Riflettendo che ... nulla è xcaso

Riflessi di lago, specchio di un’anima…

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gluca
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Messaggio da gluca » sab apr 01, 2006 4:38 pm

Grazie infinite per questi bellissimi pensieri!

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miriam bolfissimo
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar apr 04, 2006 5:37 pm

L'ansia del tempo che fugge e la meraviglia del kairòs

È nota la centralità della meditazione sul tempo da parte di sant'Agostino e ancor più celebre la sua osservazione: «Se nessuno mi interroga, so benissimo che cosa è il tempo; ma se qualcuno mi domanda di dire che cosa sia, mi accorgo di non saperlo più».

Il tempo oscilla innanzitutto tra due dimensioni: quella oggettiva e quella soggettiva. Attualmente, è particolarmente in primo piano quella oggettiva.

La nostra misurazione del tempo è precisissima (si pensi ai centesimi di secondo della gare sportive); da essa dipende il funzionamento del grande ingranaggio del nostro pianeta: il 2005 è durato un secondo di più perché, se non si fosse apportata questa correzione, sarebbero saltati i sistemi di computer che regolano tutta una serie di procedure nevralgiche della gran macchina del mondo. I nostri strumenti dovrebbero misurare il tempo regolato dai moti della Terra; ma quest'ultima non riesce ad "adeguarsi" alla precisione dei nostri sistemi! Così precisi da non misurare più il tempo "reale", ma da essere misure astratte di un tempo ideale.

Ma il tempo è anche e soprattutto una misura soggettiva. Tutti sappiamo bene che il tempo di un dolore o di una malattia, oppure di una coda in autostrada o in un ufficio è lunghissimo, mentre in circostanze liete il tempo vola: in compagnia di persone care, leggendo un libro avvincente, ascoltando una musica coinvolgente, praticando uno sport appassionante, assistendo a uno spettacolo interessante, in una ricorrenza festosa il tempo trascorre sempre troppo rapido. E tutti sappiamo quanto lungo fosse il tempo nell'infanzia e come sembri scorrere sempre più velocemente man mano che si avanza negli anni.

Ma, in entrambe le prospettive, soggettiva e oggettiva, il tempo ha l'aspetto di una quantità, dì un filo che si dipana, un nastro che scorre, portando, scandendo il nostro vivere, ma anche erodendolo. Un tempo, di per sé, neutro e vuoto, quindi. Un tempo in cui il presente sfugge, è sempre già passato o ancora futuro. Che ci dice, minaccioso, che finiremo.

Il tempo però può svelarsi anche in altro modo. Come una serie di occasioni puntuali; il rinnovarsi in ogni istante dell'aprirsi di un presente, nel quale un senso ci viene incontro, nel quale ci viene data la possibilità, qui e ora, di vivere e di diventare ed essere noi stessi.

Biblicamente si dice: un kairòs. Il tempo per esser salvati da quanto minaccia di distruggerci internamente, isolarci, nullificarci e per accedere invece alla pienezza della nostra autenticità umana.

Un tempo pieno, colmato.

Un tempo come uno spiraglio aperto in una grotta dal qua e si vedono cieli aperti e si respira aria pura.

Un tempo che ci promette e ci dice: il tuo essere è saldo e sicuro.

Da che dipende vivere il tempo in questo modo? Dal fatto che esso sia il tempo di un "incontro". Con qualcuno che ci accoglie, ci ama, ci perdona, ci parla.

Il tempo vissuto in questo tipo di incontro è vissuto come estasi, ha qualcosa di eterno, di beato. È il tempo di un bimbo tra le braccia della mamma, di un fanciullo per mano a suo padre, il tempo di due sposi che si amano. È il tempo, per ognuno, della sconvolgente scoperta di un Dio che è per noi partner di vita profondo e intimo. Che ci ama, ci parla, ci perdona, ci accoglie.

Dove viviamo questa estasi di incontro con Dio? Certamente, nella lettura e ascolto della sua Parola; nelle celebrazioni liturgiche dei misteri.

Ma, e questa è la grandezza abissale della fede cristiana, altrettanto nell'incontro con il nostro prossimo, soprattutto coi poveri e con gli ultimi. Altrettanto quando perdoniamo, accogliamo, ascoltiamo, soccorriamo, parliamo, amiamo.

Non sempre riusciamo a cogliere estasi e felicità in questo. Anzi, spesso cogliamo solo fatica e difficoltà.

Eppure in quei modi e momenti la vita di Dio vive particolarmente in noi e noi viviamo la vita di Dio, viviamo in Dio: la dimensione stessa che chiamiamo Paradiso. Ma che noi, dai sensi spirituali ancora poco sviluppati, non riusciamo a gustare.

Eppure, credenti e anche non credenti, andiamo almeno ogni tanto oltre noi stessi, in certo senso contro una dimensione (quella falsa) di noi stessi. E vinciamo l'insensatezza e l'angoscia del tempo che scorre, con un gesto, un’azione che è oltre il tempo, il cui senso non è caduco.

Il tempo non si trascende solo alla fine dei tempi ma, puntualmente, ogni volta che i nostri gesti hanno una "qualità" che resta oltre il tempo.

«Il tempo si è fatto breve», di san Paolo, non annuncia la "sottrazione" di qualcosa. Ci dice che ormai solo per poco saremo sotto il regime della caducità. Che il nostro finire è già stato vinto dalla potenza della resurrezione e che presto ciò sarà manifestato.

Per questo, possiamo ridere o piangere come se non piangessimo o ridessimo. Perché vi è già un'altra dimensione in cui il dolore del pianto e la spina insita nel riso, vale a dire il suo finire, sono superati e in cui si iscrive ciò che non tramonta.
  • Maria Cristina Bartolomei
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » ven apr 14, 2006 10:15 am

    • Gesù, confido in Te!
Novena alla Divina Misericordia dal 14 al 22 aprile 2006[/b][/size]



Dal Diario di Santa Faustina
  • Novena alla Divina Misericordia che Gesù mi ha ordinato di scrivere e di fare prima della festa della Misericordia. Ha inizio il Venerdì Santo.

    "Desidero che durante questi nove giorni tu conduca le anime alla fonte della Mia Misericordia, affinché attingano forza, refrigerio ed ogni grazia, di cui hanno bisogno per le difficoltà della vita e specialmente nell'ora della morte.

    Ogni giorno condurrai al Mio Cuore un diverso gruppo di anime e le immergerai nel mare della Mia Misericordia.

    E io tutte queste anime le introdurrò nella casa del Padre Mio.

    Lo farai in questa vita e nella vita futura.

    E non rifiuterò nulla a nessun'anima che condurrai alla fonte della Mia Misericordia.

    Ogni giorno chiederai al Padre Mio le grazie per queste anime per la Mia dolorosa Passione".

    Risposi: "Gesù, non so come fare questa novena e quali anime introdurre prima nel Tuo misericordiosissimo Cuore".

    E Gesù mi rispose che me l'avrebbe detto giorno per giorno quali anime dovevo introdurre nel Suo Cuore".


PRIMO GIORNO (Venerdì Santo)
  • “Oggi conduciMi tutta l’umanità e specialmente tutti i peccatori e immergili nel mare della Mia Misericordia. E con questo Mi consolerai dell’amara tristezza in cui Mi getta la perdita delle anime”.
Gesù misericordiosissimo, la cui prerogativa è quella d'avere compassione di noi e di perdonarci, non guardare i nostri peccati, ma la fiducia che abbiamo nella Tua infinita bontà e accoglici nella dimora del Tuo pietosissimo Cuore e non lasciarci uscire di lì per l'eternità. Ti supplichiamo per l'amore che Ti unisce al Padre ed allo Spirito Santo.

O Onnipotenza della divina Misericordia,
Rifugio per l'uomo peccatore,
Tu che sei la Misericordia e un mare di compassione,
Aiuta chi t'invoca in umiltà.

Eterno Padre, guarda con occhio di misericordia specialmente i poveri peccatori e tutta l'umanità, che è racchiusa nel pietosissimo Cuore di Gesù, e per la Sua dolorosa Passione mostraci la Tua misericordia, affinché per tutti i secoli possiamo esaltare l'Onnipotenza della Tua misericordia. Amen.
    • (Si reciti la Coroncina alla Divina Misericordia)


SECONDO GIORNO (Sabato Santo)
  • “Oggi conduciMi le anime dei sacerdoti e le anime dei religiosi e immergile nella Mia insondabile Misericordia. Essi Mi hanno dato la forza di superare l'amara Passione. Per mezzo loro come per mezzo di canali, la Mia Misericordia scende sull'umanità”.
Misericordiosissimo Gesù, da cui proviene ogni bene, aumenta in noi la grazia, affinché compiamo degne opere di Misericordia, in modo che quanti ci osservano lodino il Padre della Misericordia che è nei cieli.

La fonte dell'amore di Dio,
Alberga nei cuori limpidi,
Purificati nel mare della Misericordia,
Luminosi come le stelle, chiari come l'aurora.

Eterno Padre, guarda con gli occhi della Tua misericordia la schiera eletta per la Tua vigna, le anime dei sacerdoti e le anime dei religiosi, e dona loro la potenza della Tua benedizione, e per i sentimenti del Cuore del Figlio Tuo, il Cuore in cui essi sono racchiusi, concedi loro la potenza della Tua luce, affinché possano guidare gli altri sulla via della salvezza, in modo da poter cantare assieme per tutta l’eternità le lodi della Tua Misericordia infinita. Amen.
    • (Si reciti la Coroncina alla Divina Misericordia)


TERZO GIORNO (Santa Pasqua)
  • “Oggi conduciMi tutte le anime devote e fedeli ed immergile nel mare della Mia Misericordia. Queste anime Mi hanno confortato lungo la strada del Calvario, sono state una goccia di conforto in un mare di amarezza”.
O Gesù misericordiosissimo, che elargisci a tutti in grande abbondanza le Tue grazie dal tesoro della Tua Misericordia, accoglici nella dimora del Tuo pietosissimo Cuore e non farci uscire da esso per tutta l'eternità. Te ne supplichiamo per l'ineffabile amore, di cui il Tuo Cuore arde per il Padre Celeste.

Sono imperscrutabili le meraviglie della Misericordia,
Non riesce a scandagliarle né il peccatore, né il giusto.
A tutti rivolgi sguardi di compassione,
E attiri tutti al Tuo amore.

Eterno Padre, guarda con occhi di Misericordia alle anime fedeli, come l'eredità del Figlio Tuo e per la Sua Passione dolorosa concedi loro la Tua benedizione e accompagnale con la Tua protezione incessante, affinché non perdano l'amore ed il tesoro della santa fede, ma con tutta la schiera degli angeli e dei santi glorifichino la Tua illimitata Misericordia nei secoli dei secoli. Amen.
    • (Si reciti la Coroncina alla Divina Misericordia)
QUARTO GIORNO (Lunedì dell'Angelo)
  • “Oggi conduciMi i pagani e coloro che non Mi conoscono ancora. Anche a loro ho pensato nella Mia amara Passione e il loro futuro zelo ha consolato il Mio Cuore. Immergili nel mare della Mia Misericordia”.
O misericordiosissimo Gesù, che sei la luce del mondo intero, accogli nella dimora del Tuo pietosissimo Cuore le anime dei pagani che non Ti conoscono ancora. I raggi della Tua grazia li illuminino, affinché anche loro assieme a noi glorifichino i prodigi della Tua Misericordia e non lasciarli uscire dalla dimora del Tuo pietosissimo Cuore.

La luce del Tuo amore,
Illumini le tenebre delle anime;
Fa' che queste anime Ti conoscano
E glorifichino con noi la Tua Misericordia.

Eterno Padre, guarda con occhi di Misericordia alle anime dei pagani e di coloro che non Ti conoscono ancora, e che sono racchiuse nel pietosissimo Cuore di Gesù. Attirale alla luce del Vangelo. Queste anime non sanno quale grande felicità è quella di amarTi. Fa' che anche loro glorifichino la generosità della Tua Misericordia per i secoli dei secoli. Amen.
    • (Si reciti la Coroncina alla Divina Misericordia)


QUINTO GIORNO
  • “Oggi conduciMi le anime degli eretici e degli scismatici ed immergile nel mare della Mia Misericordia. Nella Mia amara Passione Mi hanno lacerato le carni ed il cuore, cioè la Mia Chiesa. Quando ritorneranno all'unità della Chiesa, si rimargineranno le Mie ferite ed in questo modo allevieranno la Mia Passione”.

Anche per coloro che stracciarono la veste della Tua unità,
Sgorga dal Tuo Cuore una fonte di pietà.
L'Onnipotenza della Tua Misericordia, o Dio,
Può ritrarre dall'errore anche queste anime.

Misericordiosissimo Gesù, che sei la bontà stessa, Tu non rifiuti la luce a coloro che Te la chiedono; accogli nella dimora del Tuo pietosissimo Cuore le anime degli eretici e le anime degli scismatici; attirali con la Tua luce all'unità della Chiesa e non lasciarli partire dalla dimora del Tuo pietosissimo Cuore, ma fa' che anch'essi glorifichino la generosità della Tua Misericordia.

Eterno Padre, guarda con gli occhi della Tua Misericordia alle anime degli eretici e degli scismatici, che hanno dissipato i Tuoi beni ed hanno abusato delle Tue grazie, perdurando ostinatamente nei loro errori. Non badare ai loro errori, ma all'amore del Figlio Tuo ed alla Sua amara Passione, che ha preso su di Sé per loro, poiché anche loro sono racchiusi nel pietosissimo Cuore di Gesù. Fa' che anche essi lodino la Tua grande Misericordia per i secoli dei secoli. Amen.
    • (Si reciti la Coroncina alla Divina Misericordia)
SESTO GIORNO
  • “Oggi conduciMi le anime miti e umili e le anime dei bambini e immergile nella Mia Misericordia. Queste anime sono le più simili al Mio cuore. Esse Mi hanno sostenuto nell'amaro travaglio dell'agonia. Li ho visti come gli angeli della terra che avrebbero vigilato presso i Miei altari. Su di loro riverso le Mie grazie a pieni torrenti. Solo un'anima umile è capace di accogliere la Mia grazia; alle anime umili concedo la Mia piena fiducia”.
Misericordiosissimo Gesù, che hai detto.. "Imparate da Me che sono mite ed umile di cuore", accogli nella dimora del Tuo pietosissimo Cuore le anime miti e umili e le anime del bambini. Queste anime attirano l'ammirazione di tutto il paradiso e formano lo speciale compiacimento del Padre Celeste; sono un mazzo di fiori davanti al trono di Dio, del cui profumo si delizia Dio stesso. Queste anime hanno stabile dimora nel pietosissimo Cuore di Gesù e cantano incessantemente l'inno dell'amore e della Misericordia per l'eternità.

In verità l'anima umile e mite
Già qui sulla terra respira il paradiso,
E del profumo del suo umile cuore
Si delizia il Creatore stesso.

Eterno Padre, guarda con occhi di Misericordia alle anime miti e umili ed alle anime dei bambini, che sono racchiuse nella dimora del pietosissimo Cuore di Gesù. Queste anime sono le più simili al Figlio Tuo; il loro profumo s'innalza dalla terra e raggiunge il Tuo trono. Padre di Misericordia e di ogni bontà, Ti supplico per l'amore ed il compiacimento che hai per queste anime, benedici il mondo intero, in modo che tutte le anime cantino assieme le lodi della Tua Misericordia per tutta l'eternità. Amen.
    • (Si reciti la Coroncina alla Divina Misericordia)


SETTIMO GIORNO
  • “Oggi conduciMi le anime che venerano in modo particolare ed esaltano la Mia Misericordia ed immergile nella Mia Misericordia. Queste anime hanno sofferto maggiormente per la Mia Passione e sono penetrate più profondamente nel Mio spirito. Esse sono un riflesso vivente del Mio Cuore pietoso. Queste anime risplenderanno con una particolare luminosità nella vita futura. Nessuna finirà nel fuoco dell'inferno, difenderò in modo particolare ciascuna di loro nell'ora della morte”.
Misericordiosissimo Gesù, il cui Cuore è l'amore stesso, accogli nella dimora del Tuo pietosissimo Cuore le anime che in modo particolare venerano ed esaltano la grandezza della Tua Misericordia. Queste anime sono forti della potenza di Dio stesso, in mezzo ad ogni genere di tribolazioni e contrarietà, avanzano fiduciose nella Tua Misericordia. Queste anime sono unite a Gesù e reggono sulle loro spalle l'umanità intera. Esse non saranno giudicate severamente, ma la Tua Misericordia le avvolgerà nell'ora della morte.

L'anima che esalta la bontà del Suo Signore,
Viene da Lui particolarmente amata,
È sempre accanto alla sorgente viva,
Ed attinge la grazia dalla divina Misericordia.

Eterno Padre, guarda con occhi di Misericordia alle anime che esaltano e venerano il Tuo più grande attributo, cioè la Tua insondabile Misericordia e che sono racchiuse nel misericordiosissimo Cuore di Gesù. Queste anime sono un Vangelo vivente, le loro mani sono colme di opere di Misericordia e la loro anima è piena di gioia e canta all'Altissimo l'inno della Misericordia. Ti supplico, o Dio, mostra loro la Tua Misericordia secondo la speranza e la fiducia che hanno posto in Te; si adempia in essi la promessa di Gesù che ha detto loro: " Le anime che onoreranno la Mia insondabile Misericordia, Io stesso le difenderò come Mia gloria durante la vita, ma specialmente nell'ora della morte". Amen.
    • (Si reciti la Coroncina alla Divina Misericordia)


OTTAVO GIORNO
  • “Oggi conduciMi le anime che sono nel carcere del purgatorio ed immergile nell'abisso della Mia Misericordia. I torrenti del Mio Sangue attenuino la loro arsura. Tutte queste anime sono molto amate da Me; ora stanno dando soddisfazione alla Mia giustizia; è in tuo potere recar loro sollievo. Prendi dal tesoro della Mia Chiesa tutte le indulgenze ed offrile per loro... Oh, se conoscessi i loro tormenti, offriresti continuamente per loro l'elemosina dello spirito e pagheresti i debiti che essi hanno nei confronti della mia giustizia!”.
Misericordiosissimo Gesù, che hai detto che vuoi Misericordia, ecco io conduco alla dimora del Tuo pietosissimo Cuore le anime del purgatorio, anime che a Te sono molto care e le quali tuttavia debbono soddisfare la Tua giustizia. I torrenti del Sangue e dell'Acqua che sono scaturiti dal Tuo Cuore spengano il fuoco del purgatorio, in modo che anche là venga glorificata la potenza della Tua Misericordia.

Dall'arsura tremenda del fuoco del purgatorio,
S'innalza un lamento alla Tua Misericordia,
E ricevono conforto, sollievo e refrigerio
Nel torrente formato dal Sangue e dall'Acqua.
Eterno Padre, guarda con occhi di Misericordia alle anime che soffrono nel purgatorio, e che sono racchiuse nel pietosissimo Cuore di Gesù. Ti supplico per la dolorosa Passione del Figlio Tuo Gesù e per tutta l'amarezza da cui fu inondata la Sua santissima anima, mostra la Tua Misericordia alle anime che sono sotto lo sguardo della Tua giustizia, non guardare a loro se non attraverso le Piaghe del Tuo amatissimo Figlio Gesù, poiché noi crediamo che la Tua bontà e la Tua Misericordia sono senza limiti.
    • (Si reciti la Coroncina alla Divina Misericordia)

NONO GIORNO (Vigilia della Festa della Divina Misericordia)
  • “Oggi conduciMi le anime tiepide ed immergile nell'abisso della Mia Misericordia. Queste anime feriscono il Mio Cuore nel modo più doloroso. La Mia anima nell'Orto degli Ulivi ha provato la più grande ripugnanza per un'anima tiepida. Sono state loro la causa per cui ho detto: "Padre, allontana da Me questo calice, se questa è la Tua volontà." Per loro, ricorrere alla Mia Misericordia costituisce l'ultima tavola di salvezza”.
Misericordiosissimo Gesù, che Sei la pietà stessa, introduco nella dimora del Tuo Cuore pietosissimo le anime tiepide. Possano riscal¬darsi nel Tuo puro amore queste anime di ghiaccio, che assomigliano a cadaveri e suscitano in te tanta ripugnanza. O Gesù pietosissimo, usa l'onnipotenza della Tua Misericordia ed attirale nell'ardore stesso del Tuo amore e concedi loro l'amore santo, dato che puoi tutto.

Il fuoco e il ghiaccio non possono stare uniti,
Poiché, o si spegne il fuoco o si scioglie il ghiaccio,
Ma la Tua Misericordia, o Dio,
Può soccorrere miserie anche maggiori.

Eterno Padre, guarda con occhi di Misericordia alle anime tiepide, che sono racchiuse nel pietosissimo Cuore di Gesù. Padre della Mise¬ricordia, Ti supplico per l'amarezza della Passione del Tuo Figlio e per la Sua agonia di tre ore sulla croce, permetti che anche loro lodino l'abisso della Tua Misericordia... Amen.
    • (Si reciti la Coroncina alla Divina Misericordia)


Coroncina alla Divina Misericordia

Si usa la Corona del Rosario. All'inizio il Segno di Croce: Nel Nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Segue un Pater, un Ave e un Credo
  • Padre Nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la Tua Volontà come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano, rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non ci indurre in tentazione, ma liberaci del male. Amen
  • Ave o Maria, piena di grazia, il Signore è con Te, Tu sei benedetta fra le donne e benedetto è il frutto del tuo seno, Gesù. Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori adesso e nell'ora della nostra morte. Amen
  • Credo in Dio, Padre Onnipotente, Creatore del cielo e della terra e in Gesù Cristo suo unico Figlio, il quale fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine, patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto. Discese agli inferi, il terzo giorno risuscitò da morte, salì al cielo e siede alla destra di Dio Padre Onnipotente, di là verrà a giudicare i vivi e i morti. Credo nello Spirito Santo, la Santa Chiesa Cattolica, la Comunione dei Santi, la Remissione dei peccati, la Resurrezione della carne e la Vita Eterna. Amen.
Sui grani del Padre Nostro si recita:
  • Eterno Padre, ti offro il Corpo, il Sangue, l'Anima e la Divinità del Tuo dilettissimo Figlio e Signore nostro Gesù Cristo in espiazione dei nostri peccati e di quelli del mondo intero.
Sui grandi dell'Ave Maria si recita per dieci volte consecutivamente:
  • Per la sua dolorosa Passione, abbi misericordia di noi e del mondo intero.
Alla fine della coroncina (5 decadi) si recita per 3 volte:
  • Dio Santo, Dio Forte, Dio Immortale, abbi pietà di noi e del mondo intero.
Si conclude la preghiera facendosi li segno della Croce: nel Nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
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Messaggio da miriam bolfissimo » mer mag 03, 2006 8:58 am

  • Fare i conti con l'esplosione delle convivenze
    e la crisi del matrimonio
Abbastanza distrattamente avevo aperto la busta, caratteristica delle partecipazioni matrimoniali. Quando sono andato a leggere non credevo ai miei occhi.

La partecipazione era composta da quattro facciate. Nella prima un sole ridente portava la scritta: «Sai la novità?». E fin qui nulla di speciale. Poteva essere una spiritosaggine che a volte gli sposini usano. Nelle due pagine centrali, la scritta diceva: «Francesca e Paolo (sono nomi fantasiosi) vi invitano a festeggiare mamma e babbo "oggi sposi"». Nella parte inferiore l'invito continuava: «Vi aspettiamo... presso la chiesa di...». L'ultima riga riportava i nomi dei due coniugi. A fianco una vignetta con il girasole commentava: «Era ora!!!».

Mi ci è voluto del tempo per capire di che cosa si trattasse. Erano i due figli che spedivano l'invito di matrimonio dei loro genitori. E non si trattava di un matrimonio civile, ma di un matrimonio religioso. Non ho avuto il coraggio di telefonare al parroco dei due sposi, che pure conoscevo.

Il primo pensiero è stato buono: ho pensato che i due, convertitì, avessero finalmente regolarizzato la loro posizione. La scritta dell'ultima pagina, nella quale si dichiarava che la vera festa incominciava al ristorante, mi ha indotto a pensare che in realtà non si trattasse di "conversione", ma semplicemente di una regolarizzazione tardiva.

Le convivenze di fatto, con o senza figli, da fidanzatini o in età matura, sono diventate oramai un fenomeno talmente diffuso da non risparmiare nessun territorio.

Nella preparazione al matrimonio dei fidanzati, alla richiesta se sono conviventi, i giovani rispondono con un sorriso: quasi a dirci, perché domandiamo una cosa che tutti sanno e che tutti, quasi tutti, in maniera più o meno stabile, praticano.

Mi sono chiesto molte volte che cosa stia avvenendo ai nostri ragazzi e perché un'instabilità così alta nelle giovani e meno giovani coppie. La risposta, anche dopo molti anni di responsabilità al Tribunale delle nullità delle Marche, mi ha convinto di un pensiero.

Il centro del matrimonio, rimane, al di là delle promesse, la propria persona.

Né il dovere del vincolo, né eventuali figli incidono sulla "felicità" di ciascuno.

Se nel matrimonio le attese di realizzazione si compiono va bene, altrimenti non si resiste nella condizione di famiglia che pure si era scelta.

Non valgono gli impegni, i doveri, i credi e qualsìasi altra considerazione.

Il principio assoluto, che vale prima e al di sopra di ogni considerazione, è il proprio benessere.

Di conseguenza, in chi non è sposato prevale la paura di perdere, un domani, la libertà alla propria felicità; per questo è meglio non vincolarsi con un impegno matrimoniale, anche solo civile. Si continua a stare insieme fino a che "funzionerà", garantendosi ciascuno la propria libertà.

Se la coppia va male non rimane altro che separarsi, per ricominciare, se sarà possibile, un'altra storia.

Su questa linea, credo, si sia inserita la richiesta di riconoscimento di coppie di fatto da parte di gay e/o di lesbiche. Se ognuno ha diritto alla felicità, tutti ne hanno diritto, eterosessuali e omosessuali.

Smontare una simile convinzione non è affatto facile. Si tratta di una vera e propria concezione di vita, per la quale, purtroppo, la fede rimane marginale.
  • don Vinicio Albanesi, responsabile comunità di Capodarco
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mer mag 03, 2006 9:19 am

Melania, Gorgonia e le altre madri del deserto dimenticate

Nella bellissima definizione di Cristina Campo, che ne ha curato una delle edizioni più famose, i "padri del deserto" sono «maestri cristiani che fiorirono, esplosero, in un attimo che durò tre secoli, dal III al VI secolo d.C.».

Negli anni in cui il cristianesimo andava armonizzandosi con il potere imperiale e al sangue dei martiri succedevano le controversie teologiche dei confessori della fede, questi "atleti di Dio" abbandonavano le città, si stabilivano in grotte, alture desertiche o edifici diroccati e continuavano la personale lotta contro il demonio, fatta di ascesi, preghiera, silenzio, lavoro manuale, digiuno ed elemosina (nemmeno nel deserto Dio fa mancare i poveri).

Sono chiamati "abba", "padri", ma le raccolte dei loro detti contano anche voci femminili, di "amma", "madri".

Palladio, autore latino del IV-V secolo, racconta che nel deserto egiziano le donne erano addirittura il doppio degli uomini, nonostante il materiale giunto fino a noi sia veramente esiguo.

A voler fare un briciolo di ironia, qualcuno ha dedotto che sono state proprio le donne coloro che meglio sono riuscite a vivere la spiritualità del deserto e del suo nascondimento.

A leggere ciò che invece è rimasto ad esempio di amma Matrona, si ha la sensazione che ciò che è rimasto non sia così poco. Di questa donna, di cui non sappiamo quasi nulla, sono state conservate solo queste due sentenze:
  • «Ci portiamo dietro noi stessi dovunque andiamo e non possiamo evitare la tentazione semplicemente fuggendo».
E se non bastasse:
  • «Molte persone che vivono vite da reclusi sulla montagna sono perite per aver voluto vivere come la gente che sta nel mondo. È meglio vivere in mezzo a una folla e desiderare di vivere una vita solitaria che vivere una vita solitaria e tutto il tempo desiderare compagnia».
Praticando il silenzio, evidentemente, le parole escono solide ed essenziali.

Alla questione delle "madri del deserto", è dedicato il recente saggio della teologa benedettina Laura Swan: Le madri del deserto (Ed. Gribaudi, 2005, pp.176, € 10,50). Scorrendolo, si rimane sorpresi dalla quantità di biografìe femminili di cui è rimasto un abbozzo, una curiosità, una piccola perla in un tessuto enorme di cui si fatica a intravedere i confini, ma di cui si respira un profumo penetrante.

Anche nel campo "virile" del deserto - spiega la Swan - «molti dei nostri Padri della Chiesa divennero importanti a opera dì donne. Molti dì questi Padri furono educati e sostenuti da donne forti, e ad alcuni viene anche attribuito il merito di aver fondato movimenti che furono in realtà iniziati dalle donne».

Dalle fonti dei primi secoli, sappiamo dì donne cristiane chiamate con il titolo di «diacono, presbitero e onorata donna vescovo».

Tra i nomi più conosciuti ci sono quelli di Melania l'Anziana, che lasciò Roma per vivere nel deserto egiziano, o di Olìmpia, diacono della Chiesa di Costantinopoli e stretta collaboratrice di Giovanni Crisostomo.

Meno conosciuta è Giuliana dì Cesarea, che è però citata dal grande Origene perché grazie a lei scampò a una persecuzione e nella sua biblioteca maturò alcune idee teologiche.

La nobile Cesarla di Samosata, poi, era amica e collaboratrice dì due personaggi del calibro di Giovanni da Efeso e Severo di Antiochia, ma nonostante la loro indubbia autorità non si fece dissuadere dal ritirarsi nel deserto, dove fondò due comunità monastiche (una femminile e una maschile).

Nel IV secolo, erano diacono Dionisia a Melitene, Domnica ad Alessandria, Basilina a Costantinopoli, Gorgonia a Nazianzo (sorella del grande Gregorio).

Molte altre "amma" furono additate come modelli di spiritualità, che la Swan cataloga e descrive con accenti pacati e originali, tracciando alla fine un sommario di grande attualità, da cui cito solo alcuni dei molti ragionamenti degni di nota, su cui varrebbe la pena ragionare oltre lo spazio di questa rubrica: «Le amma rifiutavano i ruoli culturali restrittivi per le donne, in particolare quelli che erano di impaccio per proseguire nel viaggio intcriore e le tenevano bloccate in trappola. Le amma creano per noi vari modelli possibili per uscire da queste trappole e imboccare una strada di libertà [...]. Le amma parlavano con franchezza, apertamente, con coraggio e fermezza quando sfidavano la condotta sacrilega o arrogante dei capi religiosi o laici. [...]. Noi, in quale modo cerchiamo una riconciliazione tra la Chiesa istituzionale e la spiritualità! [...] Le amma ci insegnano che la trasformazione profetica comincia con la nostra stessa trasformazione interiore e poi ci indicano come vìvere estemi a questa completezza. Fino a che punto lasciamo che la nostra spiritualità influenzi le nostre scelte?»
  • Marco Ronconi
vedi anche Meterikon - I detti delle madri del deserto (Mondadori - Collana: Uomini e religioni, 2002, pp 193, € 15.60)
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Messaggio da miriam bolfissimo » mer mag 03, 2006 9:56 am

«Il Signore Gesù è con noi», credo della nostra fede cristiana

Il simbolo della fede dei primi cristiani era brevissimo, di una densità incomparabile.

San Paolo lo rende così: «...Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo» (Romani 10,9).

Sembra che il nucleo di questo credo - il Signore è in Gesù - abbia nascosto in sé un'energia nucleare che è esplosa nell'effusione dello Spirito Santo una generazione dopo l'altra, ha parlato nelle conversioni, si è rivestita delle preghiere, si è riempita delle visioni, si è versata col sangue dei testimoni, ha mandato i predicatori su tutta la terra, ha cantato nelle liturgie delle catacombe.

Come se il potere del nome si sia incarnato nella straordinaria avventura umana che, nonostante le nostre crisi, continua anche oggi, facendo il suo lavoro visibile e invisibile.

Il nome del Signore proclamato una volta non è diventato un deposito chiuso fino all'Ultimo Giudizio, ma rimane una sorgente della Rivelazione che nessuno spettro dell'aldilà può congelare.

Kyrios lesous, Signore Gesù: un "Vangelo" che con due parole annunzia l'umanità storica del Verbo che venne ad abitare in mezzo a noi, presta la lingua a esprimere il mistero di Dio che nessuno ha visto e che è venuto sulla terra, e afferma anche che il tempo della loro unione può essere la tua esistenza stessa che santifichi il Verbo nel nome umano.

Il Verbo che si è fatto carne si è sottomesso al ritmo della vita umana con la nascita, sofferenza, morte.

Il Signore abita fuori delle nostre stagioni, ma Egli è sempre Dio con noi.

La Sua età include l'abisso del passato, ma anche l'immensità dell'avvenire che si perde all'orizzonte; Egli è sia il «bambino avvolto nelle fasce» (Luca 2,12) che sua Madre ha portato in braccio, sia un condannato che muore sulla croce.

L'inizio e la fine, Betlemme e il Golgota, sono iscritti in quel presente eterno che è posto nella nostra fede.

Ma dove si trova quel ponte che unisce le due realtà che la ragione umana fa tanta fatica a unire, mentre il cuore è capace di credere e la bocca di confessare? Come si può entrare in questa avventura della fede?

La risposta è già nell'invito di Gesù: «Prendi parte nella gioia del tuo Signore» (vedi Matteo 25,21).

Il ponte è proprio la gioia, anche se può portare le lacrime del vivere con la croce, quella che unisce il nome di un ebreo vissuto duemila anni fa al Signore incomprensibile, il suo breve soggiorno fra gli uomini alla speranza di tutti i popoli, il nostro presente che ci sfugge alla luce dell'eternità, l'intimità di un'anima alla comunità planetaria dei cristiani.

Quel ponte di gioia si chiama Risurrezione.

E se entri davvero nel dolore e nella gioia che è nel nome del Morto e del Risorto, se scopri che il nome della gioia è amore, «...sarai salvo».
  • Vladimir Zelinskij, teologo ortodosso
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Messaggio da miriam bolfissimo » mer mag 03, 2006 10:03 am

Un'idea per evitare tanti aborti. Senza moralismi

Le statistiche dicono che da molti anni gli aborti in Italia sono in diminuzione, con una eccezione: sono in aumento gli aborti di donne straniere. Non è difficile capire perché. Le donne straniere in Italia sono qui per lavorare, spesso come badanti. Se rimangono incinte, non avendo nessuno che le aiuti e non avendo protezione sociale, non sono in grado di far nascere né tanto meno di mantenere un figlio; per questo motivo gli aborti volontari tra le donne straniere rappresentano quasi la metà di tutte le interruzioni di gravidanza.

Da questa constatazione è nata l'idea di aiutare quelle donne a crescere un figlio, senza che siano "obbligate" di fatto a perdere il lavoro. È un impegno serio e gravoso. Non si tratta, come qualche volta è stato fatto, di allestire comunità alloggio per madre e figlio. E nemmeno di farle partorire come "madri nascoste". Si tratta più semplicemente di mettersi a disposizione di donne sole e spesso abbandonate, costituendo attorno a esse una rete "familiare", affettuosa ed efficace.

Il progetto sta maturando in quel di Pistola. Una giovane famiglia si è dichiarata disponibile a creare una comunità familiare che, oltre ad accogliere bambini che eventualmente le saranno affidati, si impegnerà a creare una rete di persone di buona volontà che hanno il compito di aiutare la madre nel crescere il bambino. Nel progetto si stanno coinvolgendo la diocesi e l'amministrazione comunale.

Credo che l'iniziativa abbia un altissimo valore morale. Prima di tutto perché è una risposta concreta alla vita nascente; inoltre è un modo dignitoso di rispettare la madre e il bambino.

Da troppi anni stiamo assistendo in Italia alla discussione sull'aborto. Una discussione che ha rischiato il moralismo, senza offrire risposte concrete alle situazioni difficili.

Colpevolizzare una donna sola non sortisce alcun risultato. Né tanto meno aiutano i cosiddetti "consigli" intorno ai consultori, recentemente invocati.

La maternità è un desiderio innato di ogni donna: aiutarla a realizzare il sogno risponde a un'esigenza umana e cristiana.

Mi auguro davvero che l'iniziativa riesca. Non solo a Pistola, ma in ogni parte d'Italia. La tradizione cristiana è stata da sempre attiva in tutte le situazioni di difficoltà. Offrire un sostegno concreto a donne sole e spesso straniere, per far nascere una creatura, è una delle risposte più significative alla creazione.

Mi batterò per diffondere l'idea e concretizzarla. Il sogno è che a fianco di ogni consultorio esista una associazione che possa dire: «Se vuoi che nasca un bimbo, noi ti aiuteremo».

Abbiamo inventato le adozioni nazionali e internazionali, le adozioni a distanza, è arrivato il momento di diventare famiglia adottiva, rispettando mamma e bambino: chissà, forse aiutando la madre con il figlio, riapparirà anche il padre.
  • don Vinicio Albanesi, responsabile comunità di Capodarco
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun mag 15, 2006 6:54 pm

La dolce città della pace
      • Gerusalemme,
        città promessa,
        santa e martoriata.
        Terra immersa
        nell'odio e trasudante
        aneliti di pace.
        Simbolo
        di una speranza
        mai sopita.
        Emblema
        dell'attesa
        Resurrezione.
Yerushalaim, al Quds, Gerusalemme. La dolce la santa la cara città della pace. E tuttavia le sue pietre sono intrise di sangue. Sangue filisteo (palestinese), sangue ebreo, sangue assirobabilonese, sangue curdo, sangue cristiano.

Gesù non nasce in Gerusalemme ma predica nel Tempio e sacrifica la sua giovine vita in remissione dei peccati a Gerusalemme.

I grandi temi pasquali che la tradizione ebraico-cristiana continuerà a ripetere, anzi a narrare, come osserva Filippo Gentiloni (attento studioso delle religioni), tutti i grandi temi sono oggi presenti: la liberazione dalla schiavitù, il sangue di un agnello, un pasto in comune e soprattutto un passaggio.

Pasqua in ebraico significa passaggio. Passaggi, passare. Vale a dire andare avanti, ripetere gesti e parole di ieri per salvarsi «oggi». Passare significa soprattutto uscire. «Uscire dagli Egitti nei quali si è schiavi e nei quali tuttavia ci si sente in qualche modo sicuri, omologati».

Nella fame terribile del deserto gli ebrei rimpiangevano le cipolle d'Egitto. Gli è che il punto di partenza è più evidente, sicuro della stazione d'arrivo. Vale pure per Gesù il Cristo: anche nel suo evento pasquale - il passaggio dalla morte alla vita -, la morte sulla croce è molto più evidente della Resurrezione.

Il punto di partenza è sempre verificabile mentre il punto di arrivo è una terra promessa, una terra di speranza. Questa speranza oggi, una volta ancora, vacilla, presa d'assalto com'è da un'arma terrificante: l'odio.

È persino ovvio dire che l'odio s'è ravvivato dopo la proclamazione di chi governa, oggi, l'Iran teocratico: cancelleremo Israele dalla carta geografica.

Come può un discendente del popolo dell'Olocausto rimanere sereno, non odiare, quando è costretto a sentirsi insicuro, minacciato di sterminio?

Ettore Masina, scrittore e studioso del Terzo mondo, scrive che «l'odio cresce da tutte e due le parti, in Palestina. E l'odio dell'espulso dalla sua terra è esattamente simmetrico a quello del "colono" al quale nessuno ha spiegato bene in quale inferno sarebbe stato cacciato e che ora vive di una paura che lo rende aggressivo e talvolta feroce».

E l'odio, la paura si sposano generando il terrore. Impedendo il fiorire della fiducia.

Poco prima di morire Moravia, l'ebreo Alberto Pincherle, mi disse: «Israele è un problema affascinante. Ma nessuno ha capito che è un problema senza soluzione». Riesumando questa amara convinzione di Moravia, ci siamo posti una volta ancora un problema. Il problema della pace.

Le tre religioni monoteiste, eredi delle grandi profezie ireniche, avvertono la necessità, l'urgenza di un intervento pacificatore.

La seconda guerra del Golfo ci ha dimostrato con implacabile logica volterriana che la religione può essere usata a fini di violenza. L'integralismo islamista, l'integralismo di alcuni partiti d'Israele e un certo fondamentalismo cristiano ne sono la dimostrazione drammatica.

Chi scrive è un vecchio cronista che scarpinando per il mondo ha respirato l'odio ma avvertito anche una grande domanda di pace.

La Palestina non è un problema religioso e dunque occorre adoperarsi per un rimedio laico, etico. Ma nessuno può impedirci di superare e di accompagnare la speranza con la preghiera.

Da qualche parte ho letto che Gerusalemme è nata da una sorgente. Cinquemila anni fa, quando si sviluppò un piccolo borgo fortificato nella valle del Cedron collegata alle acque del Gihòn da un canale tagliato nella pietra.

Quella sorgente non si è essiccata, da quella sorgente dovrà un giorno spicciare l'acqua lustrale che muterà l'erba zizzania e la pianta dell'odio nell'albero della pace.

In questa primavera difficile dobbiamo fermarci sulla solitudine di Gesù, una solitudine ch'è di tutti gli oppressi dalla crudeltà dell'ingiustizia.

Ma possiamo, dobbiamo, altresì, guardare alla permanente gloria della Resurrezione.
  • Igor Man
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun mag 15, 2006 7:14 pm

Icaro inebriato dall'estasi del volo

Difficile non bruciarsi le ali, se noi siamo dal fuoco e guardiamo naturalmente verso il sole. Difficile fermarci, frenare ittrazione di quell'astro che accende tra vita: accadde a Icaro, leggendaria figura del mito, resa immortale nelle pagine delle Metamorfosi del grandissimo Ovidio, dove animali, dèi, montagne, fiumi, interagiscono nella nascita di una fiaba in una lettura favolosa del mondo.

Icaro era figlio di Dedalo, l'ingegnere che aveva costruito a Creta il Labirinto. Il re aveva ordinato di edificare quell'edificio immenso e pieno di cunicoli, buio, da cui era impossibile uscire. Solo Teseo, grazie al famoso filo di Arianna, era riuscito a ritornare alla luce. Nel timore che l'ingegnere potesse svelare a qualcuno il segreto del labirinto, il sovrano lo mandò in esilio. Allora, per sfuggire da quella condizione di prigionia, il geniale inventore, disponendo con calma penne di uccelli in crescente grandezza, poi legandole con fili, costruì due paia di grandi ali, per sé e per il figlio Icaro. Poi con cera ammorbidita le fissò alle braccia, ammonendo il figlio di non volare nè troppo basso né troppo alto: nel primo caso l'umidità del mare avrebbe appesantito le ali, nel secondo il calore del sole le avrebbe bruciate. Si levarono in volo, librandosi lievi tra la meraviglia di alcuni pescatori in mare, che non capivano se fossero dèi o uccelli mai visti prima, quei volatili dai volti umani. Ma Icaro, inebriato dall'estasi del volo, si lanciò più in alto, sempre più in alto, verso il sole, che rapidamente sciolse la cera che connetteva le ali alle braccia. Inutilmente, mentre le ali cadevano lentamente in mare, il giovane agitò le membra, gridando per l'ultima volta il nome del padre che lo vide precipitare. Disperato, riuscì solamente a recuperare il corpo del figlio e riportarlo alla riva per dargli sepoltura.

Come ogni mito, quello di Icaro rappresenta in forma di favola, racconto, un aspetto della natura umana.

In questo caso la furia felice, entusiasta dell'adolescente, la sua innocente ma pericolosa incoscienza. Nulla di malvagio, nel giovane che si leva in volo con ali costruite di penne. Ma l'inesperienza, la mancanza di controllo tipiche della sua giovane età, lo conducono a una rovina rapida e inesorabile.

Impossibile non pensare, rileggendo questo mito nelle pagine di Ovidio, alla natura intemperante, gioiosa e incosciente, della nostra vita nell'era della gioventù, che non è soltanto un'età individuale, ma un rito di passaggio della specie umana.

Non è vero che siamo nati per gravitare sulla terra: siamo qui per calpestarla e farla fruttificare, edificarla, onorarne i segni, auscultarne i suoni profondi.

Ma siamo anche nati per volare, non basso, dove l'umidità ci impregna e appesantisce, non alto, dove il sole ci brucia, ma a mezz'altezza, tra terra e cielo.

Resta il fatto che la storia di Icaro ci commuove: meglio sbagliare, volando troppo alto, che rinunciare all'impresa, volare basso.

Meglio l'errore per eccesso d'amore, che la bonaccia per assenza d'anima.
  • Roberto Mussapi
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar mag 23, 2006 2:27 pm

La parola ha radici nel silenzio. E nel silenzio si medita la parola.

La recente campagna elettorale ci ha inondati di fiumi di parole.

Parole gridate o ponderate; veritiere o ingannevoli; che facevano appello alla ragione oppure al calcolo (non sono la stessa cosa!); al sentimento ovvero agli impulsi istintivi.

Parole pacate o scomposte, meditate o eccessive, serene o ubriacanti, talora avvelenanti.

Parole in discorsi argomentati o parole come slogan.

Parole tese a convincere con le proprie proposte o a smentire quelle dell'avversario.

Parole scambiate in incontri reali ma ancor più veicolate dai media, soprattutto dalla televisione.

Nessuno si dolga del fatto che si parli! Purché non si parli per ottenere che gli altri non pensino, diventino masse informi galvanizzate e osannanti: così si spegne l'anima della democrazia, riducendola a mero conteggio, mentre è confronto, partecipazione, discussione di idee.

Prima di far parlare il voto, è però prevista una pausa di silenzio, in cui far decantare le parole. L'essere umano è infatti caratterizzato dalla parola, eppure una fase di silenzio precede gli eventi più importanti. Prima di grandi decisioni, si sente il bisogno di ritirarsi a riflettere. Partners incerti nel loro rapporto decidono le famose "pause di riflessione". Oggi sono diffuse pratiche non religiose di "meditazione", che invitano a tacere, a sospendere il lavorio del pensiero, per rientrare in se stessi.

Al centro della fede cristiana - in continuità con quella ebraica- vi è la Parola di Dio. Eppure, nella vita spirituale, il ritiro, la veglia in silenziosa orazione è una dimensione fondamentale. Nella vita di Gesù, trent'anni di silenzio, culminati nei quaranta giorni di deserto, precedettero il breve periodo della sua predicazione. L'alba della Resurrezione è preceduta dal Sabato santo: il giorno del grande silenzio. Come mai?

Il silenzio e la parola non sono dei contrari, bensì dei correlativi. Si fa silenzio, si mette la sordina al proprio "io" per ascoltare l'altro, qualcosa o qualcuno che parla a, e dentro di noi e la cui voce resta altrimenti coperta: la coscienza, il cuore, l'amico, l'amato, Dio.

Per questo, momenti di grande densità di comunicazione possono esprimersi più col silenzio che con le parole.

E viceversa: si parla - se la parola è degna di tale nome - per comunicarsi il segreto autentico di sé, ciò che nel silenzio si è ascoltato risuonare nell'intimo della mente e del cuore. La parola ha radici
nel silenzio. Il silenzio rende possibile l'affiorare di una sorgente profonda di parola.

Ma vi è anche la contraffazione e perversione della parola. Nella sconvolgente vicenda del piccolo Tommaso Onofri, agghiacciante è stata la dichiarazione in cui uno dei responsabili del rapimento e presunto assassino respingeva, sdegnato, i sospetti avanzati su di lui, che considerava «i bambini come angeli». Parole risuonate credibili, soprattutto per la "autorità aggiuntiva" del mezzo televisivo: sempre a rischio di mutarsi nel palcoscenico dell'inganno.

E non ogni tacere è silenzio e ascolto: può essere distrazione voluta ed egoistica volontà di estraniarsi per stare in pace, se non omertà. L'uccisione di un bimbo indifeso e malato ha suscitato profonda emozione e giusta indignazione. Qualcuno ha peraltro subito pensato di usare a fini elettorali il primitivo istinto di vendetta, mettendo in gioco la deviante parola "pena di morte". Nella tragica occasione, invece, si sarebbe dovuto dar parola a ciò che viene sottaciuto. Le Nazioni Unite dicono che, ogni anno, circa 1,2 milioni di bambini vengono trafficati (Europa compresa), per avviarli alla prostituzione, per sfruttarne il lavoro, per venderli vivi in adozione o per uccìderli e trame organi da trapianto. Secondo le Ong, sono due milioni l'anno nel mondo i bambini vittime del turismo per fini sessuali. In tale "turismo" (severamente sanzionato in Italia dalla legge 269 del 1998) siamo al primo posto in Europa: 80 mila italiani vanno annualmente nel solo Brasile a tale scopo. Traffico di organi di bambini è stato denunciato in Mozambico, ma anche nel Sud-est asiatico così come in Europa. E Roma pare essere un crocevia di tali orrori. Circa 250 milioni di bambini sono sfruttati (compresi i nostri Paesi) in forme anche estreme di lavoro minorile. Chi si dovrebbe condannare a morte per questo? Tommy era bellissimo e amato, ne abbiamo conosciuto il tenero volto e il nome. Questi bambini sono anonimi, poveri, amati da nessuno, spesso di altro colore. Basta questo a giustificare che non li sentiamo "nostri"?

Noi non ne siamo colpevoli. Ma non per questo non ne siamo responsabili.

Per ascoltare questo grido e poi rispondere con le forti "parole" disponibili (informazione, pressione dell'opinione pubblica, leggi, inchieste, attività repressive e preventive in ambito nazionale e intemazionale) occorre spegnere la chiacchiera e vincere la sordità egoistica facendo silenzio.
  • Maria Cristina Bartolomei
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar mag 30, 2006 2:23 pm

L'abbrutimento morale che deriva dal mito dei soldi facili

La vicenda che fra marzo e aprile ha tenuto l'Italia con il fiato sospeso e sì è tragicamente conclusa con l'orrenda morte del pìccolo Tommaso Onofri ha dato luogo a una ricorrente e quasi generalizzata richiesta di pene severe ed esemplari, se non addirittura del ripristino della pena di morte.

Ancora una volta, di fronte a efferati fatti di cronaca, l'opinione pubblica sembra, nella sua maggioranza (anche se non mancano voci di ben altro segno), limitarsi a invocare l'inasprimento delle pene e la durezza della repressione.

Sono, assai spesso, richieste che si levano proprio da parte di coloro che, ormai da decenni a questa parte, indicano come "ideale di vita" l'arricchimento e fanno della ricchezza un mito al quale tutto condizionare: dagli affetti familiari ai valori religiosi.

Emblematico il triste tramonto di una domenica che avrebbe dovuto essere giorno di riposo e di festa (oltre che di ringraziamento e di adorazione, almeno per i credenti) e che rischia di diventare giorno della dissipazione, del consumismo sfrenato, del divertimento banalizzato.

Non si riflette a sufficienza sul fatto che non vi è forza alimentatrice della violenza e della delinquenza, nelle sue varie forme, più potente di quella rappresentata dalla generalizzata convinzione che soltanto la ricchezza conti e che, conseguentemente, arricchirsi sia il supremo imperativo della vita.

A questo punto, perché faticare per trenta o quarant'anni per acquisire un tenore di vita, una casa propria e una decorosa pensione allorché - si pensa - un "colpo" ben congegnato, una "quaterna" azzeccata, una speculazione in Borsa riuscita consentono dì conseguire quasi in un attimo quello che richiederebbe, altrimenti, tutta una vita?

Se uno solo è l'obiettivo supremo, arricchirsi, sono naturali e comprensibili le "impazienze" di chi non accetta di seguire la via maestra ma vuole cercare una scorciatoia, appunto nella linea seguita da tutti i delinquenti, compresi gli sciagurati responsabili del sequestro di Parma.

Non basta, dunque, invocare punizioni esemplari e, insieme, il rafforzamento delle misure di sicurezza - sino a fare della nostra società una sorta di gabbia nella quale tutti, onesti e disonesti, finiscono per essere prigionieri - ma occorre un severo esame di coscienza sulla deriva consumistica della nostra società e sulla gerarchla di valori che essa cerca di imporre a tutti: anche ai credenti dimentichi della Parola del Signore e del Discorso della montagna.

«Guai ai ricchi!» sembra un patetico e retrogrado anatema; quando è invece una messa in guardia contro una ricchezza fine a se stessa, divenuta uno status symbol dell'uomo contemporaneo.

Le vie della delinquenza - della frustrata ricerca di un'ingiusta ricchezza - passano anche da qui.
  • Giorgio Campanini
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar giu 06, 2006 9:52 am

Quei "piccoli del Vangelo" che vivono con un handicap mentale

Li chiamano ragazzi, anche se hanno oltre quarant'anni; qualcuno anche cinquanta. Sono persone con handicap mentale che hanno vissuto sempre in famiglia.

I loro genitori li hanno accuditi per una vita: li hanno portati a scuola, nei centri diurni, nei laboratori. Ora che i loro genitori sono invecchiati o sono morti riessuno sa dove poterli collocare per una vita dignitosa.

È impensabile, purtroppo, che le giovani generazioni si prendano cura di uno zio o zia incapaci di gestirsi. Sono rare le comunità che li accolgono. Il rischio è che finiscano in ospizi di vecchi, dove tutto quello che era stato conquistato in autonomia e in dignità andrà rovinosamente perduto. Si innervosiranno; gli psicofarmaci e la tristezza li faranno scomparire rapidamente.

È una delle emergenze silenziose e drammatiche che non hanno risposta.

Lo schema preposto alla loro accoglienza è costoso; occorre rispettare parametri, professionalità, accoglienza. Da qui il tirarsi indietro delle istituzioni senza risorse.

Le vocazioni gratuite che si dedicano a loro sono scomparse: gli stessi ordini religiosi pure nati per "soccorrere il malato" non hanno energie.

Per questi ragazzoni e ragazzone solo in parte autonomi non c'è nemmeno il ricordo della loro bella infanzia. Da bimbi l'hanno vissuta con difficoltà; da adolescenti sono stati sopportati dagli altri compagni; la scuola, il quartiere, la città non li hanno guariti. Nemmeno la dedizione dei genitori ha fatto il miracolo della salute.

Tutti gli interventi sono serviti a limitare i danni; a rispettare il loro essere umani, a valorizzare gli spezzoni di "normalità" che esisteva in ciascuno di essi.

La loro condizione sembra che rispecchi quel grido che, lontano nel tempo, qualificava gente come loro «mutili al mondo».

Oggi non hanno nemmeno la tenerezza dell'infanzia; sono goffi e non sono in grado di fare nulla; né guariranno.

Le loro condizioni di salute si aggraveranno con il trascorrere degli anni. Le medicine faranno emergere quegli effetti collaterali che, cumulati nel tempo, si dimostreranno "veleno".

Eppure nella loro storia e in quella dei loro genitori e parenti c'è un raggio di santità, caratteristico di tutte le creature umane.

Il loro fisico ha lasciato solo tracce e particelle di intelligenza e di affetti; ma della stessa natura di tutte le creature umane.

Un segno di Dio che è rimasto incompiuto, ma pur sempre di Dio. Per questo motivo occorre non demordere.

Quando la Scrittura parla di "piccoli", il pensiero va subito a chi è piccolo di età. Loro, i giovanottoni, sono rimasti piccoli per sempre.

Le apparenze ingannano i sentimenti; il cuore istintivamente non si intenerisce.

Eppure il finale del Vangelo di Matteo parla di "piccoli" proprio nel senso di persone sofferenti: affamati, assetati, forestieri, nudi, malati, in carcere.

L'evangelista fa dire al "Figlio dell'uomo": «Ogni qual volta non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l'avete fatto a me».

Per un cristiano è sufficiente.
  • Vinicio Albanesi
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar giu 13, 2006 1:20 pm

La risurrezione di Cristo, fonte di ogni nostra speranza

Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la vostra predicazione ed è vana la vostra fede», dice san Paolo.

Non lascia lo spazio al vago e passeggero "senso religioso" che dice che «Dìo è nell'anima» e non importa, se ci sia, cosa faccia fuori. Sembra che l'apostolo voglia sottomettere l'impalpabile "tessuto" del credere alla logica aristotelica che esclude la terza via.

Non è la logica a essere in gioco, però. Non si tratta dì un evento esterno a noi, di un dogma imposto, di un articolo del Credo che siamo costretti a fare nostro.

Il messaggio di Paolo può essere letto diversamente: ogni esistenza umana porta dentro di sé il suo fuoco segreto, un nucleo nascosto che si chiama speranza.

È la fede che da alla speranza la gioia di crescere nella fiducia in Dio che, nato da uomo, morto da uomo, sìa anche resuscitato da uomo.

La fede nella risurrezione è il linguaggio della speranza inespugnabile e irriflessiva, messa in noi, che ci parla della vita del «mondo che verrà».

Se Cristo non fosse risuscitato, ogni speranza sarebbe una fantasia, un inutile slancio d'animo, l'evidenza della decomposizione generale sarebbe più forte di quella voce pazza dentro di noi, che grida, come Giobbe: «Dopo che questa mia pelle sarà distrutta, senza la mia carne vedrò Dìo. Io lo vedrò, io stesso» (19,27).

La speranza dice che si può gridare senza paura, senza cercare le parole corrette e bilanciate perché la notizia della risurrezione porta la promessa folle in cui "io" trovo me stesso solo nell'incontro con il Risorto.

La mia vera personalità si rivela solo nella sua rivelazione. Essa tocca me come grano di sabbia nella terra deserta che un giorno, secondo le Scritture, diventerà dì nuovo il giardino dell'Eden, come ossa secche che si ricopriranno dalla carne viva nella profezìa di Ezechiele.

La promessa s'accende con la Luce che illumina ogni uomo, con la Parola che entra e s'incarna nel nostro cuore, col Volto che ci guarda negli occhi.

Quella promessa è la radice di ogni fede cristiana, ma anche il suo "segno di contraddizione", perché la speranza può parlare con toni diversi.

Nell'Ortodossia il suo modo dì esprìmersi è piuttosto paradossale: Dio è più vicino a noi di quanto lo siamo noi stessi, ma per raggiungerlo ci manca tutta la vita; il Regno è gratuito, è dato a tutti, ma - come dice Gesù nel Vangelo di Matteo - solo «i violenti se ne impadroniscono» ( I 1, 12); la promessa è eredità di ciascuno di noi, ma bisogna combattere per acquistarla nel proprio spirito.

L'attesa troppo sicura, quando la salvezza ti arriva come il premio per essere concepito, non è quella che non delude.

Il vero messaggio della risurrezione inizia con la follia e la lotta per quella vita che ci fu promessa e che dobbiamo scoprire con «l'amore di Dio che è stato riversato nei nostri cuori».
  • Vladimir Zelinskij
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[phpBB Debug] PHP Warning: in file [ROOT]/vendor/twig/twig/lib/Twig/Extension/Core.php on line 1266: count(): Parameter must be an array or an object that implements Countable

Messaggio da sandanydp » sab giu 17, 2006 8:55 am

Dolcissima Bolfi, è vero, nulla è per caso. Dietro ogni cosa, ogni situazione, ogni persona c'è un grande Regista, che fa bene tutto. Crediamolo e vivremo meglio. Non per superstizione, ma per fede. Il nostro raziocinio ci fa star male. Il Suo modo di agire ci porta avanti sopra carboni ardenti e scorpioni, che infestano il mondo. Grazie a te Bolfi che ce lo ricordi sempre con la tua tenerezza, di chi veramente si preoccupa degli altri perchè disinteressatamente li ama. Che io possa imparare da te. Un abbraccio da chi ti vuole sinceramente un mondo di bene Sandra
S D PETROCCHI

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun giu 19, 2006 2:22 pm

Miei carissimi tutti: vi abbraccio dolcemente, col mio affetto e con le parole che condividiamo in qs angolo di cielo... che la grande forza di qs parole sta nel frutto che possono portare nel quotidiano, quando lì vengono, anche solo poche fra tante, seminate e fatte vive da coloro che le leggono e le lasciano vivere dentro al cuore, così come da tutti Voi, che lasciate un segno del Vostro passaggio e date forza alle parole...

Unabbracissimodolcissimo, miriam bolfissimo ;)
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun giu 19, 2006 2:33 pm

La lezione di Giuseppe Lazzati a vent'anni dalla sua morte

Ricorrono i vent'anni dalla morte di Giuseppe Lazzati, limpido testimone e impareggiabile maestro del laicato cattolico italiano.

In un contesto storico ed ecclesiale sensibilmente cambiato, merita interrogarsi sull'attualità della sua lezione. Attualità indubbia, a mio avviso, anche perché essa è concentrata sui "fondamentali", più che su questo o quell'aspetto contingente e applicativo, della vocazione e della missione del fedele laico.

Ricalcando la lezione del Concilio, che Lazzati ebbe il merito prima di anticipare, poi di divulgare, ma soprattutto di interpretare dando, di quella figura di laico cristiano, una testimonianza esemplare e luminosa.

Attualità, dunque, della sua lezione sia perché essa è "cibo solido", che non deperisce con l'avvicendarsi delle stagioni, sia per la sua valenza critica, di severa pietra di paragone rispetto a un presente decisamente distante da quel paradigma conciliare.

Accenno solo a quattro profili critici.

Primo: Lazzati, in polemica con certi modelli di vita e di apostolato "attivistici", invocava un cristianesimo di convinzione, di riflessione, di scelta. Che facesse appello alla coscienza, all'interiorità e alla profondità. Una fede adulta, come si conviene a una società che si pretende adulta. Fa riflettere la circostanza che evocare la categoria del «cristiano adulto» oggi possa suonare presuntuoso e polemico.

Secondo profilo critico: quello delle distinzioni tra cristianesimo e civiltà, tra Chiesa e comunità politica, tra le azioni che i fedeli svolgono in quanto cristiani e quelle svolte in quanto cittadini, sempre naturalmente nel segno della coerenza cristiana, ma operando le imprescindibili mediazioni politico-culturali. Distinzioni di cui non rinviene traccia nella teoria del cristianesimo ridotto a "religione civile" e nella indebita pretesa di taluni cristiani di accreditarsi, dentro le scelte congiunturali, quali interpreti autentici o addirittura esclusivi del verbo cristiano.

Terzo: la responsabile autonomia, laicale e politica, dei cristiani impegnati nella città. Sarà pure schematica la distinzione tra principi e azione; è certo vero che il magistero pastorale enuncia princìpi in situazione, ma ciò non esonera i laici cristiani dal dovere di interpretarli e applicarli, specie quando si deve fare ricorso agli strumenti della politica, agli istituti e alle regole della democrazia.

Infine: la libertà di parola e l'opinione pubblica nella Chiesa oggi un po' asfittiche. Eppure, in forza del sensusfidei e del loro peculiare carisma, i laici possono e devono prendere parola. Con animo sereno e spirito costruttivo, proprio per arricchire la Chiesa.

Come non provare nostalgia per lo stile mai polemico, ma sempre libero e franco con cui Lazzati prendeva parola nella Chiesa e nella politica? Da laico fedele e libero, mille miglia lontano da tanti atei devoti che oggi pontificano.
  • Franco Monaco
Testamento Spirituale di Giuseppe Lazzati
      • «Amate Gesù Cristo, il Sovrano cui abbiamo consacrato la vita, che per primo ci ha amati e si è dato a noi; amatelo appassionatamente, a fatti non a parole, fatti suoi seguaci in vera povertà, in amabile castità, in feconda obbedienza; dandovi per lui, che è dire per la diffusione del suo Regno, senza misura che non sia quella suggerita dalla soprannaturale virtù della prudenza, e nei modi che il vostro amore per lui vi suggerirà, fino alle estreme conseguenze, per usare le parole di papa Paolo VI.

        Amate la Chiesa, mistero di salvezza del mondo, nella quale prende senso e valore la nostra vocazione che di quel mistero è una singolare manifestazione. Amatela come la vostra Madre, con un amore che è fatto di rispetto e di dedizione, di tenerezza e di operosità. Non vi accada mai di sentirla estranea o di sentirvi estranei a lei; per lei sia dolce lavorare e, se necessario, soffrire. Che se in essa dovreste a motivo di essa soffrire, ricordatevi che vi è Madre: sappiate per essa piangere e tacere.

        Amate l'Istituto come quello nel quale la vostra vita prende tutto il suo rilievo e custoditene il carisma con il quale lo Spirito lo ha suscitato nella Chiesa e che ne costituisce tutta la sua ragion d'essere. Tale carisma è la forma secolare della vostra consacrazione: la secolarità! Che l'amore di novità non ve lo faccia perdere; che l'amore per esso vi renda capaci di aggiornare le forme senza intaccarne la sostanza quando esigenze di particolari situazioni lo rendessero necessario.

        Amatevi tra voi con sincerità di cuore e aiutatevi, portando gli uni i pesi degli altri, a realizzare la vostra vocazione così che la vostra luce splenda, sotto la custodia dell'umiltà, a testimoniare nel mondo la presenza e la forza dell'Amore, fattia tutti servi, tanto più grandi fossero le responsabilità cui potete essere chiamati.

        Perché tutto questo sia, abbiate cura di coloro che il Signore chiama e vi dona e non badate a sacrifici per farne veri servi di Cristo Re, forti, fedeli, ardimentosi.

        Questi miei ultimi desideri affido alla Madonna, Regina dell'Istituto, perché il suo aiuto, che non mancherò di supplicare con voi, ve ne faciliti l'attuazione e in grazia della sua protezione ci sia dato, dopo il combattimento sostenuto e il servizio reso a Cristo, alla Chiesa, al mondo, di ritrovarci tutti insieme con lei, «in fine senza fine» nel Regno del Figlio suo e Re nostro.

        • Christe Rex, adveniat Regnum tuum, per Mariam!
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun giu 26, 2006 2:59 pm

Noi preti e i giovani: l'improvvisa scoperta di due mondi lontani

Qualche notte fa, avendo difficoltà a prendere sonno, mi son messo a fare zapping alla televisione. Mi sono soffermato su un programma di una nostra rete nazionale. Un gruppo di ragazzi e ragazze stavano seduti in circolo e parlavano a voce alta di sesso. Ne parlavano in maniera decisamente esplicita e con linguaggio senza sottintesi. Non so sinceramente dire se fosse tutto preparato o se avvenisse in modo spontaneo. Non era presente nemmeno un conduttore. Parlavano continuamente tra loro.

La mia meraviglia derivava dal modo con cui si esprimevano: nella forma e nei contenuti. Davano assolutamente per scontato che due giovani che si incontrano, dopo un po', possano e debbano avere rapporti intimi, senza alcuna eccezione. Quasi a dire che per loro fosse inconcepibile e fuori luogo che oggi due possano innamorarsi o anche semplicemente incontrarsi, senza avere rapporti.

Così mi sono sorpreso a pensare che fossero, come si dice, dei giovani "non impegnati", attenti ai propri equilibri e necessità affettivo-sessuali e sostanzialmente egoisti e autocentrati. Ben diversi dai ragazzi e ragazze del nostro mondo cattolico, dediti a dare senso alla propria vita, impegnati in progetti di solidarietà, presenti in luoghi dove la crescita umana e spirituale è molto attenta e partecipata.

Ma è proprio così? E se anche i nostri ragazzi la pensassero e agissero, a livello affettivo e sessuale, come loro? Ho riflettuto molto sullo squarcio di una visione "nuova" che quella trasmissione aveva prodotto in me. Da dove avevano tratto quei ragazzi una visione della vita così diversa dalla concezione di noi adulti?

Mi è sembrato di avvertire un solco profondo, una rottura epocale tra generazioni. Famiglie tradizionali, con culture addirittura ancestrali da una parte, e visione della giovinezza e della vita assolutamente diversa dall'altra.

Ho ripensato ai nostri "messaggi" che prevedono stili di pensiero e di comportamento di una certa natura, mentre i nostri figli e nipoti sono sintonizzati su tutt'altre onde.

Questa volta mi sono mancati anche i riferimenti logici. Come se avessi scoperto mondi "sconosciuti", dopo aver accudito persone che pensavo simili a noi. Loro non drammatizzano mai certi argomenti: sono immaturi e ingenui loro, oppure siamo arcaici e superati noi?

Rimane il dramma della sintesi, anche perché, tra mondi che non comprendono i reciproci linguaggi, è impossibile trasmettere esperienze e valori.

Mi è rimasto un sospetto, che rischia di diventare un magro appiglio e una magra consolazione: che quella trasmissione fosse tutto un bluff, una invenzione forzata per fare audience e null'altro. Ma forse quella trasmissione raccontava davvero la realtà, o almeno aveva rilevanti elementi di realismo. Continuo a pormi domande...
  • Vinicio Albanesi
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun lug 03, 2006 4:35 pm

La mia ossessione? Le voci dei bambini uccisi dalla guerra

Dite pure quello che volete, ma io credo nei fantasmi. Naturalmente, ci sono fantasmi e fantasmi. Certo non mi aspetto di imbattermi in fantomatiche presenze sotto un bianco lenzuolo, ma i fantasmi dello spirito sono ovunque.

Grandi scrittori vi hanno non poco creduto e ne hanno scrìtto racconti classici indimenticabili: Henry James e Charles Dickens, per esempio. Ma qui, purtroppo, non si tratta di letteratura. I fantasmi che invadono il mio spirito sono fantasmi che nascono dalla tragica realtà di questo nostro mondo.

Scusate se ne ho già accennato altre volte, ma non posso fare a meno di parlarne ancora: i miei fantasmi sono soprattutto fantasmi di bambini.

Sembra che stiano lì e che mi aspettino e che mi facciano un cenno per dirmi: «Ehi, tu, quell'uomo, ricordati di noi».

C'è chi passa in un determinato posto, vi passa e basta, al massimo getta un'occhiata pietosa, se è religioso recita un Requiem. Come se tutto : fosse passato, finito. È andata così, che volete farci? Per me è diverso.

Sarà che prendo nota, ritaglio giornali, controllo su internet, mi si rizzano le orecchie quando, ascoltando il telegiornale, sento annunciare che in Iraq, per esempio (e dico "per esempio" solo perché non accade ogni giorno soltanto in Iraq, ma in Israele, per esempio, in Afghanistan, per esempio) sono saltati in aria X persone tra cui X bambini.

Qualche bambino in aggiunta c'è quasi sempre. Eppure non ci dovrebbero proprio essere. Che cosa hanno a che fare i bambini con la guerra? Niente.

È la guerra che ha a che fare con i bambini perché è onnivora, mangia tutto, uomini e bestie, carne stagionata e carne tenera.

E se i bambini non si vanno a trovare lungo il suo disgraziato percorso, se li va a cercare lei, come a Beslan dove le madri dei 186 bambini disidratati e bruciati vanno ancora a depositare, davanti a quella scuola, bottiglie d'acqua perché si possano dissetare.

Sarà dunque per questa mia predisposizione ìnteriore, per questo mio cruccio sempre aperto, per questa mia fissazione nevrotica, chiamatela come volete, che sono portato a imbattermi in fantasmi. Specie fantasmi di bambini.

State a sentire. L'altro giorno, di mattina, per ottemperare al precetto medico dì un'ora di camminata al giorno (che farebbe bene a chiunque), mi sono recato con la linea Uno del metrò, da piazzale Loreto, la piazza che ormai fa da scenografia fìssa a quanto vado scrivendo, alla stazione di Gorla.

Mia semplice intenzione era quella dì visitare il ripulito scorrere della Martesana e di passeggiare lungo il suo percorso. Per chi non lo sapesse, non essendo di Milano, il Naviglio della Martesana è un fluente canale a cielo aperto a nord di Milano, a metà strada tra piazzale Loreto, appunto, e Sesto San Giovanni, tagliando viale Monza dopo i sovrappassi della ferrovia, che procede, oggi con acque di un bel colore verde fiancheggiate da giardini, verso Cernusco dopo avere attraversato la frazione di Gorla.

Scendo dunque a Gorla, torno un po' indietro su viale Monza, poi giro a sinistra. Sono tra le strade di Gorla: su una targa leggo Via del Ponte Vecchio. Se porta a un ponte, porta alla Martesana, mi dico. Ed è così. Ma prima del ponte che c'è che non avevo mai visto? C'è il mio appuntamento con i fantasmi dei bambini.

Una piazzetta, un monumento oscuro, una Pietà, una madre che regge un corpo tra le braccia. È il monumento ai 184 bambini tra i 6 e gli 11 anni che, insieme con le loro 14 maestre, la direttrice, due bidelle e altri 18 bambinetti di pochi mesi in braccio alle madri accorse al primo allarme, trovarono la morte la mattina del 20 ottobre 1944 sotto le macerie della loro scuola elementare spianata dalle bombe da 500 libbre sganciate da una delle tre squadre dei B-24 dei Liberatori che aveva fallito l'attacco alla Breda e doveva liberarsi del peso prima di tornare alla base in Puglia, da dove erano partiti. (Se avete abbastanza stomaco, entrate in internet Google, Gorla bombardamento. Troverete l'elenco completo dei nomi e l'età di ciascuno di quei bambini. E anche una foto: ma non guardatela).

Un sensitivo che si spaccia per Gesù Cristo afferma che i bambini di Beslan si sono reincarnati in varie parti del mondo. lo non lo credo. Quelli di Gorla certamente no: ho sentito le loro voci nella piazzetta dei Piccoli Martiri.

Mi sono fermato ad ascoltarle.

La mia passeggiata lungo il ripulito canale è finita lì.
  • Ferruccio Parazzoli
Ultima modifica di miriam bolfissimo il lun set 18, 2006 2:21 pm, modificato 1 volta in totale.
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Ospite
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CARISSIMA MIRIAM..

Messaggio da Ospite » mar lug 04, 2006 7:54 am

io e te , senza conoscerci ci sentiamo unite , fortemente unite e non conta certo l'età a dividerci..
man mano che leggo i tuoi post , termine freddo ma per semplificare, mi avvedo che tu sei cio' che penso e a volte non so esprimere,,
come pure in altro LOCO trovai una risposta che tu non potevi conoscere..
La delicatezza, i fiori che usi , sono un dono prezioso di cui il Signore ti renderà a lungo merito .. in terra e a suo tempo..
scrivi spesso cara, facci pregare bene, sperare bene, agire bene
..
per il resto è bello pensare che ci incontreremo indicandoci una all'altra dicendo ... oh ! guarda chi trovo !!

ti voglio bene figliola cara

dridri

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Messaggio da miriam bolfissimo » mer lug 12, 2006 9:12 am

Mia carissima adriana, facendoti eco nella condivisione e nella gioia di tenerti stretta nel cuore, ripeto...
... è bello pensare che ci incontreremo indicandoci una all'altra dicendo ... oh ! guarda chi trovo !!
UnabbraccissimocheTistringefortissimo, miriam bolfissimo ;)
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Messaggio da miriam bolfissimo » mer lug 12, 2006 9:19 am

  • Il dono di una Pentecoste vissuta in terra d'Africa
Sono reduce da una full immersion nel sud del Madagascar.

Mi rimane dentro al cuore una domanda che mi inquieta. Fino a che punto siamo stati capaci di tradurre in chiave moderna il «Beati i poveri» e il «Guai a voi ricchi» che Cristo ha proclamato sul monte delle Beatitudini?

Ecco una preghiera che mi è sgorgata dal cuore, il giorno di Pentecoste, prima di salire sull'aereo ad Antananarivo.

  • Signore, aiuta l'Occidente a liberarsi dalle superbe e fasulle divinità per ospitare le sofferenze di questi popoli assetati di rispetto e di attenzione.

    Signore, aiutaci a riscoprire l'evangelica povertà di spirito per dare spazio agli infiniti talenti che ci offrono i poveri.

    Signore, aiuta l'Africa a non fuggire dall'Africa, a recuperare i ritardi nei quali l'abbiamo fatta precipitare, a mettersi al tavolo e non sotto il tavolo come vorrebbero i potenti, per discutere finalmente di diritti e non solo di sfruttamenti.

    Signore, aiuta noi educatori a valorizzare le storie nascoste lungo i sentieri di questo continente ricco di poesia, musica, tragedia, coraggio, mistero.

    Dacci la forza di valorizzare chi ha un solo talento, a non porre etichette sul suo volto, a sviluppare il meglio di chi crediamo non avere niente.

    Facci capire che diventare niente è stato uno dei passaggi più interessanti e fruttuosi della tua vita mortale. Anche tu hai pensato per un momento di essere orfano e trascurato. Da quel momento, dal Getsemani, è partita la nostra redenzione.

    Signore, in questa isola del Madagascar ho capito che dobbiamo insieme cambiare una pagina del Vangelo nella quale si parlava di semina, di raccolto, di grano e di terreni arati. Mi pare che sia giunto il momento di dire che nei piani della Provvidenza possa e debba raccogliere anche chi, non per colpa sua, mai ha potuto seminare.

    Signore, hai visto i milioni di bambini sorridenti e scalzi che sono lungo la strada con tre pomodori o un mucchietto di insalata? Come potranno mai seminare? Dove troveranno un pezzette di terra per raccogliere? Eppure sono tuoi figli e nostri fratelli.

    Signore, non c'è in Matteo una pagina che dice di «guardare gli uccelli del cielo che non seminano, non raccolgono e non mettono nei granai... eppure il Padre vostro che è nei cieli li nutre...»? Quando accadrà questo?

    Perché mai come in Africa si capisce quanto sia urgente e normale che qualcuno sul ciglio della strada, essendo il figlio del Padre, come me, raccolga anche dove non ha mai seminato...

È la prima Pentecoste che noi "vasa" dobbiamo invocare se non vogliamo martoriare ulteriormente questo continente dai colori bellissimi in cielo, ma dalla terra troppo rossa per essere considerata buona per qualcos'altro che non sia solo fare i mattoni delle case.
  • don Antonio Mazzi
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun lug 17, 2006 10:56 am

  • Auschwitz, il silenzio di Dio e le responsabilità degli uomini
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La recente viste di papa Benedetto XVI ad Auschwitz ha riproposto il problema di come conciliare la fede in un Dio buono e onnipotente con l'esistenza del male e della sofferenza, soprattutto nelle sue forme estreme, che per più versi non riusciamo a "capire", a "capere": a porre e contenere dentro di noi.

La dimensione immane di quel male supera la capacità della nostra mente di dilatarsi a com-prenderlo.

Ha perciò un effetto paradossale: solleva questioni enormi, provoca a interrogarsi in profondità ma, insieme, fa giungere alla paralisi del pensiero. Guardare in faccia la Gorgone impietrisce, come dice l'antico mito. E il rilievo (Manna Arendt) che quell'abisso di male sia stato "banale", ossia senza profonde radici, ma compiuto da gente qualsiasì, solo ottusa, accecata, meschina o pavida e incapace di pensare, non fa che accrescere l'angoscia.

«Perché, o Dìo, hai taciuto?», ha chiesto Benedetto XVI.

Naturalmente, come il Papa sa benissimo, prima che a Dio, tale domanda va rivolta a ogni essere umano che allora sapeva e che non ha parlato.

Pochi ebbero il coraggio di levare la voce e invece tanti, tanti, a tutti i livelli, seppero e tacquero o non vollero vedere e udire per non dover parlare e agire: semplici cittadini, esponenti politici, autorità e fedeli delle diverse Chiese cristiane, in Germania e fuori dalla Germania, persino in Paesi a quest'ultima ostili.

Un silenzio pesante come la pietra tombale di una moltitudine innumerevole, qualsiasi ne siano stati i motivi (terrore, acquiescenza, convenienza, complicità, timore di peggiorare le cose). Ci fu. E tanto basta a non consentire l'autoassolvimento degli umani e il trasferimento della responsabilità a Dio.

Il Papa non ignora né elude ciò.

Il suo andare ad Auschwitz è di per sé un segno di penitenza per quanto fecero e non fecero tedeschi e non tedeschi, particolarmente se cristiani e cattolici.

È un far proprio e rilanciare nell'oggi (in presenza di ricorrenti negazioni dell'accaduto) l'urlo inascoltato dei milioni di uccisi: ebrei, innanzitutto, ma anche rom, omosessuali, dìsabìli, prigionieri di tutte le nazioni, oppositori politici.

Il Papa non ha certo inteso cancellare il tema delle responsabilità umane, che nessuno potrà mai rimuovere dalla coscienza storica collettiva.

Ha voluto piuttosto formulare la domanda ulteriore, che, anche quando non osiamo esprimerla, grava su ogni credente e soggiace al nostro sgomento di fronte ai campi di sterminio: «Se gli uomini hanno taciuto, perché ha taciuto anche Dio?».

La riflessione teologica e spirituale ebraica e cristiana e la filosofia hanno avvertito che non potevano semplicemente proseguire sui cammini precedenti e, in particolare, si sono poste il problema del pensare Dio "dopo Auschwitz": la nube della cenere che da lì si è levata si è infatti interposta come un muro tra noi e il cielo.

Auschwitz è una cesura nella storia e nella coscienza della umanità.

E non si deve temere che il riconoscerlo faccia impallidire altri genocidi e tutte le violenze e persecuzioni che gli umani hanno inflitto e infliggono ad altri umani. Al contrario. Ne aumenta semmai la gravita, giacché ci manifesta fin dove possa giungere la malvagità e quali conseguenze possa avere ogni sìngola azione malvagia.

Dunque: pensare Dio dopo Auschwitz.

Qualcuno (Eberhard Jungel) sceglie la via del silenzio: le nostre parole sono spezzate, le nostre teorie sono incenerite; davanti alle vittime e davanti a Dio la risposta adeguata è tacere.

C'è chi, come Paul Ricoeur, sottolinea la irriducibile enigmatìcità del male, che mette in scacco tutti i nostri tentativi di trovarne una giustificazione, ma che ci spinge tanto più a impegnarci nella risposta pratica, nel combatterlo.

Hans Jonas trova la soluzione nella rinuncia ad affermare l'onnipotenza di Dio, per poter continuare a credere nella sua bontà.

Paolo De Benedetti, in sintonìa con Elie Wiesel, rovescia alla fine la prospettiva per meditare sul dolore di Dio: ora sappiamo dove abita, a Jad wa-Shem, il memoriale della Shoah, che è a Gerusalemme.

In realtà, è il silenzio di Dio ad Auschwitz, il silenzio di Gesù davanti a Pilato, che, come il servo sofferente (Isaia 53) «condotto al macello non aprì la sua bocca», ad interpellare noi.

Dio tace con le vittime cui togliamo voce: assimila così sé a loro e loro a sé.

Dio parla, sì, ma per comprenderlo è necessario prima riconoscerlo, come fece Elia, nella «sottile voce di silenzio» ( I Re 19,12).

Certo, dopo Auschwitz non possiamo più banalizzare la fede in Dio, né ritenere dì riuscire a pensarlo adeguatamente, né intendere la sua onnipotenza e la prowidenza divina come un'assicurazione dagli infortuni.

Tanto meno ci è lecito cercare giustificazioni al male con formule stereotipe: «Dio lo ha permesso».

Possiamo però continuare a credere che Dio sia onnipotente nell'amore: che possa amare sempre, chiunque, comunque.

Possiamo sperare che continui ad amare l'umanità, nonostante gli orrori di cui è capace: persino dopo Auschwitz.
  • Maria Cristina Bartolomei
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun lug 24, 2006 2:23 pm

  • Il coraggio che mi infondono certi temi dei ragazzi delle scuole medie
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Una fondazione di un paese della mìa provincia, dedicata a un ragazzo morto in un incidente stradale, indice ogni anno un concorso letterario per i ragazzi della Scuola media locale sui temi del sociale.

Invitato a commentare i temi premiati, sono stato colpito dalle "lezioni" offerte da quei ragazzi di terza media, che hanno smentito i giudizi di superficialità e di leggerezza che spesso diamo nei confronti dei più giovani.

Gli adulti parlano spesso della stabilità della famiglia, del valore del nucleo familiare, i ragazzi percepiscono la sofferenza di genitori separati.

Alessandro, nel tema premiato, la descrive con umanità, ma non usa mai la parola separazione («chi non ha tutti e due i genitori nella stessa casa e quindi non li può vedere insieme»), perché per un figlio non è possibile pensare che i propri genitori non siano più tali, nonostante non vivano più insieme: «Questi ragazzi», scrive, «soffrono molto di questa situazione e si offendono se ti rivolgi in modo cattivo contro i loro genitori».

Gian Marco, in un secondo tema, racconta l'incontro con una ragazzina disabile: «La prima volta ho provato una sensazione ripugnante, ma riflettendo, ho capito che la maggiore felicità è donare serenità, voglia di vivere alle persone che necessitano di più. Quando noi pensiamo a una persona diversamente abile, ci viene in mente una persona scoraggiata, inutile e brutta, ma non è così; sono persone eccezionali, con una bontà d'animo impareggiabile».

Con parole semplici il ragazzo descrive ciò che gli esperti chiamano "stigma": il segno negativo che viene impresso a chi è "diverso". Ma spiega anche efficacemente la reazione doverosa, invocando il proprio sforzo di bontà e valorizzando, in modo positivo, quello della ragazzina.

Alessandra, nel terzo tema, espone con efficacia le difficoltà dell'integrazione: «Purtroppo per ora riesco solo a guardare con maledetta indifferenza, per esempio, i compagni che fanno parte della III C che aiutano e sono vicini a una ragazzina diversamente abile. Anch'io vorrei andare da lei, parlarle, accompagnarla da qualche parte... ma una volta che le sto di fronte, tutto ciò che mi ero prefissata svanisce, il coraggio si disperde, così come tutte le parole che mi ero preparata, e comincio a fissarla e a pensare "accidenti se sono fortunata!". Me ne vergogno».

La conclusione della ragazza è fulminante: «Spero che i ragazzi duri e freddi cambino mentalità, capiscano che saper aiutare è la vera forza e che le persone da prendere come modello non sono quelle che si vestono bene o sono simpatiche, ma i grandi personaggi come Madre Teresa di Calcutta, Gandhi o semplicemente i volontari del proprio paese».

Conoscere quanto passa nell'intimo di ragazzi di 14 anni di un qualsiasi piccolo paese e sapere quanto sono ricchi di semi di positività e di speranza, smentendo il giudizio negativo di gioventù bruciata, mi incoraggia a continuare l'opera di integrazione e di aiuto alle persone fragili.
  • Vinicio Albanesi
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun lug 31, 2006 2:40 pm

  • L'enigma del Salmo 58: Dio vendica i torti subiti dai giusti?
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Per chi come il sottoscrìtto fa l'insegnante, le domande degli studenti sono le pietre più frequenti su cui inciampare. Chiedo scusa se pesco dalla biografia invece che dalla storia, ma il quesito seguente è troppo bello per non condividerlo: «Dio può fare vendetta al nostro posto?».

In termini più articolati: «Un cristiano non può desiderare il male di nessuno, giusto? Dio però punisce i cattivi, giusto? Allora mi sono chiesta: si può pregare Dio perché punisca chi ci ha fatto del male?». Quando Elisabetta, 15 anni, ha posto la questione, la classe si è divisa in due: da una parte, chi affermava con forza che i cristiani non possono chiedere a Dio - che per definizione è buono e perdona - dì fare del male; dall'altra, chi rifletteva che se nemmeno da Dìo si può sperare che i cattivi abbiano la loro, «vabbè allora ditelo...».

Va puntualizzato che si parlava della cattiveria umana con accurata precisione: «Non intendo i cattivi che fanno qualcosa di cattivo e basta, che ce la si può anche fare a perdonarli; parlo dei cattivi che fanno male a chi non può difendersi, sapendo che quello che fanno è male, ma trovando sempre una scusa per giustificarsi. Cattivi dentro. Hai presente, prof?».

Ciò che ho balbettato in risposta non aveva molto senso e, appena ho potuto, ho girato la domanda a un monaco - un santo monaco, va detto - che mi ha consigliato la lettura e lo studio del Salmo 58 (o 57, a seconda delle edizioni): una vera sorpresa sulla quale - altro che inciampo! - si ruzzola che è una meraviglia...

Il testo è in prima persona. All'inìzio, l'orante si rivolge, a seconda delle traduzioni, ai «potenti», a «coloro che amministrano il giudizio con violenza», agli «dèi» (uomini che si credono tali?); alla lettera, potrebbe anche tradursi; i «montoni». Secondo il grande esegeta Schokel è «il potente ingiusto, che abusa del potere per l'ingiustizia, che si dedica al male dentro e fuori, nel cuore e con le mani»; «montoni», perché in genere amano agire da dentro un branco, con la presunzione di chi fonda la sua forza sul consenso del gregge. Il salmista li insulta così: «Velenosi come serpenti, come vipera sorda che si tura le orecchie»; ancora Schokel parafrasa: «Sono quelli che non intendono ragioni né suppliche; reprimono la compassione e quanto può neutralizzare o far fallire i loro progetti». Cattivi dentro, insomma. Sì, ho presente.

Al v. 7, non ottenendo da loro alcuna risposta, l'orante si rivolge all'Altissimo: «Spezzagli, o Dio, i denti nella bocca; rompigli, Signore, le mascelle». Non fosse abbastanza chiaro, si specifica: «Siano come la lumaca che strisciando sì scioglie, come aborto che non arriva a vedere il sole». Le parole prima del Gloria recitano: «Il giusto godrà nel vedere la vendetta, laverà i piedi nel sangue degli empi. Gli uomini diranno: c'è un premio per il giusto, c'è Dio che fa giustizia sulla terra».

La Chiesa ha sempre invitato a maneggiare questo testo con cautela e penso se ne capiscano i motivi. Attualmente, il Salmo 58 non si trova più nella Liturgia delle Ore, a meno che non si tratti di un Salterio monastico.

È infatti uno di quei (pochi) testi, detti «imprecatori», che la riforma liturgica ha tolto dalla preghiera comune del popolo di Dio.

Mai come in questo caso, infatti, il tono passionale comune a molti salmi rende ancora più indispensabile un'adeguata esegesi e una profonda confidenza con l'arte della preghiera.

Commentandolo, i Padri insistono nel ricordare che la lotta tra «empi» e «giusti» è nell'animo di ogni uomo e non fra il gruppo dei «nostri» - chiunque essi siano - contro «gli altri».

Al tempo stesso, evidenziano che l'innocente che soffre e l'ingiustizia palese non possono lasciare indifferenti.

L'ira è un sentimento che ci è dato per la lotta contro l'ingiustizia o, se si preferisce il linguaggio tradizionale, per il combattimento contro il Maligno.

Questi, facendo il suo mestiere, la devia verso i nostri fratelli, ma il suo pessimo uso non è un motivo sufficiente per identificare l'ira con il Male: se così fosse, avremmo ceduto al nemico una parte dell'anima umana, privandola della possibilità di salvezza!

Sant'Agostino invita a immaginare un tale che arriva in un villaggio dopo un viaggio periglioso, inseguito dai banditi: lo si potrà forse biasimare se non trovando nessuna porta aperta e nessuna voce disposta ad ascoltarlo, inizierà a gridare e imprecare violentemente in mezzo alla piazza, all'indirizzo degli abitanti? Ebbene, concludeva Agostino, pregando con il Salmo 58, i cristiani si mettono al fianco di tutti coloro che hanno fame e sete di giustìzia, nel senso più serio dell'espressione.

Enzo Bianchi spiega che «di fronte al male operante nella storia, questi salmi sono uno strumento della preghiera dei poveri, degli oppressi, dei giusti perseguitati». Invitano a fare i conti con i propri giorni più bui e con i propri desideri più oscuri, più duri da digerire, più impresentabìli.

Siamo sicuri che offrirli a Dio sìa una soluzione così nefanda?

Ancora con le parole del priore di Bose, questi testi «sanciscono il principio per cui anche di fronte all'ingiustizia e al male subiti, ci si priva di farsi giustizia da sé, non si cede alla tentazione di rispondere al male con il male, alla violenza con la violenza, ma si lascia fare alla giustizia di Dio».

La preghiera è qui un grido rivolto al cielo, perché il cìelo risponda.

È un denudarsi, come in una richiesta di perdono, come il Giobbe ricoperto dì pustole che si rifiuta di credere che Dio rimanga indifferente di fronte all'ingiustìzia.

Anche Paolo di Tarso scrìsse: «Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimì, ma lasciate fare all'ira divina. Sta scritto infatti: a me la vendetta, sono io che ricambierò, dice il Signore».

Cristo stesso ha pregato con i salmi.

Il fatto che Egli sia stato l'esecutore della «giustizia di Dio» e al tempo stesso l'oggetto dell'«ira di Dio», per usare il tono appassionato della poesia biblica, apre ulteriori e ampi spazi di interpretazione che tuttavia, non invalidano nemmeno uno iota dell'antica Legge.
  • Marco Ronconi
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun set 04, 2006 2:29 pm

  • E dentro la vita di ogni giorno che la storia partorisce le novità
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Stiamo vivendo in Italia un momento particolare.

Abbiamo le strutture degli onnipotenti (vedi le grandissime società di calcio) che passano nel giro di pochi mesi dal trionfo degli altari al tonfo dei tribunali. Andiamo fuori di testa perché i nostri venti giovanotti della Nazionale di calcio, partiti per la Germania tra le derisioni di molti giornalisti - etichettati quasi fossero un gregge di pellegrini con un pastore miope e poco stratega -sono saliti ben oltre tutti i sogni delle più accese tifoserie. Così il gregge in sette partite è diventato un gruppo mitico. E ancora: un grande giocatore della Juventus come Pessotto nello spazio di pochi minuti tenta di finire la sua vita nel modo più problematico e ingiustificato.

Ho citato questi episodi perché tengono dentro di loro le infinite fragilità degli onnipotenti.

Gente come me non può non farsi le domande che stanno alla base dei grandi perché della vita: «È possibile vincere tutte le battaglie che ti si parano davanti con la grinta e la caparbietà dei ciclopi e contemporaneamente non essere capaci di sopportare una piccola incomprensione con la moglie, l'adolescenza del proprio figlio, la crisi dell'azienda, la malattia del genitore?».

È più facile vincere la Coppa del Mondo, aprire un servizio telefonico, attraversare l'oceano sul catamarano o vincere un dubbio esistenziale, un lato debole del carattere, una incomprensione che sopravviene a nostra insaputa?

Forse avevano ragione i nostri nonni quando dicevano che le guerre non le hanno vinte i generali, ma tutte quelle mamme che dopo aver messo al mondo i loro figli in una delle notti anonime dell'anno, hanno accettato che venissero immolati contro la loro volontà.

I veri eroi non hanno mai fatto grandi rivoluzioni e non hanno aspettato che venissero le guerre per guadagnarsi la medaglia d'oro.

Niente più del quotidiano sa metterci alla prova e sa soppesarci.

Ed è lì dentro che la storia si rinnova, cammina, partorisce e germina innovazioni.

Smettiamola di sprecare aggettivi, di rendere immortali personaggi prefabbricati, di idolatrare progettisti di megalopoli, di invidiare gente che ha fatto carriera piantando i gomiti nello stomaco dei loro vicini.

Questa società è troppo preoccupata della crisalide e da sempre meno coraggio alla farfalla che dovrebbe uscirne.

Rischiamo di trasformare un progetto di vita in una tomba anzitempo!

Non abbiatemene se rimetto sul tavolo la parola educazione. Qui toccherebbe risvolti non solo di taglio pedagogico ma dalle rilevanze profeticamente politiche. Peccato che in pedagogia i referenti non sono gli onnipotenti ma i padri, le madri, i docenti della scuola, i preti dell'oratorio, gli operai delle aziende, gli imprenditori con poco pelo sullo stomaco...
  • don Antonio Mazzi
Ultima modifica di miriam bolfissimo il lun set 18, 2006 2:20 pm, modificato 1 volta in totale.
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun set 04, 2006 2:48 pm

  • Quando non rinunciamo a scrutare il segreto della vita
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Non so se vi sia mai capitato di sentirvi improvvisamente stranieri nella città dove da anni abitate e dove, forse, siete anche nati.

È una sensazione strana, difficile da definire, difficile anche dire se sia piacevole o no.

Accade così: in un certo momento, in quella città, in quella stessa strada che magari percorriamo ogni sera di ritorno dal lavoro, tutto ci sembra diverso, le case, i negozi, i luoghi che credevamo di conoscere da sempre.

Non che siano diversi davvero: l'angolo della strada è proprio quello, quel palazzo ha lo stesso portone profondo e un po' buio con due lesene arricciolate in cima, la mostra del negozio di scarpe, l'insegna verde della farmacia non sono per nulla cambiati, eppure tutto, ai nostri occhi, appare come nuovo, ha qualcosa di strano, eccitante, come lo vedessimo per la prima volta, ogni particolare ci colpisce, proviamo, insomma, il senso dell'avventura come fossimo scesi adesso da un treno in arrivo da chissà dove e, in attesa di ripartire, avessimo deciso di fare un giro per questa città sconosciuta.

È precisamente quanto mi accadde l'altra sera in una grande strada di Milano, poco lontano da casa.

Era una sera di sabato. Ero rimasto in casa tutto il giorno a lavorare, nonostante il caldo di queste giornate estive. Mi era passata sotto gli occhi una grande quantità di libri: il pensiero, le speranze, i dubbi di gente ormai lontana nel tempo che si era affannata a scoprire quale fosse il segreto della vita, perché esistesse il bene e il male, perché l'umanità si comporti così come si comporta. Alla fine della giornata, tutte quelle voci, tutti quei pensieri che sembravano contraddirsi gli uni con gli altri mi giravano per la testa e le parole sulle pagine si confondevano davanti agli occhi.

Ero stanco, volevo incontrare gente viva, volevo vederla muoversi nelle consuete azioni di ogni giorno, farmi entrare nelle ossa il respiro caldo della sera.

Sono uscito. La serata era limpida con una luna alta e lontana, così nitida che sembrava perfino più piccola del solito, completamente estranea a quanto accadeva sotto di lei. La strada era gremita di gente, forse nella vana ricerca di un soffio più fresco dell'aria. Invece di sembrarmi come al solito una folla agitata e senza volto, ogni faccia aveva qualcosa di particolare che la distingueva da ogni altra.

Era strano poter osservare la gente in quel modo unico e irrepetibiie, conoscerla per un istante e solo per quell'istante. Lassù, nei piani alti delle case, si andavano intanto accendendo le luci. Dunque anche là c'era gente che conduceva avanti il filo della vita.

C'era da perderci la testa: avrei voluto essere ovunque, partecipare di ogni gesto, vedere assolutamente tutto come fosse il primo e l'ultimo giorno della mia vita. Nel negozio di coltellerie sfavillavano lame di ogni forma e dimensione. Dal supermercato degli alimentari uscivano donne e uomini con gli ultimi acquisti della giornata, sacchi rigonfi e, sul volto, un'espressione soddisfatta come se, invece di avere pagato fino all'ultima pera, avessero partecipato a un saccheggio. «Andiamo bellina», diceva il mendicante zoppo raccogliendo la ciotola e la cagnetta gli abbaiava felice e petulante contro lo stinco di legno.

Dio mio, pensavo, che cosa è mai questa rappresentazione e perché la vedo soltanto stasera?

E domani, la vedrò ancora domani?

Sulla soglia di casa mi voltai e diedi un'ultima occhiata alla strada: era davvero come se quella sera l'avessi vista per la prima volta e sapevo anche che quella gente che in quel preciso momento stava passando non l'avrei rivista mai più.

«Vedi», mi disse un amico quando gli raccontai la mia piccola avventura, «in una sera così anch'io ho provato una strana sensazione. Mi sembrava che su, in alto, da sopra le case, ci guardassero due grandi occhi affettuosi e tristi. Se Dio stesse davvero in cielo, quegli occhi dovevano essere i suoi».

Ma io pensavo che gli occhi che egli vedeva sopra le case erano ancora e soltanto i nostri occhi che non rinunciano a scrutare il segreto della vita senza capire che la vita è un giocattolo delicato e prezioso che va preso così com'è: appena lo smonti per impadronirti del suo segreto, ti rimangono in mano dei pezzetti inutili e senza senso.
  • Ferruccio Parazzoli
Ultima modifica di miriam bolfissimo il lun set 18, 2006 2:20 pm, modificato 1 volta in totale.
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun set 11, 2006 10:06 am

  • I mille pseudo-problemi della nostra vita quotidiana
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Dopo la pausa estiva, avvertita anche da chi in vacanza non è andato, riprende a settembre l'abituale ritmo di vita, con i problemi che l'accompagnano. Problemi che molti si sono illusi di riuscire a rimuovere col semplice trasferirsi "altrove".

Ma, come dice Seneca (Epistola a Lucilio 28,1): «Animum debes mutare, non coelum», cioè «Devi mutare l'animo, non il luogo».

Le vacanze avrebbero dì per sé un altro senso originario: "vacare", cioè esser liberi da qualcosa e per qualcosa.

Ritrovare noi stessi, traendoci fuori dalla palude degli pseudo-problemi e delle falsità di ogni sorta: con ciò più di un problema sarebbe risolto alla radice.

Problemi. Un tempo, erano per antonomasia quelli di aritmetica, che impegnavano i bambini alle elementari. Ora, è una delle espressioni più inflazionate: un uso cui non è estraneo l'influsso dell'inglese.

Si potrebbe fare un utile esercizio provando a esprimersi senza usare tale termine. Si riscoprirebbe tutta una serie di parole: disturbi, difficoltà, ansie, sofferenze, questioni, enigmi.

Ne I Promessi Sposi, che pure di problemi ne avevano avuti non pochi, si cercherebbe invano tale parola. E fino al XX secolo, anche in tanti altri testi di narrativa, il termine, ammesso che ricorra, è assai raro. Allora si utilizzava in ambito matematico, fisico, filosofico, non esistenziale e quotidiano.

Il nostro uso intenso ed estensivo di esso sarebbe un segno positivo se indicasse che abbiamo maturato una mentalità più critica, che non diamo nulla per scontato, che non siamo mai paghi, che cerchiamo risposte alle grandi questioni e soluzioni sempre migliori ai molti mali che afflìggono l'umanità.

Purtroppo non si può dire che sia così. Anzi spesso dichiarare che si «ha un problema» è un modo per dire che una soluzione rapida e a nostra disposizione ci deve essere, è un modo appena velato per dire: «Esigo che quanto desidero e voglio sia mio e presto».

"Problema" allora come espressione nascosta della pretesa di una soluzione per ogni guaio, male, disagio. Il contrario dell'accettare di stare nella problematicità dell'esistenza e della conoscenza.

"Problema" può anche essere il nome esagerato e l'indice di insopportazione per le piccole frustrazioni, pesi, disinganni della vita di ogni giorno.

Spiacevolezze e contrarietà nell'ambito lavorativo o anche familiare divengono problemi solo se superano di molto i limiti fisiologici che segnano la nostra quotidianità, oppure se eccedono considerevolmente la capacità di tolleranza psicologica delle persone in questione.

In tale caso derivano forse piuttosto dal nostro carattere, dalle nostre attese e pretese, spesso troppo egocentriche.

Un esame onesto e obiettivo delle circostanze porterebbe a vedere dissolversi più di un problema come neve al sole.

Cose sgradevoli non sono di per sé problemi. Possono essere moleste e seccanti e come tali vanno trattate, sopportate e, se possibile, evitate. Nemmeno l'amore del prossimo ci impone di ricercare la compagnia di persone con cui non andiamo d'accordo; ma quando non lo possiamo evitare, ciò può diventare occasione di scoperte positive. Se riusciamo a superare il muro interno della antipatia o del rifiuto pregiudiziali, può capitarci di realizzare un inatteso scambio positivo con l'altro e dì scoprire che il problema sta in noi, nel nostro farci orientare da sentimenti immediati, erigendo un muro che ci imprigiona: un problema da risolvere in un onesto confronto con se stessi.

Ci sono poi i problemi fittizi di chi non è mai contento di quel che ha e si consuma nell'invidia e nella gelosìa.

Diverso è il caso di chi è dominato da una angoscia continua e di fondo che ha bisogno di creare sempre nuovi oggetti e motivi esterni per giustificare se stessa: e allora le più normali circostanze del vivere diventano problema.

«Qual è il problema?». Così talora qualcuno tronca in modo provocante e insieme liberante pseudodispute fondate sul nulla. I problemi reali nella vita personale e sociale sono tantissimi e anche molto gravi: ma a questi dedichiamo magari fin troppo poca attenzione, mentre ci perdiamo dietro a quelli banali o inventati.

E questo per una ragione di fondo che va messa a fuoco: è il fatto che spesso noi viviamo in fuga da noi stessi e che non abbiamo una sufficiente vita interiore, che ci consenta di distinguere i problemi veri da quelli falsi, così come non distinguiamo sempre bene la realtà dai fantasmi, e i nostri ìdoli da Dìo.

La "vita interiore" non è riservata ai credenti né è automaticamente da questi posseduta. È attingere a quella dimensione profonda in cui troviamo autenticamente noi stessi e possiamo stare in pace con noi stessi.

I credenti riconoscono al fondo di essa il volto stesso di Dio: «Tu, o mio Dio, eri più interno a me del più intimo di me stesso» (Sant'Agostino, Confessioni III, 6, 11).

Vita interiore: una vacanza sempre a portata, una soluzione di problemi che non dipende che da noi.
  • Maria Cristina Bartolomei
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun set 18, 2006 2:18 pm

  • Lo sconcerto di un'improvvisa felicità nel tedio quotidiano
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Ci sono momenti in cui non si sa che fare dì se stessi.

Li abbiamo provati tutti, quei momenti.

Ci si guarda intorno e non succede nulla, assolutamente nulla che sembri minimamente interessante, nulla che ci lasci intendere, con uno di quei cenni impercettibili ma decisivi di cui la vita è maestra, che qualcosa anche per noi sta finalmente cambiando.

Questa sensazione di inutilità e dì immobilità mi assaliva soprattutto in gioventù, mi era motivo dì tedio, dì scoraggìamento, perfino di tristezza.

Oggi, a settant'anni, so che alla noia, al tedio di vivere, non ci si deve opporre, basta aspettare. Anzi, proprio in quei momenti in cui il mondo sembra particolarmente senza senso e senza colore, la nostra capacità di attenzione sì fa più acuta, vediamo cose che, altrimenti, non avremmo visto mai.

Basta non agitarsi, non avere paura, contìnuare a tenere, per così dire, il filo della vita tra le dita. È un piccolo miracolo che ci è chiesto ogni volta.

Leggo sempre con interesse quella pagina del Vangelo di Matteo in cui Pietro, per andare incontro a Gesù, non ci sta a pensare su due volte, scende dalla barca e comincia a camminare sulle acque del lago di Genezaret. Solo quando lo coglie la paura di non potercela fare, le acque gli si aprono sotto i piedi e Pietro comincia a sprofondare davvero.

Il bello è che di questo miracolo tutti noi siamo capaci, anzi, lo compiamo ogni giorno, così, senza nemmeno accorgercene, per andare incontro al richiamo quotidiano della vita.

Ci fu un tempo in cui una delle poche cose che mi mandava quel richiamo misterioso era un negozio di calzolaio. Ci passavo davanti tutte le mattine. Era una stanzetta buia divisa a metà da uno scomparto di compensato e il calzolaio, un uomo grassoccio di mezza età, stava dietro lo scomparto da dove guardava fuori attraverso una specie di finestrella. Le pareti erano ricoperte di cartoline illustrate e, su una mensola, c'era la gabbia dì un merlo che, però, non fischiava mai. Il calzolaio doveva essere molto mattiniero perché alle otto del mattino, quando passavo, lui era già lì, anche d'inverno, a lavorare dietro la finestrella con la sua lampadina accesa.

Tutte le mattine mi chiedevo che cosa mai spingesse il calzolaio a saltar giù dal letto e a riprendere il suo posto dietro la finestrella. Non riuscivo a trovare una risposta.

Finché un giorno, improvvisamente, scopersi che il fatto che il calzolaio fosse lì tutte le mattine, era un fatto assolutamente normale. Il segreto del suo fascino consìsteva appunto in questo: che egli stava compiendo con naturalezza quello che invece era del tutto straordinario. Senza guardare né a destra né a sinistra, camminava ogni giorno sulle acque.

Così, stanotte, ho inventato questa parabola.
  • C'era una volta il mondo. Era un mondo di tutti i giorni, senza niente di speciale: all'alba il sole si alzava da dietro i tetti e splendeva nel cielo; di notte, mentre gli uomini dormivano, la luna camminava sopra le loro case, oppure splendevano le stelle; l'acqua scorreva nei fiumi, l'erba cresceva nei prati e quando gli uomini avevano freddo il fuoco lì riscaldava.

    Qualche volta il vento portava le nuvole: allora pioveva o scendeva la neve.

    Tutto questo agli uomini parve ben presto così naturale che finirono per non accorgetene più: camminavano a testa bassa e guardavano il cìelo solo per sapere se dovessero aprire l'ombrello.

    Così credettero che il mondo finisse alla punta delle loro scarpe e che il tedio che li rodeva fosse un male irrimediabile.

    Ma ogni tanto qualcuno, forse particolarmente stanco, provava ancora una sconveniente, improvvisa felicità, così come dicono che capiti soltanto ai bambini e agli sciocchi.

    Di che cosa era felice? Dì tutto, di nulla, del fatto di essere vivo oggi, e domani, chissà, di morire.

    La maggior parte non ne faceva parola con nessuno nel timore di essere schernito. Ma se qualcuno era abbastanza folle per dividere con gli altri la propria sconcertante felicità, come Francesco dì Assisi nel suo Cantico delle Creature, allora a gioia tornava per un poco a vìvere tra gli uomini e vìveva fino a quando trovava chi fosse ancora disposto a non averne paura.
      • Ferruccio Parazzoli
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun set 25, 2006 10:13 am

  • Cenerentola immortale regina della cenere
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Da quando appare, lì, accanto al camino, china a cuocere i ceci e a spazzare, per coricarsi poi sulla cenere, suo unico lettino, Cenerentola inizia la sua vita senza fine, non solo nella fiaba dei fratelli Grimm.

Rivive in altre fiabe, spesso mascherataa, in tante giovani protagoniste di romanzi, e poi nella commedia, nel cinema.

La prima immagine, quella della povera ragazza china sulle ceneri, col volto sporco di nerofumo, inscindibile dalla seconda, quella finale e trionfale della bellissima giovane che danza sfavillante col principe a corte, e che sarà da questi cercata, ritrovata, portata via in sposa.

Inscindibile, ma più forte: conosciamo tante storie a lieto fine, ma in questo caso l'esito finale è, più che propiziato, sancito dalla condizione d'origine, dalla polvere.

Cenerentola, nel suo giaciglio di ceneri, col volto velato di cenere, è l'inconsapevole regina dell'elemento originario e finale dell'esperienza umana. Nella sua umiltà e nella sua umiliazione convive con la polvere che fummo e che saremo, e con quel tipo di polvere che attesta l'esistenza
del fuoco, dell'elemento che arde e divora, dell'amore.

Per questo parla con l'alberello da lei piantato accanto alla tomba della madre precocemente morta, per questo la pianta e gli uccelli, i colombi, le tortore, dialogano con lei, e l'assecondano.

Conosciamo la leggenda, credo ben poco leggendaria ma piuttosto verosimile, di un santo che fece dell'umiltà la sua vita, e che parimentì parlava agli uccelli.

L'umiltà, la rarefazione del corpo, ci portano alla leggerezza dell'aria, alla dimensione degli alati.

Lo splendore che emana da Cenerentola, quindi, la prima sera nel salone della reggia, lo splendore delle sue vesti e della sua danza, è espressione di una bellezza non solo umana: i suoi piedi sono sottili e gentilissimi, le consentono di danzare come volando.

Come sappiamo ogni notte è costretta a fuggire, per rientrare in casa, cambiata d'abito, prima che ritornino le cattive sorelle, la matrigna e il padre.

Come sappiamo una scarpina persa nella fuga consentirà al principe di ritrovarla: anche in quel momento, lei con la sua veste bigia, col viso oscurato di nerofumo, anche in quel momento, togliendosi i rudi zoccoli, indossando la piccola scarpina d'oro, già splende, inconsciamente il giovane l'ha già riconosciuta: non si spiegherebbe diversamente la sua ostinazione a fare la prova con la sorella reietta, nonostante le rimostranze della matrigna e del padre.

La cenere, nell'interno, accanto alla sede del fuoco, dove si cuoce il cibo, e il nocciolo, fuori, all'aperto, sulla tomba della madre. Era l'unico dono mai chiesto al padre, che si accingeva a un viaggio: dammi la prima fronda in cui ti imbatti. Avuto il ramoscello lo aveva piantato accanto alla tomba e con le sue lacrime lo aveva annaffiato fino a farlo crescere, albero magico, in animica comunicazione con la piccola regina della cenere, già riconosciuta regina dalle colombe e dalle tortore, gli alati che mettono in comunicazione questo mondo e il cielo.
  • Roberto Mussapi
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun ott 02, 2006 10:15 am

  • Il silenzio eloquente del Padre
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Quando incolpiamo il cielo di mutismo è perché in realtà cerchiamo una voce fatta a nostra immagine...

Tra le numerose accezioni del silenzio ve n'è una che ai nostri giorni è chiamata in causa con eccessiva facilità: il silenzio di Dio.

E non nel senso tragicamente interrogativo del suo apparente tacere di fronte all'abisso del male, bensì in quello più spicciolo, quotidiano, personale.

Quante volte, infatti capita di ascoltare lamentele che paiono accuse scagliate verso il cielo: «Dio non mi parla, non mi dice nulla!». Parole pronunciate sovente non da grandi figure spirituali, avanzate negli anni, la cui lunga esperienza di preghiera può aver conosciuto anche la "notte oscura" dell'assenza di Dio, bensì da giovani o da comuni credenti che paiono quasi giustificare così la loro mancanza di fede, il loro allontanarsi dai luoghi e dai tempi della preghiera, del dialogo con il Signore nella fedeltà dell'amore.

Sì, è diventato quasi un vezzo chiedersi «dov'è Dio?» ogni volta che siamo scossi da qualche evento terribile e imputargli un silenzio colpevole nel dipanarsi della storia come nelle nostre vicende personali.

Questo, tra l'altro, ci libera dai ben più inquietanti interrogativi: «Dov'è l'uomo, fratello del suo simile? Dove sono io? Che ne ho fatto della mia responsabilità e solidarietà?».

In realtà, il "silenzio di Dio" è un'espressione biblica che l'Antico Testamento in particolare mette in bocca a uomini e donne in preghiera.

Questo suggerisce che il Dio silente non è tanto un argomento di chiacchiera o discussione ma piuttosto l'interrogativo al culmine di un cammino di sofferenza: quando si è colti dal dolore, dall'oppressione, dallo sterminio, dall'ingiustizia che uccide e non vi è nessun uomo che venga in aiuto, nessuno che ascolti, che prenda le difese, che denunci il male, allora il credente chiama Dio e, se ancora nulla cambia, lo supplica accoratamente:
  • «O Dio, non restare muto, non startene in silenzio!» (Sal 82,2)

    «Dio della mia lode, esci dal silenzio!» (Sal 109,1)

    «Se tu resti muto, io sono come chi scende nella fossa» (Sal 28,1).

    Anche Giobbe ha gridato: «Urlo verso di te e non rispondi!» (Gb 30,20).
Chi prega così non pretende che Dio parli, ma pretende che qualcosa cambi nella propria situazione, che vi sia un mutamento nella realtà circostante e un cambiamento in se stesso: infatti, si può anche vivere un cammino di sofferenza e non denunciare il silenzio di Dio, ma questo è possibile solo se si giunge a capire che quel cammino ha un senso.

Gesù nella sua estrema derelizione sulla croce si è rivolto a Dio chiedendogli: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», intonando così il salmo 22, il canto del giusto perseguitato a morte. Ma proprio in quel salmo, dopo il lamento, quando sembra che tutto ormai sia solo aporia, che tutto sia ormai finito, la voce dell'orante si leva ad esclamare: «Tu mi hai risposto!».

Ma queste invocazioni dei salmisti, queste suppliche a Dio perché cessi di starsene in silenzio vanno decodificate: si tratta di discernere se è Dio che fa silenzio o non piuttosto il credente, il popolo, l'orante che non ascolta, che è incapace di cogliere la parola di Dio, pronunciata magari in altro modo, attraverso eventi e vicende inattese e non prevedibili.

E comunque, perché non cogliere che Dio può parlare anche nel silenzio? Sì, il silenzio può essere una modalità altra del suo linguaggio, accanto a quella della parola pronunciata e della parola-evento che si realizza.

Non dovremmo scordare un testo biblico estremamente illuminante in proposito, un testo che un tempo risuonava come antifona di introito nella messa della notte di Natale:
  • «Mentre un silenzio profondo avvolgeva ogni cosa... dall'alto dei cieli... la tua parola onnipotente si lanciò dal trono regale» (Sap 18,14-15).
Mistero di parola e silenzio in Dio.

Sì, Dio è in verità silenzio e parola: non silenzio muto e sordo, ma silenzio che è un modo di comunicare altro rispetto alla parola, un modo che in determinate circostanze può rivelarsi più efficace ed "eloquente" di qualsiasi discorso.

La parola di Dio res ta iscritta nel suo grande silenzio e in esso trova la propria origine e la propria leggibilità: da parte nostra dobbiamo ascoltare l'uno e l'altra, perché entrambi sono presenza di Dio, di quel Dio che non può non essere presenza, perché come tale si è sempre manifestato.

Sappiamo che la tentazione dell'ateismo, del nulla, della "nientità" è costantemente in agguato anche, e forse soprattutto, per gli uomini e le donne di preghiera, per i grandi contemplativi che vivono nella fede e nella salda adesione al Signore: anche loro possono giungere a lamentarsi del silenzio di Dio, a piangerne l'assenza e a invocarne una parola.

Ma proprio costoro ci testimoniano che non per questo la presenza di Dio viene meno: Dio è sempre presente all'uomo, da lui creato a propria immagine e da lui amato fino all'estremo.

Quando incolpiamo Dio di mutismo, quando attribuiamo a lui il vuoto del nostro cuore è perché in realtà siamo noi incapaci di ascoltarlo, perché cerchiamo da lui una parola che sia a nostra immagine e somiglianza.
  • Enzo Bianchi
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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