camorra ha avuto e continua ad avere il suo ruolo. Ma questa non è una giustificazione. Anzi!

Mi chiedo dov’era lo Stato quando ha permesso ogni sorta d’illegalità, quando è rimasto a guardare tonnellate di rifiuti tossici arrivare dal Nord nelle nostre terre con la connivenza di chi ha venduto i propri campi, degli imprenditori del Nord, di quella camorra che adesso si accusa, la stessa che ha speculato costruendo abusivamente abitazioni vicino alle discariche. Dov’era lo Stato, che adesso interviene con l’esercito, con poteri straordinari, solo perché richiamato dall’Unione Europea, in questi dodici anni di illegalità, quando ha permesso ai governi di destra e di sinistra la connivenza con il silenzio, quando ha calato il sipario sulle responsabilità di tutti per coprire questo scempio.

Lo Stato ha il dovere di garantire la libertà dei cittadini e la libertà si garantisce facendo rispettare le regole a tutti: alle istituzioni, alle amministrazioni locali, a chi non è stato all’altezza di affrontare il problema, a chi non ha saputo, o non ha voluto, organizzare e gestire la raccolta differenziata e a chi si è arricchito con la nostra immondizia e quella arrivata dal Nord.

Lo Stato ha il dovere di educare i cittadini alla legalità, i cittadini che oggi protestano sdegnati per le montagne di rifiuti sotto casa sono gli stessi che fino a ieri hanno depositato i sacchetti della spazzatura a tutte le ore del giorno e della notte senza alcun rispetto delle regole, sono gli stessi che per anni se ne sono infischiati del problema perché le montagne d’immondizia non stavano dinanzi alle loro case.

I cittadini che oggi sono scesi in piazza barricando le strade, isolando interi quartieri della periferia, per scongiurare la riapertura della discarica a Pianura, sono gli stessi che hanno atteso l’esplosione dell’emergenza per far sentire forte la loro voce. Non risolveremo mai niente se continueremo a trincerarci dietro falsi alibi, se continueremo a difenderci facendo credere a noi stessi che la colpa sia sempre di qualcun altro.

Quando la punta di un iceberg viene fuori è doveroso cambiare subito rotta o si rischia come è accaduto a Napoli, nella notte più buia della sua storia, di scontrarsi con una montagna di ghiaccio che questa volta si chiama 'mmonnezza'.
  • Gennaro Matino
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Messaggio da miriam bolfissimo » sab gen 19, 2008 8:58 am


  • Il discorso che il Papa avrebbe pronunciato durante la visita all'Università La Sapienza
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Magnifico Rettore, Autorità politiche e civili, Illustri docenti e personale tecnico amministrativo, cari giovani studenti!

È per me motivo di profonda gioia incontrare la comunità della "Sapienza - Università di Roma" in occasione della inaugurazione dell’anno accademico. Da secoli ormai questa Università segna il cammino e la vita della città di Roma, facendo fruttare le migliori energie intellettuali in ogni campo del sapere. Sia nel tempo in cui, dopo la fondazione voluta dal Papa Bonifacio VIII, l’istituzione era alle dirette dipendenze dell’Autorità ecclesiastica, sia successivamente quando lo Studium Urbis si è sviluppato come istituzione dello Stato italiano, la vostra comunità accademica ha conservato un grande livello scientifico e culturale, che la colloca tra le più prestigiose università del mondo.

Da sempre la Chiesa di Roma guarda con simpatia e ammirazione a questo centro universitario, riconoscendone l’impegno, talvolta arduo e faticoso, della ricerca e della formazione delle nuove generazioni. Non sono mancati in questi ultimi anni momenti significativi di collaborazione e di dialogo. Vorrei ricordare, in particolare, l’Incontro mondiale dei Rettori in occasione del Giubileo delle Università, che ha visto la vostra comunità farsi carico non solo dell’accoglienza e dell’organizzazione, ma soprattutto della profetica e complessa proposta della elaborazione di un "nuovo umanesimo per il terzo millennio".

Mi è caro, in questa circostanza, esprimere la mia gratitudine per l’invito che mi è stato rivolto a venire nella vostra università per tenervi una lezione. In questa prospettiva mi sono posto innanzitutto la domanda: che cosa può e deve dire un Papa in un’occasione come questa? Nella mia lezione a Ratisbona ho parlato, sì, da Papa, ma soprattutto ho parlato nella veste del già professore di quella mia università, cercando di collegare ricordi ed attualità. Nell’università "Sapienza", l’antica università di Roma, però, sono invitato proprio come Vescovo di Roma, e perciò debbo parlare come tale. Certo, la "Sapienza" era un tempo l’università del Papa, ma oggi è un’università laica con quell’autonomia che, in base al suo stesso concetto fondativo, ha fatto sempre parte della natura di università, la quale deve essere legata esclusivamente all’autorità della verità. Nella sua libertà da autorità politiche ed ecclesiastiche l’università trova la sua funzione particolare, proprio anche per la società moderna, che ha bisogno di un’istituzione del genere. Ritorno alla mia domanda di partenza: Che cosa può e deve dire il Papa nell’incontro con l’università della sua città? Riflettendo su questo interrogativo, mi è sembrato che esso ne includesse due altri, la cui chiarificazione dovrebbe condurre da sé alla risposta. Bisogna, infatti, chiedersi: Qual è la natura e la missione del Papato? E ancora: Qual è la natura e la missione dell’università? Non vorrei in questa sede trattenere Voi e me in lunghe disquisizioni sulla natura del Papato. Basti un breve accenno. Il Papa è anzitutto Vescovo di Roma e come tale, in virtù della successione all’Apostolo Pietro, ha una responsabilità episcopale nei riguardi dell’intera Chiesa cattolica.

La parola "vescovo"– episkopos, che nel suo significato immediato rimanda a "sorvegliante" – già nel Nuovo Testamento è stata fusa insieme con il concetto biblico di Pastore: egli è colui che, da un punto di osservazione sopraelevato, guarda all’insieme, prendendosi cura del giusto cammino e della coesione dell’insieme. In questo senso, tale designazione del compito orienta lo sguardo anzitutto verso l’interno della comunità credente. Il Vescovo – il Pastore – è l’uomo che si prende cura di questa comunità; colui che la conserva unita mantenendola sulla via verso Dio, indicata secondo la fede cristiana da Gesù – e non soltanto indicata: Egli stesso è per noi la via. Ma questa comunità della quale il Vescovo si prende cura – grande o piccola che sia – vive nel mondo; le sue condizioni, il suo cammino, il suo esempio e la sua parola influiscono inevitabilmente su tutto il resto della comunità umana nel suo insieme. Quanto più grande essa è, tanto più le sue buone condizioni o il suo eventuale degrado si ripercuoteranno sull’insieme dell’umanità. Vediamo oggi con molta chiarezza, come le condizioni delle religioni e come la situazione della Chiesa – le sue crisi e i suoi rinnovamenti – agiscano sull’insieme dell’umanità.

Così il Papa, proprio come Pastore della sua comunità, è diventato sempre di più anche una voce della ragione etica dell’umanità. Qui, però, emerge subito l’obiezione, secondo cui il Papa, di fatto, non parlerebbe veramente in base alla ragione etica, ma trarrebbe i suoi giudizi dalla fede e per questo non potrebbe pretendere una loro validità per quanti non condividono questa fede. Dovremo ancora ritornare su questo argomento, perché si pone qui la questione assolutamente fondamentale: Che cosa è la ragione? Come può un’affermazione – soprattutto una norma morale – dimostrarsi "ragionevole"? A questo punto vorrei per il momento solo brevemente rilevare che John Rawls, pur negando a dottrine religiose comprensive il carattere della ragione "pubblica", vede tuttavia nella loro ragione "non pubblica" almeno una ragione che non potrebbe, nel nome di una razionalità secolaristicamente indurita, essere semplicemente disconosciuta a coloro che la sostengono. Egli vede un criterio di questa ragionevolezza fra l’altro nel fatto che simili dottrine derivano da una tradizione responsabile e motivata, in cui nel corso di lunghi tempi sono state sviluppate argomentazioni sufficientemente buone a sostegno della relativa dottrina. In questa affermazione mi sembra importante il riconoscimento che l’esperienza e la dimostrazione nel corso di generazioni, il fondo storico dell’umana sapienza, sono anche un segno della sua ragionevolezza e del suo perdurante significato. Di fronte ad una ragione a-storica che cerca di autocostruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza dell’umanità come tale - la sapienza delle grandi tradizioni religiose - è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee. Ritorniamo alla domanda di partenza.

Il Papa parla come rappresentante di una comunità credente, nella quale durante i secoli della sua esistenza è maturata una determinata sapienza della vita; parla come rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l’intera umanità: in questo senso parla come rappresentante di una ragione etica. Ma ora ci si deve chiedere: E che cosa è l’università? Qual è il suo compito? È una domanda gigantesca alla quale, ancora una volta, posso cercare di rispondere soltanto in stile quasi telegrafico con qualche osservazione. Penso si possa dire che la vera, intima origine dell’università stia nella brama di conoscenza che è propria dell’uomo. Egli vuol sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda. Vuole verità. In questo senso si può vedere l’interrogarsi di Socrate come l’impulso dal quale è nata l’università occidentale. Penso ad esempio - per menzionare soltanto un testo - alla disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione mitica e la sua devozione.

A ciò Socrate contrappone la domanda: "Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti … Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero?" (6 b - c). In questa domanda apparentemente poco devota - che, però, in Socrate derivava da una religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca del Dio veramente divino - i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in modo positivista, o come la via d’uscita da desideri non appagati; l’hanno compresa come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione creatrice e al contempo Ragione-Amore. Per questo, l’interrogarsi della ragione sul Dio più grande come anche sulla vera natura e sul vero senso dell’essere umano era per loro non una forma problematica di mancanza di religiosità, ma faceva parte dell’essenza del loro modo di essere religiosi. Non avevano bisogno, quindi, di sciogliere o accantonare l’interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera. Poteva, anzi doveva così, nell’ambito della fede cristiana, nel mondo cristiano, nascere l’università.

È necessario fare un ulteriore passo. L’uomo vuole conoscere - vuole verità. Verità è innanzitutto una cosa del vedere, del comprendere, della theoría, come la chiama la tradizione greca. Ma la verità non è mai soltanto teorica. Agostino, nel porre una correlazione tra le Beatitudini del Discorso della Montagna e i doni dello Spirito menzionati in Isaia 11, ha affermato una reciprocità tra "scientia" e "tristitia": il semplice sapere, dice, rende tristi. E di fatto - chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo, finisce per diventare triste. Ma verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene. Questo è anche il senso dell’interrogarsi socratico: Qual è quel bene che ci rende veri? La verità ci rende buoni, e la bontà è vera: è questo l’ottimismo che vive nella fede cristiana, perché ad essa è stata concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell’incarnazione di Dio, si è rivelata insieme come il Bene, come la Bontà stessa. Nella teologia medievale c’è stata una disputa approfondita sul rapporto tra teoria e prassi, sulla giusta relazione tra conoscere ed agire - una disputa che qui non dobbiamo sviluppare.

Di fatto l’università medievale con le sue quattro Facoltà presenta questa correlazione. Cominciamo con la Facoltà che, secondo la comprensione di allora, era la quarta, quella di medicina. Anche se era considerata più come "arte" che non come scienza, tuttavia, il suo inserimento nel cosmo dell’universitas significava chiaramente che era collocata nell’ambito della razionalità, che l’arte del guarire stava sotto la guida della ragione e veniva sottratta all’ambito della magia. Guarire è un compito che richiede sempre più della semplice ragione, ma proprio per questo ha bisogno della connessione tra sapere e potere, ha bisogno di appartenere alla sfera della ratio. Inevitabilmente appare la questione della relazione tra prassi e teoria, tra conoscenza ed agire nella Facoltà di giurisprudenza. Si tratta del dare giusta forma alla libertà umana che è sempre libertà nella comunione reciproca: il diritto è il presupposto della libertà, non il suo antagonista. Ma qui emerge subito la domanda: Come s’individuano i criteri di giustizia che rendono possibile una libertà vissuta insieme e servono all’essere buono dell’uomo? A questo punto s’impone un salto nel presente: è la questione del come possa essere trovata una normativa giuridica che costituisca un ordinamento della libertà, della dignità umana e dei diritti dell’uomo. È la questione che ci occupa oggi nei processi democratici di formazione dell’opinione e che al contempo ci angustia come questione per il futuro dell’umanità. Jürgen Habermas esprime, a mio parere, un vasto consenso del pensiero attuale, quando dice che la legittimità di una carta costituzionale, quale presupposto della legalità, deriverebbe da due fonti: dalla partecipazione politica egualitaria di tutti i cittadini e dalla forma ragionevole in cui i contrasti politici vengono risolti.

Riguardo a questa "forma ragionevole" egli annota che essa non può essere solo una lotta per maggioranze aritmetiche, ma che deve caratterizzarsi come un "processo di argomentazione sensibile alla verità" (wahrheitssensibles Argumentationsverfahren). È detto bene, ma è cosa molto difficile da trasformare in una prassi politica. I rappresentanti di quel pubblico "processo di argomentazione" sono - lo sappiamo - prevalentemente i partiti come responsabili della formazione della volontà politica. Di fatto, essi avranno immancabilmente di mira soprattutto il conseguimento di maggioranze e con ciò baderanno quasi inevitabilmente ad interessi che promettono di soddisfare; tali interessi però sono spesso particolari e non servono veramente all’insieme. La sensibilità per la verità sempre di nuovo viene sopraffatta dalla sensibilità per gli interessi. Io trovo significativo il fatto che Habermas parli della sensibilità per la verità come di elemento necessario nel processo di argomentazione politica, reinserendo così il concetto di verità nel dibattito filosofico ed in quello politico.

Ma allora diventa inevitabile la domanda di Pilato: Che cos’è la verità? E come la si riconosce? Se per questo si rimanda alla "ragione pubblica", come fa Rawls, segue necessariamente ancora la domanda: Che cosa è ragionevole? Come una ragione si dimostra ragione vera? In ogni caso, si rende in base a ciò evidente che, nella ricerca del diritto della libertà, della verità della giusta convivenza devono essere ascoltate istanze diverse rispetto a partiti e gruppi d’interesse, senza con ciò voler minimamente contestare la loro importanza. Torniamo così alla struttura dell’università medievale. Accanto a quella di giurisprudenza c’erano le Facoltà di filosofia e di teologia, a cui era affidata la ricerca sull’essere uomo nella sua totalità e con ciò il compito di tener desta la sensibilità per la verità. Si potrebbe dire addirittura che questo è il senso permanente e vero di ambedue le Facoltà: essere custodi della sensibilità per la verità, non permettere che l’uomo sia distolto dalla ricerca della verità. Ma come possono esse corrispondere a questo compito? Questa è una domanda per la quale bisogna sempre di nuovo affaticarsi e che non è mai posta e risolta definitivamente. Così, a questo punto, neppure io posso offrire propriamente una risposta, ma piuttosto un invito a restare in cammino con questa domanda - in cammino con i grandi che lungo tutta la storia hanno lottato e cercato, con le loro risposte e con la loro inquietudine per la verità, che rimanda continuamente al di là di ogni singola risposta. Teologia e filosofia formano in ciò una peculiare coppia di gemelli, nella quale nessuna delle due può essere distaccata totalmente dall’altra e, tuttavia, ciascuna deve conservare il proprio compito e la propria identità.

È merito storico di san Tommaso d’Aquino - di fronte alla differente risposta dei Padri a causa del loro contesto storico - di aver messo in luce l’autonomia della filosofia e con essa il diritto e la responsabilità propri della ragione che s’interroga in base alle sue forze. Differenziandosi dalle filosofie neoplatoniche, in cui religione e filosofia erano inseparabilmente intrecciate, i Padri avevano presentato la fede cristiana come la vera filosofia, sottolineando anche che questa fede corrisponde alle esigenze della ragione in ricerca della verità; che la fede è il "sì" alla verità, rispetto alle religioni mitiche diventate semplice consuetudine. Ma poi, al momento della nascita dell’università, in Occidente non esistevano più quelle religioni, ma solo il cristianesimo, e così bisognava sottolineare in modo nuovo la responsabilità propria della ragione, che non viene assorbita dalla fede. Tommaso si trovò ad agire in un momento privilegiato: per la prima volta gli scritti filosofici di Aristotele erano accessibili nella loro integralità; erano presenti le filosofie ebraiche ed arabe, come specifiche appropriazioni e prosecuzioni della filosofia greca. Così il cristianesimo, in un nuovo dialogo con la ragione degli altri, che veniva incontrando, dovette lottare per la propria ragionevolezza. La Facoltà di filosofia che, come cosiddetta "Facoltà degli artisti", fino a quel momento era stata solo propedeutica alla teologia, divenne ora una Facoltà vera e propria, un partner autonomo della teologia e della fede in questa riflessa. Non possiamo qui soffermarci sull’avvincente confronto che ne derivò. Io direi che l’idea di san Tommaso circa il rapporto tra filosofia e teologia potrebbe essere espressa nella formula trovata dal Concilio di Calcedonia per la cristologia: filosofia e teologia devono rapportarsi tra loro "senza confusione e senza separazione". "Senza confusione" vuol dire che ognuna delle due deve conservare la propria identità. La filosofia deve rimanere veramente una ricerca della ragione nella propria libertà e nella propria responsabilità; deve vedere i suoi limiti e proprio così anche la sua grandezza e vastità. La teologia deve continuare ad attingere ad un tesoro di conoscenza che non ha inventato essa stessa, che sempre la supera e che, non essendo mai totalmente esauribile mediante la riflessione, proprio per questo avvia sempre di nuovo il pensiero. Insieme al "senza confusione" vige anche il "senza separazione": la filosofia non ricomincia ogni volta dal punto zero del soggetto pensante in modo isolato, ma sta nel grande dialogo della sapienza storica, che essa criticamente e insieme docilmente sempre di nuovo accoglie e sviluppa; ma non deve neppure chiudersi davanti a ciò che le religioni ed in particolare la fede cristiana hanno ricevuto e donato all’umanità come indicazione del cammino.

Varie cose dette da teologi nel corso della storia o anche tradotte nella pratica dalle autorità ecclesiali, sono state dimostrate false dalla storia e oggi ci confondono. Ma allo stesso tempo è vero che la storia dei santi, la storia dell’umanesimo cresciuto sulla basa della fede cristiana dimostra la verità di questa fede nel suo nucleo essenziale, rendendola con ciò anche un’istanza per la ragione pubblica. Certo, molto di ciò che dicono la teologia e la fede può essere fatto proprio soltanto all’interno della fede e quindi non può presentarsi come esigenza per coloro ai quali questa fede rimane inaccessibile. È vero, però, al contempo che il messaggio della fede cristiana non è mai soltanto una "comprehensive religious doctrine" nel senso di Rawls, ma una forza purificatrice per la ragione stessa, che aiuta ad essere più se stessa. Il messaggio cristiano, in base alla sua origine, dovrebbe essere sempre un incoraggiamento verso la verità e così una forza contro la pressione del potere e degli interessi. Ebbene, finora ho solo parlato dell’università medievale, cercando tuttavia di lasciar trasparire la natura permanente dell’università e del suo compito. Nei tempi moderni si sono dischiuse nuove dimensioni del sapere, che nell’università sono valorizzate soprattutto in due grandi ambiti: innanzitutto nelle scienze naturali, che si sono sviluppate sulla base della connessione di sperimentazione e di presupposta razionalità della materia; in secondo luogo, nelle scienze storiche e umanistiche, in cui l’uomo, scrutando lo specchio della sua storia e chiarendo le dimensioni della sua natura, cerca di comprendere meglio se stesso. In questo sviluppo si è aperta all’umanità non solo una misura immensa di sapere e di potere; sono cresciuti anche la conoscenza e il riconoscimento dei diritti e della dignità dell’uomo, e di questo possiamo solo essere grati. Ma il cammino dell’uomo non può mai dirsi completato e il pericolo della caduta nella disumanità non è mai semplicemente scongiurato: come lo vediamo nel panorama della storia attuale! Il pericolo del mondo occidentale - per parlare solo di questo - è oggi che l’uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verità. E ciò significa allo stesso tempo che la ragione, alla fine, si piega davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo. Detto dal punto di vista della struttura dell’università: esiste il pericolo che la filosofia, non sentendosi più capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che la teologia col suo messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella sfera privata di un gruppo più o meno grande. Se però la ragione - sollecita della sua presunta purezza - diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola. Applicato alla nostra cultura europea ciò significa: se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la convince e - preoccupata della sua laicità - si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma. Con ciò ritorno al punto di partenza.

Che cosa ha da fare o da dire il Papa nell’università? Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà. Al di là del suo ministero di Pastore nella Chiesa e in base alla natura intrinseca di questo ministero pastorale è suo compito mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro.
  • Benedetto XVI, 16 gennaio 2008
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » sab gen 19, 2008 9:17 am


  • La preghiera cuore del dialogo
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Cento anni fa un prete presbiteriano a New York si fece promotore di un’iniziativa destinata a dare un volto nuovo ai rapporti tra le diverse confessioni cristiane: l’ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani. Quell’appuntamento si ripete ogni anno dal 18 al 25 gennaio e, nell’«edizione del centenario» che si apre oggi in tutto il mondo, torna proprio sul tema che è stato il motore dell’iniziativa fin da principio: la preghiera. «Pregate continuamente », infatti, è il passo tratto dalla Prima lettera ai Tessalonicesi di san Paolo che fa da sfondo a questa settimana e da titolo al sussidio redatto da una commissione interconfessionale negli Stati Uniti, edito in Italia dalle Paoline e dal Centro «Pro unione». Del significato di questi giorni e del loro nesso con il cammino ecumenico nel mon- do e nella nostra Penisola parla monsignor Vincenzo Paglia, vescovo di TerniNarni-Amelia e presidente della Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo.

«Nella coscienza dei cristiani – spiega – la preghiera rappresenta il punto più immediato e più alto del cammino ecumenico. Una consapevolezza ben visibile nella svolta del Concilio Vaticano II, che segnò l’inizio della preghiera comune con le altre confessioni: nei decenni precedenti essa era vietata, ma Paolo VI, all’ultima sessione del Concilio il 4 dicembre 1965, pregò nella Basilica di San Paolo Fuori le Mura assieme a tutti gli osservatori delle altre confessioni cristiane.

  • Scegliere il tema della preghiera è quindi un modo per ritornare al «cuore» del cammino ecumenico?
Certo: il tema scelto ridona a questa Settimana per l’unità la sua vocazione precipua. La preghiera comune, anche se non è possibile ancora in tutti i luoghi, è l’aspetto ecumenico più ampio tra le Chiese cristiane: essa ci fa gustare già da ora la bellezza di quella unità che purtroppo non è ancora stata pienamente realizzata. Ovviamente la preghiera non cancella le divisioni ma rappresenta un fermento che ci spinge ad andare avanti sapendo che l’unità è un dono di Dio e a lui va chiesta.

  • Quali gli atteggiamenti da coltivare nel dialogo ecumenico?
Vanno evitati ingenuità, compromessi e rassegnazione: il dialogo corre essenzialmente su due binari, quello della verità e quello dell’amore. Non ci può essere unità senza una comune verità della fede, ecco perché sono fondamentali i dialoghi teologici, i documenti e le dichiarazioni comuni tra le diverse confessioni da quella del 1999 sulla dottrina della giustificazione con i luterani fino al documento di Ravenna con gli ortodossi. L’amore, poi, costituisce il fondamento della verità e fornisce uno spazio di azione comune: laddove è possibile che i cristiani operino assieme è necessario farlo. Si pensi all’ambito della carità, dell’impegno per la pace, della salvaguardia del creato ma anche gli incontri e la preghiera comune. Sono tutte dimensioni dove , davanti al mondo, dobbiamo mostrarci uniti. L’ecumenismo non è una questione di uffici ma è un modo di vivere la fede, fa parte della sequela di Gesù.

  • Che cosa ha significato la terza Assemblea ecumenica europea di Sibiu?
È stata una tappa significativa perché è stata vissuta come un itinerario nella profondità delle singole tradizioni con un atteggiamento di rispetto reciproco. A Sibiu si è manifestato con la sua ricchezza e con i suoi problemi il volto del cristianesimo europeo. Il messaggio al continente è stato forte: esso deve riscoprire le sue radici cristiane. Del resto nei confronti di tutto il pianeta il movimento ecumenico ha la responsabilità di indicare la via della fratellanza, una dimensione fondamentale nella pace tra i popoli come anche nell’incontro tra religioni. E nel dialogo tra fedi il Papa, per merito dell’opera di Giovanni Paolo II, ha di certo un primato spirituale: lui ha permesso e continua a permettere l’incontro.

  • Che cosa rispondere a chi parla di «inverno dell’ecumenismo»?
Non si può stare a misurare il termometro o la stagione, l’ecumenismo è un organismo vivo e come tale non è riducibile a parametri scientifici. Noi cristiani dobbiamo fare tutto il possibile e lasciare a Dio ciò che solo Lui può fare. Ciò che va evitato è il ripiegamento delle Chiese su se stesse, con il rischio di mettere altre questioni secondarie davanti all’ecumenismo.

  • E in Italia?
In Italia esiste una vivacità notevolissima nelle diocesi, che sono tra le più attive nel mondo in campo ecumenico. Una vivacità che si è vista a Sibiu, dove i delegati italiani delle diverse confessioni hanno giocato un ruolo fondamentale. Le comunità cristiane italiane, poi, danno un’accoglienza straordinaria ai cristiani delle altre confessioni tra gli immigrati. I segni di una vitalità sono diffusi anche nella nascita di diocesi di altre Chiese cristiane o di facoltà teologiche. Dopo Sibiu, inoltre, i delegati italiani si sono incontrati per trarre dall’Assemblea alcune conclusioni comuni.

  • Prossime tappe?
C’è in preparazione un Convegno nazionale intercristiano: sarà il quarto e verrà promosso dalla Chiesa cattolica sul tema della Parola di Dio. Un segno ulteriore di quella vivacità che alimenta il dialogo ecumenico in Italia.
  • Matteo Liut intervista monsignor Vincenzo Paglia, Vescovo di Terni-Narni-Amelia,
    Presidente e Segretariato CEI per l'Ecumenismo e il Dialogo
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Messaggio da miriam bolfissimo » ven gen 25, 2008 3:26 pm


  • I poveri del Libano
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Mi chiamo Padre Damiano Puccini dell’Istituto dei Servi del Cuore Immacolato di Maria (con Casa Generalizia a Roma in Via di Villa Traili, 56) e presente in Libano. La nostra zona del centro sud (a 17 chilometri da Beirut) è continuamente martoriata dalle conseguenze dei vari conflitti dell’area mediorientale. Il problema principale è in ogni caso l’assottigliamento della presenze cristiana, sempre costretta all’emigrazione. Sono molto belli i gesti dei cristiani che in spirito di perdono compiono azioni di carità condividendo anche il loro necessario in favore dei più poveri, anche musulmani, sostenuti dalla confidenza in Dio, che si manifesta nell’accettazione positiva, con pazienza, di un situazione ingiusta.

Parlando con loro in questi giorni riflettevamo insieme su come siamo invitati a prendere esempio dal Bambino di Betlemme che sceglie volontariamente di nascere in una condizione umile e disagiata facendoci capire che anche la povertà e l’ingiustizia, quando sono accettate con la fiducia in Dio, diventano strade per fare il bene. Non è infatti la semplice carità materiale che può soddisfare tutto il desiderio di pace che si ha dentro, ma il primo dono che si offre a chi ha bisogno è la serenità e il sorriso con il quale si accompagnano gli aiuti donati per le varie necessità.

Bisogna molto lavorare anche sulle disposizioni interiori, per esercitare bene la carità. Come diceva Don Bosco ”Non basta solo fare il bene, ma bisogna anche fare bene, il bene“. Per questo motivo, il nostro istituto ha ricevuto la donazione di un terreno di circa 7000 metri quadrati situato in Baabdat, una zona completamente cristiana a 8 chilometri da Beirut nel quale poter realizzare un’opera spirituale e caritativa. La formazione dei nostri volontari che si impegnano nell’aiuto ai più poveri, le varie iniziative religiose e culturali e, chiaramente lo spazio per accogliere i più bisognosi, secondo le diverse fasce di età e di necessità per un aiuto più stabile e permanente, sono le finalità di questo progetto. Già da tempo infatti siamo in contatto con altri gruppi di volontari che sono alla ricerca di luoghi come questi per poter ospitare malati, molti dei quali purtroppo giovani, che non trovano accoglienza nelle strutture pubbliche sempre più costose.

Recentemente ho seguito il caso di una famiglia che ha avuto problemi nel pagamento delle spese sanitarie in ospedale e che ha offerto una quota fissa in favore dei poveri, per avere le forza di accettare questa prova.

Ieri sono andato con due volontarie a visitare una famiglia molto povera, che vive in una casa molto umida e che non ha i soldi per il riscaldamento. Questa signora che conosco da tempo, molto generosa, ha voluto donare per Natale ai nostri volontari una confezione di succhi di frutta a testa, per ringraziarli della vicinanza nel momento della morte del padre, avvenuta nel corso dell’anno (i nostri giovani si rammaricavano del fatto di non arrivare a comprare un vestito nuovo al figlio e gli hanno regalato solo un paio di scarpe).

Ho saputo poi, che una signora che raccoglie con molta costanza aiuti tra le famiglie del paese, anche tra le più disagiate, in favore dei poveri ha rimandato di comprare un armadio per la propria casa, donando il suo denaro per l’acquisto di medicinali urgenti che servivano ad una famiglia bisognosa.

Per il sostegno e la formazione di questi volontari e anche dei poveri assistiti, chiediamo a tutti un gesto di generosità in favore di questa erigenda Opera in Baabdat. Nonostante che la crisi economica sempre di più causi gravi conseguenze sulla minoranza cristiana (un giovane padre di 4 figli è dovuto andare a lavorare in Africa per mantenere la famiglia, sono molti i casi come questo) la nostra Opera è già sostenuta dalla carità offerta da queste famiglie bisognose.

Chi è interessato a maggiori informazioni o a conoscere le modalità per un contributo in favore della nostra opera da far giungere sul posto, può chiamarmi al 333/5473721 o inviare un vaglia a
Sarò in Italia da Pasqua alla metà di maggio e sono disponibile a venire per una Santa Messa o un incontro.
  • padre Damiano Puccini
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Messaggio da miriam bolfissimo » gio gen 31, 2008 3:29 pm


  • Cina: la drammatica autobiografia di un dissidente
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Sopravvissuto a 19 anni di dura prigionia nei gulag cinesi, dove ancora oggi sono rinchiuse milioni di persone, Harry Wu sogna di «poter vedere una Cina libera e giusta».

«Era il novembre 1961. Per la terza volta, nei campi di lavoro pensai a Dio. Lo pregai di accogliere Chen Ming: "È uno del tuo gregge, tornato per stare con Te nello splendore del Tuo amore". Nessuno nella stanza mostrò interesse alla sua morte. Ero l’unico rimasto seduto. Che valore aveva la mia vita? Perché continuava? Fare del mio meglio o del mio peggio non significava comunque nulla. Prima di domani poteva essere tutto finito. Tornai a sdraiarmi e mi avvolsi nella coperta. In qualche modo non volevo cedere, non volevo arrendermi. Qualcosa dentro me gridava: dov’è il mio Dio, mio Padre? Aiutami. Guidami. Poi la mia mente si svuotò».

Harry Wu aveva già visto tanto orrore e tanto ne avrebbe ancora visto in seguito. Nato a Shanghai nel 1937, terzo di otto figli, Harry Wu (in cinese: Wu Hongda) è sopravvissuto a 19 anni di dura prigionia trascorsi nei laogai, una sigla che sta per laodong gaizao dui e significa "riforma attraverso il lavoro". Quell’esperienza è diventata un libro, pubblicato in questi giorni nella sua traduzione italiana (Controrivoluzionario, Edizioni San Paolo, 424 pagine, 22 euro) frutto della collaborazione con Carolyn Wakeman, docente di giornalismo e studi internazionali presso l’Università della California, a Berkeley.

«Il nostro stile di vita, tipico della classe medio-alta occidentalizzata di Shanghai, rifletteva l’educazione di papà a cavallo tra due culture», esordisce Harry Wu. «Nostro padre (un banchiere, ndr.) decise di far frequentare ai suoi figli le scuole gestite dai missionari. Nell’autunno del 1948 mi mandò alla St. Francis School. Uno degli insegnanti mi assegnò il nome inglese "Harry" la prima settimana di scuola. Nel 1950, fui prima battezzato e poi cresimato».

Con la vittoria di Mao e l’avvento del comunismo, la St. Francis cambiò nome, diventando "Scuola primaria del Tempo", i sacerdoti stranieri dovettero lasciare il Paese, alcuni chierici cinesi vennero arrestati e a ogni classe fu assegnato un istruttore politico che insegnava la teoria marxista-leninista. Finite le superiori, Harry Wu voleva studiare fisica o chimica. «Ma nella primavera del 1955», spiega, «una serie di articoli pubblicati sui giornali mi fecero cambiare idea. Senza geologi che scoprissero in Cina depositi di minerali, petrolio e carbone, la costruzione socialista non avrebbe potuto andare avanti. Senza geologi che studiassero il terreno, ponti, dighe e ferrovie non avrebbero potuto essere costruiti. Quando, a luglio, sostenni gli esami di ammissione all’università, compilai l’apposito formulario nazionale indicando l’Istituto di geologia di Pechino come prima scelta». Che l’accettò. E fu proprio lì che cominciarono i suoi guai.

Nel 1957, infatti, aveva criticato il Partito comunista: segnalandone ingiustizie e soprusi aveva aderito alla Campagna dei Cento Fiori promossa per altro dallo stesso Partito comunista al fine di "correggere i suoi precedenti errori". Il movimento di rettifica, fu detto, sarebbe stato condotto «con la stessa gentilezza di una brezza o di una lieve pioggia». Falso. Harry Wu venne etichettato come "nemico del popolo". Marginalizzato per oltre due anni dentro l’università, il 27 aprile 1960 fu arrestato. «In rappresentanza del Governo popolare di Pechino», dichiarò un funzionario di Pubblica sicurezza, catturandolo in un’aula dell’ateneo, «condanno l’elemento di destra e controrivoluzionario Wu Hongda alla rieducazione tramite il lavoro».

Benché mai formalmente sottoposto a processo, Harry Wu ha trascorso quasi due decenni in un infernale mondo nascosto di lavori umilianti, botte, torture prolungate, progressivo abbruttimento, squarci improvvisi di umanità e di aiuto reciproco. Harry Wu ha faticato nelle risaie, nelle campagne e nelle miniere, girando numerosi laogai dislocati in varie zone della Cina. Ha patito il freddo e, soprattutto, la fame. Si vide costretto a catturare di nascosto serpenti e rane pur di mettere qualcosa sotto i denti. Vide morire compagni di sventura perché denutriti, battuti fino alla morte, fucilati. O suicidi. Lui stesso rischiò la vita.

«Dopo essere stato rilasciato nel 1979», termina Harry Wu, «ho vissuto in Cina fino al 1985, anno in cui sono riuscito a espatriare negli Stati Uniti, dove vivo. In Cina, oggi, esistono più di 1.000 campi di lavoro forzato (nella postfazione il dato si fa più preciso: 1.045, ndr.), nei quali sono rinchiusi milioni di prigionieri. Spero nella mia vita di vedere una Cina libera e giusta, senza laogai. Morirò contento quando la parola laogai apparirà sui dizionari di tutte le lingue del mondo».
  • Alberto Chiara
_______


Questo libro merita di essere accostato ad Arcipelago Gulag di Aleksandr Solzhenitsyn quale insuperabile e personale testimonianza di che cosa accadeva a milioni di uomini e donne innocenti.
  • Los Angeles Times
_______


...mentre i LAGER nazisti furono chiusi nel 1945 ed i GULAG sovietici sono in disuso dagli anni '90, i LAOGAI cinesi sono tuttora operanti...
  • Harry Wu
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Messaggio da miriam bolfissimo » gio feb 07, 2008 3:42 pm


  • Tornare alla sapienza del limite
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Nelle nostre società evolute, a quanto sembra, gli spiriti animali del godimento non si contentano più della loro dose quotidiana. La loro esosità eccede ormai la tenuta della nostra psiche collettiva. Altro che modica quantità. Quegli spiriti animali (con tutto il rispetto per gli animali veri) forzano il limite, fino al sacrificio dell’umano (il nostro, preferibilmente).

Nella società, come negli individui, la perdita del senso del limite (ossia la sua sostanziale ignoranza, che astuti venditori cercano di piazzare come audacia creativa) può accendere attimi di esaltazione, ma spegne l’entusiasmo per generazioni. Una cultura che decida di coltivare tale ignoranza, addolcendone l’incoscienza, rende lo sconforto che ne deve seguire endemico e incurabile. Non lo respiriamo già come una specie di smog dell’anima? Non sta già trasformando noi – i nostri figli! – in una specie mutante, straordinariamente eccitabile ma orribilmente anaffettiva?

Riconoscere i propri limiti, significa possedere l’alta sapienza che è necessaria per decidere da sé, in tutta scienza e coscienza, i modi della qualità umana. Possibilmente, prima che l’irresponsabilità delle nostre insipienti forzature ci imponga una sorta di anomala regressione zoologica e vegetale dell’ominizzazione. Mascherata chimicamente o ciberneticamente, finché si vuole, l’automazione è il contrario dell’autodeterminazione umana.

Il popolo cristiano, entrando nel tempo della Quaresima, ripete simbolicamente il gesto di iniziazione che ci restituisce alla sapienza più profonda del limite. E pertanto, alla signoria della libertà degna dell’uomo. Lo so che il simbolo è diventato uno slogan per esorcizzare il fastidio di facce smunte e deprimenti, o di periodi di precarietà e di penuria. A sentir noi, è sempre tempo quaresimale. Facciamo già fin troppi sacrifici. Vero. Però, con tutto il rispetto, ma proprio tutto, non scherziamo. Noi siamo nella parte del pianeta più ingozzata e ingorda che ci sia. Predichiamo di uno sviluppo sostenibile e razzoliamo nella religione dei consumi, non importa come. Ci stanno cedendo tutti i legami umani, consideriamo superate tutte le forme di coltivazione dell’anima, le trasformiamo in mere fonti di eccitazione senza pensiero. E provvediamo ossessivamente a un’unica iniziazione dei giovani: quella al godimento sicuro. E vogliamo passare per quaresimalisti forzati, come se il cristianesimo fosse fermo ai simboli del Medioevo? È del rischio di un binario morto della storia che parliamo, genti d’Europa. La Quaresima è l’ultimo simbolo di sobrietà volontaria e sovrana che ci sia rimasto. L’unica signorile sprezzatura del dogma libidico dell’anti-sacrificio a tutti i costi, al quale è diventato difficilissimo rifiutarsi di sacrificare in pubblico.

La sento l’obiezione: tutto questo avviene con sacrificio di molti però, anche qui, che sono sfruttati, demoralizzati, resi insicuri dalla frantumazione violenta di ogni limite. Compresi quelli che annodano legami di pace, combattono la disperazione, subiscono innocenti la loro disinteressata passione per la giustizia. E anche quelli che sanno e patiscono, per tutti, l’enormità degli inganni di cui si servono le potenze che cercano il ritorno dell’umano a pianta e ameba. Aggiungiamo anche i moltissimi che sperano ormai solo in una grande tregua della corsa al godimento, per poter crescere generazioni ancora capaci di spiritualità, di pensiero, di poesia. (Tutto questo, padri e madri della fede, è il mistero del peccato che fronteggiamo: non l’eccesso di cioccolatini). Di che parlavo, appunto? E di che parla, evocando l’abisso, una quaresima cristiana, oggi?
  • Pierangelo Sequeri
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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