Ugo Foscolo

Poeti celebri di affermata fama nazionale e mondiale
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Beldanubioblu
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Ugo Foscolo

Messaggio da Beldanubioblu » sab apr 08, 2006 1:28 pm

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Ugo Foscolo


nacque il 6 febbraio 1778 a Zante, una delle isole ioniche, da padre veneziano e madre greca. Dopo la morte del padre si trasferì a Venezia, dove partecipò ai rivolgimenti politici del tempo manifestando simpatie verso Napoleone, salvo pentirsene amaramente dopo il trattato di Campoformio.

E' considerato il primo grande intellettuale dell'età neoclassica. Figlio naturale dell'illuminismo, incarna in sé tutti i fermenti culturali del mondo in cui visse. Nella sua opera si trovano tutti gli elementi culturali che caratterizzano l'età a lui contemporanea (Neoclassicismo, Illuminismo, Preromanticismo).

Detto questo, non è certo possibile analizzare l'opera di Foscolo attraverso un itinerario in cui si distingua una fase illuminista poi una fase neoclassica e infine una fase preromantica; troveremo soltanto opere in cui sono presenti insieme tutti e tre questi elementi (persino nelle "Grazie", che sembrano un regresso culturale verso il neoclassicismo dopo gli slanci dei "Sepolcri").

Sul piano strattamente personale invece, la nativa Zante, che definì "la culla della civiltà" restò sempre la sua patria ideale, tanto da dedicarle un bellissimo sonetto (il celeberrimo "A Zacinto"). Per Venezia provò sentimenti altrettanto intensi e, mentre se per l'isola greca subì il fascino del vagheggiamento malinconico, considerò la Serenissima come una seconda patria, di fatto quella reale, per la quale, non a caso, si lasciò coinvolgere nei suoi destini politici.

Infatti, istituito nel 1797 a Venezia un governo democratico in cui assunse cariche pubbliche, pochi mesi dopo, in seguito al trattato di Campoformio con cui Napoleone cedeva Venezia all'Austria, dovette fuggire, riparando a Milano (sottratta da Napoleone all'Austria), ove strinse rapporti di affettuosa amicizia col Monti ed ebbe modo di avvicinare il Parini.

A Milano fu redattore del "Monitore italiano", ma l'anno dopo si trasferì a Bologna, ove ricoprì la carica di aiutante cancelliere di un tribunale militare. L'anno successivo lasciò l'incarico per arruolarsi col grado di luogo­tenente nella Guardia Nazionale e, a fianco dei Francesi, combatté contro gli Austro-russi (rimanendo anche ferito durante una battaglia). Al comando del generale francese Massena partecipò alla difesa di Genova e quando la città fu costretta alla resa, seguì il Massena nella fuga.

Nel 1804 si recò in Francia, per motivi militari, e qui ebbe l'opportunità di trascorrere due anni di relativa calma, che impiegò in gran parte in amori appassionati, fra cui quello con l'inglese Fanny Emerytt da cui nacque la figlia Floriana. Tornato in Italia, visse tra Venezia, Milano, Pavia (ove ottenne la cattedra di eloquenza presso l'Università), Bologna e di nuovo Milano, da dove fuggì nel maggio del 1815 per non dover giurare fedeltà agli Austriaci. Dopo una breve permanenza a Lugano ed a Zurigo, l'anno dopo si stabilì a Londra, accolto dall'alta società. Qui guadagnò abbastanza con la pubblicazione delle sue opere, ma sperperò tutto con le sue dissolutezze: iniziò pure la costruzione di una lussuosissima villa, che non riuscì a pagare totalmente nonostante il soccorso della figlia Floriana (che, ritrovata a Londra, gli offrì tremila sterline). Inse­guito dai creditori, subì anche il carcere, e fu poi costretto a ritirarsi nel villaggio di Turnham Green, ove visse gli ultimi suoi anni in compagnia della figlia.

Elementi autobiografici della vita del Foscolo sono presenti nelle "Ultime lettere di Jacopo Ortis", anche se spesso e volentieri l'autobiografia cede il passo alla fantasia, presentandone quegli ideali (chiamati poi "illusioni") che, secondo Foscolo, permettono all'uomo di vivere la propria interiorità in modo meno drammatico, essendo addirittura validi argini psicologici contro il suicidio. Nell'Ortis, ad ogni modo, troviamo abbozzati tutti gli elementi che verranno elaborati nelle opere successive (gli ideali della patria, della poesia, dell'amore....). Il protagonista segue una direzione diversa dallo scrittore: Ortis arriva al suicidio, Foscolo no pur sempre aspirando alla pace e alla tranquillità nella sua travagliata esistenza.

Profondamente materialista e credente nella natura "meccanica" dell'esistenza (il suo lato illuministico, potremmo dire), visse in modo lacerante il momento di crisi dell'illuminismo, tanto da determinare in lui una visione pessimistica della vita. Foscolo aspirava alla gloria, alla fama, all'eternità ma la concezione illuministica (che vedeva la vita fatta di movimenti meccanici) limitava di fatto la realizzazione di queste aspirazioni, essendo l'ottica di quella filosofia legata alla convinzione che l'uomo sia un essere finito e soggetto a scomparire dopo la morte. Tirate le file, è la realtà della morte che induce Foscolo a cadere nel pessimismo che lo attanagliava. In base a queste considerazioni, elabora come detto quella che sarà definita come "la filosofia delle illusioni" che si caratterizza più che altro come una presa di coscienza del soggetto e dell'artista più che come una svalutazione delle potenzialità e della validità della ragione.

"Le illusioni", insomma, danno un senso all'intera esistenza e contribuiscono alla convinzione che vi sia pur qualcosa per cui valga la pena vivere invece che darsi la morte autonomamente. Le illusioni, in sostanza, sono la patria, la poesia, la famiglia, l'amore; nei Sepolcri, invece, troveremo la "sublimazione " di questo processo, scoprendo che "l'illusione delle illusioni" è la stessa poesia civile.

Accanto alla produzione maggiore (Ortis, Odi, Sonetti, Grazie, Sepolcri) troviamo anche altre opere, in particolare la fase cosiddetta didimea; è la fase dell'anti-Ortis, del viaggio in Inghilterra, del Foscolo maturo che ha abbandonato la passionalità e guarda con occhio critico ed ironico le cose della vita.

Ugo Foscolo scrisse anche alcune tragedie (Aiace, Tieste e Ricciarda) ad imitazione dell'Alfieri, in cui ha forte prevalenza l'esaltazione dell'agire passionale.

Morì il 10 settembre 1827. Le sue ossa furono trasferite a Firen­ze solo nel 1871 e vennero tumulate nel tempio di S. Croce, che egli aveva così tanto esaltato nel carme "Dei Sepolcri".


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Aforismi


La noia proviene o da debolissima coscienza dell'esistenza nostra, per cui non ci sentiamo capaci di agire, o da coscienza eccessiva, per cui vediamo di non poter agire quanto vorremmo.»

«L'arte non consiste nel rappresentare cose nuove, bensì nel rappresentare con novità.»

«Colui che ama se stesso sopra ogni cosa non passa per la porta del regno dei cieli, allo stesso modo in cui il dito della sposa, se è ripiegato su se stesso, non entra nell'anello offerto dallo sposo.»

«La fama degli eroi spetta un quarto alla loro audacia; due quarti alla sorte, e l'altro quarto, ai loro delitti.»

«Le laide e sciocche consuetudini sono la corruzione della nostra vita.»
«Il coraggio non deve dare diritti per soperchiare il debole.»

«Noi chiamiamo pomposamente virtù tutte quelle azioni che giovano alla sicurezza di chi comanda e alla paura di chi serve.»

«L'arte non consiste nel rappresentare cose nuove, ma nel rappresentare con novità.»


Fonte:http://biografie.leonardo.it

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Ultima modifica di Beldanubioblu il lun apr 10, 2006 9:32 pm, modificato 3 volte in totale.
Il sole non ti serve per vedere perchè tu luce sei in mezzo al buio...(Lucia Di Iulio)

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Messaggio da Beldanubioblu » lun apr 10, 2006 9:15 pm

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A Zacinto



Da notare come le parole-rima delle quartine, tra l'altro di
suggestiva congruenza semantica, si ripercuotano variamente
in rime interne e assonanze nei primi undici versi.

Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell'onde
del greco mar da cui vergine nacque

Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l'inclito verso di colui che l'acque

cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.



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Dei Sepolcri


All'ombra de' cipressi e dentro confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro? Ove più il Sole
per me alla terra non fecondi questa
bella d'erbe famiglia e d'animali,
e quando vaghe di lusinghe innanzi
a me non danzeran l'ore future,
né da te, dolce amico, udrò più il verso
e la mesta armonia che lo governa,
né più nel cor mi parlerà lo spirto
delle vergini Muse e unico spirto a mia vita raminga,
qual fia ristoro a' dí perduti un sasso
che distingua le mie dalle infinite
ossa che in terra e in mar semina morte?
Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,
ultima Dea, fugge i sepolcri: e involve
tutte cose l'obblío nella sua notte;
e una forza operosa le affatica
di moto in moto; e e le sue tombe
e l'estreme sembianze e le reliquie
della terra e del ciel traveste il tempo.

Ma perché pria del tempo a sé il mortale
invidierà l'illusîon che spento
pur lo sofferma al limitar di Dite?
Non vive ei forse anche sotterra, quando
gli sarà muta l'armonia del giorno,
se può destarla con soavi cure
nella mente de' suoi? Celeste è questa
corrispondenza d'amorosi sensi,
celeste dote è negli umani; e spesso
per lei si vive con l'amico estinto
e l'estinto con noi, se pia la terra
che lo raccolse infante e lo nutriva,
nel suo grembo materno ultimo asilo
... ultimo asilo
porgendo, sacre le reliquie renda
dall'insultar de' nembi e dal profano
piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,
e di fiori odorata arbore amica
le ceneri di molli ombre consoli.

Sol chi non lascia eredità d'affetti
poca gioia ha dell'urna; e se pur mira
dopo l'esequie, errar vede il suo spirto
fra 'l compianto de' templi acherontei,
o ricovrarsi sotto le grandi ale
del perdono ma la sua polve
lascia alle ortiche di deserta gleba
ove né donna innamorata preghi,
né passeggier solingo oda il sospiro
che dal tumulo a noi manda Natura.
Pur nuova legge impone oggi i sepolcri
fuor de' guardi pietosi, e il nome a' morti
contende. E senza tomba giace il tuo
sacerdote, o Talia, che a te cantando
nel suo povero tetto educò un lauro
con lungo amore, e t'appendea corone;
e tu gli ornavi del tuo riso i canti
che il lombardo pungean Sardanapalo,
cui solo è dolce il muggito de' buoi
che dagli antri abdüani e dal Ticino
lo fan beato e di vivande.
O bella Musa, ove sei tu? Non sento
spirar indizio del tuo nume,
fra queste piante ov'io siedo e sospiro
il mio tetto materno. E tu venivi
e sorridevi a lui sotto quel tiglio
ch'or con dimesse frondi va fremendo
perché non copre, o Dea, l'urna del vecchio
cui già di calma era cortese e d'ombre.
Forse tu fra plebei tumuli guardi
vagolando, ove dorma
... vagolando, ove dorma il sacro capo
del tuo Parini? A lui non ombre pose
tra le sue mura la città, lasciva
d'evirati cantori allettatrice,
non pietra, non parola; e forse l'ossa
col mozzo capo gl'insanguina il ladro
chc lasciò sul patibolo i delitti.
Senti raspar fra le macerie e i bronchi
la derelitta cagna ramingando
su le fosse e famelica ululando;
e uscir del teschio, ove fuggia la luna,
l'úpupa, e svolazzar su per le croci
sparse per la funerêa campagna
e l'immonda accusar col luttüoso
singulto i rai di che son pie le stelle
alle obblîate sepolture. Indarno
sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade
dalla squallida notte. Ahi! su gli estinti
non sorge fiore, ove non sia d'umane
lodi onorato e d'amoroso pianto.

Dal dí che nozze e tribunali ed are
diero alle umane belve esser pietose
di se stesse e d'altrui, toglieano i vivi
all'etere maligno ed alle fere
i miserandi avanzi che Natura
con veci eterne a sensi altri destina.
Testimonianza a' fasti eran le tombe,
ed are a' figli; e uscían quindi i responsi
de' domestici Lari, e fu temuto
su la polve degli avi il giuramento:
religîon che con diversi riti
le virtú patrie e la pietà congiunta
tradussero per lungo ordine d'anni.
Non sempre i sassi sepolcrali a' templi
fean pavimento; né agl'incensi avvolto
de' cadaveri il lezzo i supplicanti
contaminò; né le città fur meste
d'effigîati scheletri: le madri
balzan ne' sonni esterrefatte, e tendono

... esterrefatte, e tendono
nude le braccia su l'amato capo
del lor caro lattante onde nol desti
il gemer lungo di persona morta
chiedente la venal prece agli eredi
dal santuario. Ma cipressi e cedri
di puri effluvi i zefiri impregnando
perenne verde protendean su per memoria perenne, e prezîosi
vasi accogliean le lagrime votive.
Rapían gli amici una favilla al Sole
a illuminar la sotterranea notte,
perché gli occhi dell'uom cercan morendo
il Sole; e tutti l'ultimo sospiro
mandano i petti alla fuggente luce.
Le fontane versando acque lustrali
amaranti educavano e vîole
su la funebre zolla; e chi sedea
a libar latte o a raccontar sue pene
ai cari estinti, una fragranza intorno
sentía qual d'aura de' beati Elisi.
Pietosa insania che fa cari gli orti
de' suburbani avelli alle britanne
vergini, dove le conduce amore
della perduta madre, ove clementi
pregaro i Geni del ritorno al prode
cne tronca fe' la trîonfata nave
del maggior pino, e si scavò la bara.
Ma ove dorme il furor d'inclite gesta
e sien ministri al vivere civile
l'opulenza e il tremore, inutil pompa
e inaugurate immagini dell'Orco
sorgon cippi e marmorei monumenti.
Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo,
decoro e mente al bello italo regno,
nelle adulate reggie ha sepoltura
già vivo, e i stemmi unica laude. A noi
morte apparecchi riposato albergo,
ove una volta la fortuna cessi
dalle vendette, e l'amistà raccolga
non di tesori eredità, ma
tranne la memoria, tutto.
Che ove speme di gloria agli animosi
intelletti rifulga ed quindi trarrem gli auspici. E a questi marmi
venne spesso Vittorio ad ispirarsi.
Irato a' patrii Numi, errava muto
ove Arno è più deserto, i campi e il cielo
desîoso mirando; e poi che nullo
vivente aspetto gli molcea la cura,
qui posava l'austero; e avea sul volto
il pallor della morte e la speranza.
Con questi grandi abita eterno: e l'ossa
fremono amor di patria. Ah sí! da quella
religîosa pace un Nume parla:
e nutria contro a' Persi in Maratona
ove Atene sacrò tombe a' suoi prodi,
la virtú greca e Il navigante
che veleggiò quel mar sotto l'Eubea,
vedea per l'ampia oscurità scintille
balenar e di cozzanti brandi,
fumar le pire igneo vapor, corrusche
ferree vedea larve guerriere
cercar la pugna; e all'orror de' notturni
silenzi si spandea lungo ne' campi
di falangi un tumulto e un suon di tube
e un incalzar di cavalli accorrenti
scalpitanti su gli elmi a' moribondi,
e pianto, ed inni, e delle Parche il canto.

Felice te che il regno ampio de' venti,
Ippolito, a' tuoi verdi anni correvi!
E se il piloto ti drizzò l'antenna
oltre l'isole egèe, fatti
certo udisti suonar i liti, e la marea mugghiar portando
alle prode retèe l'armi d'Achille
sovra l'ossa d'Ajace: a' generosi
giusta di glorie dispensiera è morte;
né senno astuto né favor di regi
all'Itaco le spoglie ardue serbava,
ché alla poppa raminga le ritolse
l'onda incitata dagl'inferni Dei.

E me che i tempi ed il desio fan per diversa gente ir fuggitivo,
me ad evocar gli eroi chiamin le Muse
del mortale pensiero animatrici.
Siedon custodi de' sepolcri, e quando
il tempo con sue fredde ale vi spazza
fin le rovine, le Pimplèe fan lieti
di lor canto i deserti, e l'armonia
vince di mille secoli il silenzio.
Ed oggi nella Troade inseminata
eterno splende a' peregrini un loco,
eterno per la Ninfa a cui fu sposo
Giove, ed a Giove diè Dàrdano figlio,
onde fur donna e Assàraco e i cinquanta
talami e il regno della giulia gente.
Però che quando Elettra udí la Parca
che lei dalle vitali aure del giorno
chiamava a' cori dell'Eliso, a Giove
mandò il voto supremo: - E se, diceva,
a te fur care le mie chiome e il viso
e le dolci vigilie, e non mi assente
premio miglior la volontà de' fati,
la morta amica almen guarda dal cielo
onde d'Elettra tua resti la fama. Così orando moriva. E ne gemea
l'Olimpio: e l'immortal capo accennando
piovea dai crini ambrosia su la Ninfa,
e fe' sacro quel corpo e la sua tomba.
Ivi posò Erittonio, e dorme il giusto
cenere d'Ilo; ivi l'iliache donne
sciogliean le chiome, indarno ahi! deprecando
dà lor mariti l'imminente fato;
ivi Cassandra, allor che il Nume in petto
le feaparlar di donna il dí mortale,
venne; e cantò carme amoroso,
e guidava i nepoti, e l'amoroso
apprendeva lamento a' giovinetti.
E dicea sospiranda: - Oh se mai d'Argo,
ove al Tidíde e di Läerte al figlio
pascerete i cavalli, a voi permetta
ritorno il cielo, invan la patria vostra
cercherete! Le mura, opra di Febo,
sotto le lor reliquie fumeranno.
Ma i Penati di donna avranno stanza
in queste tombe; ché de' Numi è dono
servar nelle miserie altero nome.
E voi, palme e cipressi che le nuore
piantan di Priamo, e crescerete ahi presto
di vedovili lagrime innaffiati,
proteggete i miei padri: e chi la scure
asterrà pio dalle devote frondi
men si dorrà di consanguinei lutti,
e santamente toccherà l'altare.
Proteggete i miei padri. Un dí vedrete
mendico un cieco errar sotto le vostre
antichissime ombre, e brancolando
penetrar negli avelli, e abbracciar e interrogarle. Gemeranno gli antri
secreti, e tutta narrerà la tomba
Ilio raso due volte e due risorto
splendidamente su le mute vie
per far più bello l'ultimo trofeo
ai fatati Pelídi. Il sacro vate,
placando quelle afflitte alme col canto,
i prenci argivi eternerà per quante
abbraccia terre il gran padre Oceàno.
E tu onore di pianti, Ettore, avrai,
ove fia santo e lagrimato il sangue
per la patria versato, e finché il Sole
risplenderà su le sciagure umane.



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Alla sera



Forse perché della fatal quiete
tu sei l'imago a me sì cara vieni
o Sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zefiri sereni,

e quando dal nevoso aere inquiete
tenebre e lunghe all'universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.

Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme

delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch'entro mi rugge.



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DELL'ORIGINE E DELL'UFFICIO DELLA LETTERATURA.

Orazione 1.

O non hai teco pensato mai che quante cose sappiamo per legge essere ottime, e dalle quali abbiamo norme alla vita, tutte le abbiamo imparate con l'aiuto della parola!
Socrate presso Senofonte. Memorab., lib. III, cap. 3.

[5] I. SOLENNE principio agli studi sogliono essere le laudi degli studi; ma furono soggetto sì frequente all'eloquenza de' professori e al profitto degl'ingegni, che il ritesserle in quest'aula parrebbe consiglio ardito ed inopportuno. Nè io, che per istituto devo oggi inaugurare tutti gli studi agli uomini dotti che li professano e ai giovani che gl'intraprendono, saprei [6] dipartirmi dalle arti che chiamansi letterarie, le sole che la natura mi comandò di coltivare con lungo e generoso amore, ma dalle quali la fortuna e la giovenile imprudenza mi distoglieano di tanto, ch'io mi confesso più devoto che avventurato loro cultore. Bensì reputai sempre che le lettere siano annesse a tutto l'umano sapere come le forme alla materia; e considerando quanto siasi trascurata o conseguita la loro applicazione, mi avvidi che, se difficile è l'acquistarle, difficilissimo è il farle fruttare utilmente. Sciagura comune a tanti altri beni e prerogative di cui la natura dotò la vita dell'uomo per consolarla della brevità, dell'inquietudine e della fatale inimicizia reciproca della nostra specie; beni e prerogative che spesso si veggono posseduti, benchè raro assai, da chi sappia ovalersene o non abusarne. Gli annali letterali e le scuole contemporanee ci porgono documenti di città e di uomini doviziosi d'ogni materia atta a giovevoli e nobili istituzioni di scienze e di lettere, ma sì poveri dell'arte di usarne, e sì incuriosi dello scopo a cui tendono, che o le lasciano immiserire con timida ed infeconda avarizia, o le profondono con disordinata prodigalità. Onde opportune a tutte le discipline, e necessario alle letterarie credo il divisamento di parlare dinanzi a voi, Reggente magnifico, Professori egregi e benemeriti delle scienze, ingenui giovani che confortate di speranze questa patria, la quale, ad onta delle [8] avverse fortune, fu sempre nudrice ed ospite delle muse, di parlare oggi dinanzi a voi tutti, gentili uditori, dell'Origine e dell'Ufficio della Letteratura.

II. Però ch'io stimo che le origini delle cose, ove si riesca a vederle, palesino a quali uffici ogni cosa fu a principio ordinata nella economia dell'universo, e quanto le vicende de' tempi e delle opinioni n'abbiano accresciuto l'uso e l'abuso. Onde sembrami necessario d'investigare nelle facoltà e ne' bisogni dell'uomo l'origine delle lettere, e di paragonare, se l'uso primitivo differisca in meglio o in peggio dagli usi posteriori, e quindi scoprire, per quanto si può, come nella applicazione delle arti letterarie s'abbia a rispondere all'intento della natura. All'intento della natura; ch'ella e non dà mai facoltà
senza bisogni, [9] nè bisogni senza facoltà, nè mezzi senza scopo; e non dissimula talvolta l'ingratitudine e i capricci degli uomini, se non se per ritrarli a pentimento, scemando loro l'utile e la voluttà nelle cose che l'orgoglio di que' miseri si arroga a correggere. E stimo inoltre che non ad altro uomo i pregi e i frutti di un'arte evidentemente appariscano, se non a chi sappia quali ne sieno i doveri, e quanto richieggasi ad adempierli virilmente, e come influiscano alla propagazione dell'universo sapere, e in che tempi e in che modi giovino alla vita civile. Allora gl'ingegni si accosteranno alle scuole non tanto con inconsiderato fervore, quanto con previdenza delle difficoltà, degli obblighi e dei [10] pericoli; allora l'ardire magnanimo sarà affidato dalla prudenza che misura le proprie forze; allora le forze non saranno consunte in pomposi esperimenti, ma dirizzate a volo determinato e sicuro; allora, o giovani, conoscerete che il guiderdone agli studi, la celebrità del nome e l'utilità della vostra patria sono connesse alla dignità ed a' progressi dell'arte da voi coltivata. Ma se di egregio profitto è il soddisfare agli uffici delle arti, l'inculcarli sarà sempre o di sommo pericolo o d'incertissimo evento; e più assai se come avviene nella letteratura, la dimenticanza e la impunità vietino che sieno riconosciuti e obbediti. E a chi tenta di rivendicarli è pur forza d'affrontare molte opinioni ed usanze santificate dal tempo, e fazioni di [11] antiche scuole e l'autorità di que' tanti che, senza essersi sdebitati degli obblighi delle lettere, si presumono illustri e sicuri perchè le posseggono.

III. Te dunque invoco, o Amore del vero! tu dinanzi all'intelletto che a te si consacra, spogli di molte ingannatrici apparenze le cose che furono, che sono e che saranno; tu animi di fiducia chi ti sente; nobiliti la voce di chi ti palesa; diradi con puro lume e perpetuo la barbarie, l'ignoranza e le superstizioni; te, senza di cui indarno vantano utilità le fatiche degli scrittori, indarno sperano eternità gli elogi dei principi ed i fasti delle nazioni, te invoco, o Amore del vero! Armami di generoso ardimento, e sgombra ad un tempo l'errore di cui le passioni [12] dell'uomo o i pregiudizi del mio secolo m'avessero preoccupato l'animo. Fa che s'alzi la mia parola libera di servitù e di speranze, ma scevra altresì di licenza, d'ira, di presunzione e d'insania di parti. La tua inspirazione, diffondendosi dalla mente mia nella mente di quanti mi ascoltano, farà sì che molti mirino più addentro e con più sicurezza ciò ch'io non potrò forse se non se veder da lontano, ed incertamente additare. Che s'io, seguendo te solo, non potrò dir cosa nuova, perchè tu se' antico e coevo della natura, la quale tu vai
sempre più disvelando al guardo mortale, mostrami almeno la più schietta delle sue forme; moltiplici forme, che, or velate d'oscurità, or cinte di splendore, sconfortano spesso ed abbagliano chi le mira.

[13] IV. OGNI uomo sa che la parola è mezzo di rappresentare il pensiero; ma pochi si accorgono che la progressione, l'abbondanza e l'economia del pensiero sono effetti della parola. E questa facoltà, di articolare la voce, applicandone i suoni agli oggetti, è ingenita in noi e contemporanea alla formazione de' sensi esterni e delle potenze mentali, e quindi anteriore alle idee acquistate da' sensi e raccolte dalla mente; onde quanto più [14] i sensi s'invigoriscono alle impressioni, e le interne potenze si esercitano a concepire, tanto gli organi della parola si vanno più distintamente snodando. Chè le passioni e le immagini nate dal sentire e dal concepire o si rimarrebbero tutte indistinte e tumultuanti, mancando di segni che nell'assenza degli oggetti reali le rappresentassero, o svanirebbero in gran parte per lasciar vive soltanto le pochissime idee connesse all'istinto della propria conservazione, ed accennabili appena dall'azione o dalla voce inarticolata. Il che si osserva negli uomini muti, i quali non conseguono nè ricchezza nè ordine di pensieri che non siano richiesti dalle supreme necessità della vita, se non quando ai segni della parola articolata riescano a supplire co' segni della parola scritta. E un segno solo della parola fa rivivere [15] l'

[15] l'immagine tramandata altre volte da' sensi e trascurata per lunga età nella mente; un segno solo eccita la memoria a ragionare d'uomini, di cose, di tempi che pareano sepolti nella notte ove tace il passato. Il cuore domanda sempre o che i suoi piaceri siano accresciuti, o che i suoi dolori siano compianti; domanda di agitarsi e di agitare, perchè sente che il moto sta nella vita e la tranquillità nella morte; e trova unico aiuto nella parola, e la riscalda de' suoi desideri, e la adorna delle sue speranze, e fa che altri tremi al suo timore e pianga alle sue lagrime, affetti tutti che senza questo sfogo proromperebbero in moti ferini e in gemito disperato. E la fantasia del mortale, irrequieto e credulo alle lusinghe di una felicità ch'ei segue [16] accostandosi di passo in passo al sepolcro, la fantasia, traendo dai secreti della memoria le larve degli oggetti, e rianimandole con le passioni del cuore, abbellisce le cose che si sono ammirate ed amate; rappresenta piaceri perduti che si sospirano, offre alla speranza e alla previdenza i beni e i mali trasparenti nell'avvenire; moltiplica ad un tempo le sembianze e le forme che la natura consente alla imitazione dell'uomo; tenta di mirare oltre il velo che ravvolge il creato; e quasi per compensare l'umano genere dei destini che lo condannano servo perpetuo ai prestigi dell'opinione ed alla clava della forza, crea
le deità del bello, del vero, del giusto, e le adora; crea le grazie, e le accarezza; elude le leggi della morte, e la interroga e interpreta [17] il suo freddo silenzio; precorre le ali del tempo e al fuggitivo attimo presente congiunge lo spazio di secoli e secoli ed aspira all'eternità; sdegna la terra, vola oltre le dighe dell'oceano, oltre le fiamme del sole, edifica regioni celesti, e vi colloca l'uomo e gli dice: "Tu passeggerai sovra le stelle: così lo illude, e gli fa obbliare che la vita fugge affannosa, e che le tenebre eterne della morte gli si addensano intorno; e lo illude sempre con l'armonia e con l'incantesimo della parola. La ragione, che, avvertita continuamente dalle alterne oscillazioni del piacere e del dolore, equilibra e dirige per mezzo del paragone e della esperienza tutte le potenze della vita ove fosse destituta della parola, non sarebbe prerogativa dell'uomo; ma, come negli [18] altri animali, ridurrebbesi all'istinto di misurare i beni e i mali imminenti con la norma delle sensazioni. Fuggono ai sensi le forme reali degli oggetti; nè si discernerebbe il vero dal falso, nè si bilancerebbe il vantaggio apparente col danno nascosto, se non si oltrepassassero l'esterne sembianze, le sole ad ogni modo che i sensi possono imprimere nella mente. Quindi la ragione al difetto d'immagini acquisite provvide co' segni della voce, inventati ne' primi bisogni dall' dall'arbitrio dell'analogia, poi migliorati dall'esperienza e sanciti dalla utilità. Così, poichè furono idoleggiate con simboli e con immagini molte serie di fatti, si desunsero le idee del dovere e del diritto; ma come raffigurarle in tanto tumulto di reminiscenze, di [19] passioni e di fantasmi annessi a quei fatti? come astraerle e preservarle se non con un segno stabile ed arrendevole alle astrazioni? e qual altro segno se non la parola? Tesoro di suoni, di colori e di combinazioni per cui l'intelletto, dopo d'avere percepite e denotate le forme sensibili delle cose, può congetturarne e concepirne le più recondite, e denominarle, e scomporle in minime parti, e considerarle in tutti i loro accidenti, e ricomporle nell'armonia che dianzi non intendeva; onde spesso ne vede le cause e talvolta lo scopo, e resta men attonito e più convinto dell'arcana ragione dell'universo: dell'incomprensibile universo, dell'esistenza di cui mancherebbe perfino la semplice idea, se, come l'uomo non può comprenderlo, così non potesse nemmeno nominarlo.

[20] V. Or questo bisogno di communicare il pensiero è inerente alla natura dell'uomo, animale essenzialmente usurpatore, essenzialmente sociale: però ch'ei tende progressivamente ad arrogarsi e quanto gli giova e quanto potrebbe giovargli; all'uso presente aggiunge l'uso futuro e perpetuo, quindi la proprietà e la disuguaglianza: nè vi poteva a principio essere proprietà perpetua di cose utili agli altri, senza usurpazione; nè progresso d'usurpazione,senza violenza ed offesa; nè difesa contro a pochi forti, senza società di molti deboli; nè lunga concordia di società, senza precisa comunicazione d'idee. E finchè l'umano genere associavasi in famiglie e in sole tribù, angusti termini somministrava la terra, angustissimi [21] il tempo alle sue conquiste e a' suoi patti, e poche articolazioni di voce bastavano all'uso della memoria. Frattanto la forza col suo mal dissimulato diritto e col perenne suo moto agl'ingegni audaci per vigore aggregava gl'ingegni timidi per debolezza, e col numero dei vinti rinforzava la possanza del vincitore; le tribù cresceano in nazioni, e si collegavano sempre più onde accertare per mezzo dello stato di società o di proprietà gli effetti dello stato di guerra e di usurpazione; e il commercio si andò propagando, e nel permutare da popolo a popolo le messi, le arti, e le ricchezze, accumulò i vizi, le virtù, gli usi, le religioni, le lingue degli uni con quelle degli altri, disingannò il timore reciproco, destò la curiosità d'ignote regioni, ed alimentò [22] così la noia e l'avidità, due vigili instigatrici del genere umano; l'una esagerando il fastidio del presente, l'altra le speranze dell'avvenire, trassero le genti dalle antiche sedi natie attraverso delle infecondità delle solitudini e delle tempeste dei mari a cercare nuovi regni, nuovi schiavi, e ad agitare con nuove stragi, con nuove superstizioni, con nuove favelle la terra. Questo urtarsi, complicarsi e diffondersi di forze, d'indoli e d'idiomi, occupando più moltitudine d'uomini, più diuturnità di fatiche, più ampio spazio di terra, e quindi più numero d'anni, moltiplicò non solo le idee e le passioni che ne risultano, ma variò all'infinito i loro aspetti e le loro combinazioni, ed aumentò [23] la progressione del loro moto, che non poteva essere più omai secondato dal suono fuggitivo della parola.

VI. Le forze parziali di una società, incorporate dagli effetti della guerra, tendeano sempre a' primi contrasti per cui non avrebbero potuto assalire le forze più concordi d'altra nazione; ogn'individuo dunque, rinunziando col fatto l'uso delle sue forze al valore del più prode o al senno de' più avveduti, videsi punito quando le ridimandò o le ritolse; quindi l'origine delle leggi: così la giustizia eresse carceri, tribunali e patiboli in mezzo ad un popolo per conservargli la forza, e quindi il diritto di combattere un altro. Ma perchè le passioni de' soggetti poteano rivendicare le loro forze dalla giustizia o [24] dall'arbitrio di chi ne usava, i pastori de' popoli, compresi anch'essi dal sentimento dell'esistenza d'una mente infinita, attiva, incomprensibile al pari dell'universo, si valsero di questo sentimento che vive in tutti, e confederandosi al cielo minacciarono di difendersi co' suoi fulmini; le menti, affascinate dal terrore di peggior male e dalla speranza di futuro compenso, s'assopirono
sul danno presente; il mistero accrebbe il silenzio, e il silenzio la venerazione; le leggi furono santificate, e deificati i legislatori; quindi dal mistero i riti. Finalmente i principi per eternare la loro fama e la loro possanza ne' lor successori, e i popoli per disanimare le altre nazioni che l'alterno moto della forza trarrebbe ad imporre o a pagare tributo, [25] vollero narrare alla posterità e alle lontane regioni le loro glorie, e l'onnipotenza de' loro numi; quindi le tradizioni. Dalle leggi, dalle religioni e dalle tradizioni progredì ogni umano sapere; chè se non pertanto continuavano a commettersi al suono delle parole, non poteano propagarsi che a poche generazioni; da che l'età rende inferma la memoria, ambigue le lingue, ed infedeli le tradizioni. Ma il vincitore, troncando con le scuri grondanti di sangue e rotolando sovra i cadaveri de' vinti i ciglioni delle montagne, lascia un monumento che attesti agli uomini che vivono e che vivranno in futuro il campo della vittoria. I cedri verdeggianti sovra le sepolture, effigiati dalla spada in simulacri d'uomo, sorgono da lontano custodi della memoria [26] d'egregi mortali; e a' tronchi corrosi dalle stagioni sottentrano ruvidi marmi, ove nel busto informe dell'eroe sono scolpite imitazioni di fiere e di piante, a ciascheduna delle quali e alle loro combinazioni sono consegnate più serie d'idee che tramandano il nome di lui, le conquiste, le leggi date alla patria, il culto istituito agli iddii, gli avvenimenti, le epoche, le sentenze e l'apoteosi che l'associò al coro de' beati: così prime are degl'immortali furono i sepolcri2. Se non che, oltre alle guerre e alle pesti che, lasciando solitudine e scheletri nelle città, distruggevano e abbandonavano alla dimenticanza que' monumenti, la [27] natura innondò parte del globo e sommerse genti e trofei; anzi ardendo le viscere della terra, e la terra fremendo orribilmente e agitandosi, vomitò fiamme e si squarciò, e i laghi ondeggiarono sulle ceneri delle foreste, e le montagne spalancarono abissi, e i fiumi precipitarono ove dianzi l'aquila ergeva il suo volo, e l'isole disparvero, e, svelti i continenti, furono cinti dalle procelle e dagl'intentati spazi del mare. Ma l'uomo restava. Dalle reliquie dei suoi monumenti desunse esempio di accrescerli e di premunirli; ed avvedutosi che la terra anch'essa era obbediente e mortale, li confidò al cielo che sembravagli eterno. [28] Pria che Teuto3 esplorasse l'ordine delle stelle, e che l'osservazione, congiuntasi per cinquanta e più secoli al calcolo, assegnasse le distanze non solo tra i pianeti del nostro emisfero, ma le forze e le perturbazioni de' loro moti, il pastore, salutando col canto l'apparire di quel pianeta bellissimo tra gli astri, [29] che segue tardo il sole all'occaso e lo precede vigile nell'oriente, avvertiva i momenti delle tenebre e della luce; l'immobilità della stella polare

guidava tra l'ombre la vela del navigante; la luna col perpetuo ricorso d'una notte più consolata dal suo lume distinse i mesi, e rinfrangendosi ne' vapori e nell'aura, presagiva le meteore maligne e propizie; e il sole, abbreviando l'oscurità che assiderava la terra, e rallegrando con raggi più liberali l'amor nei viventi e la beltà nelle cose, die' con l'equinozio di primavera i primi auspicj alle serie degli anni. Al cielo dunque, che col moto perenne dei suoi mondi dispensava il tempo alle umane fatiche e promettevalo eterno, fu raccomandata [30] la tradizione delle leggi, de' riti, delle conquiste e la fama de' primi artefici e dei principi fortunati. I pensieri del mortale, ch'ebbero dalla parola propagazione e virtù, trovandosi incerti nella memoria di lui, e caduchi nei monumenti terreni, conseguirono perpetuità nel vario splendore, nel giro diverso, negli orti e negli occasi degli astri, e nelle infinite apparenze con cui le stelle tutte quante errano ordinate e distinte nel firmamento; e la scienza dei tempi ordinò la scienza de' fatti. Assai nomi ed avvenimenti scritti nelle costellazioni, benchè trapassassero per densissima oscurità di tempi, sopravvivono forse ad imperi meno antichi, i quali, per non avere lasciato il loro nome se non sulla terra, diedero al silenzio anche il luogo delle loro rovine. Sapientemente dunque fu detto: Essere il globo celeste il libro più antico di letteratura4.

[31] VII. O quanti mi si presentano i campi fecondati da un unico germe! e come nel percorrerli ammiro i principj del creato acquistando sempre propagazione ed aspetti, nè si propagano senza tenore d'armonia che li ricongiunga, nè si trasformano senza serbare vestigi delle origini antiche! Perdono le scienze i loro calcoli per numerare con quanti anni di [32] sudore, con quanta prepotenza d'oro e di imperio, con quanta moltitudine di mortali la piramide di Ceope5 sorgesse quasi insulto all'ambizione di Cambise e d'Alessandro e dell'astutissimo Augusto, e del più ferocemente magnanimo tra i discendenti d'Otomano, e di quanti trionfarono e trionferanno l'Egitto6: i [33] Romani e l'Oriente videro ed adorarono in Grecia le sembianze immortali di Giove trasferite dall'Olimpo in terra da Fidia: Michelangiolo e Rafaele astraendo dalla commista ed inquieta materia le forme più nobili e le più venuste apparenze, ed animandole o perpetuandole nelle tele e ne' marmi, consecrarono in Italia un'ara alla bellezza celebrata dalle offerte di tutta l'Europa; e l'innalzamento delle piramidi e la divina ispirazione di Fidia e il genio delle arti belle ebbero principio da que' rudi massi, da quegl'informi simulacri, da quei disegni ineleganti de' geroglifici, che pur non tendevano se non a far permanenti i suoni della parola. Ma e la religione più solenne nel mondo e la più arcana sapienza e la più bella poesia ebbero principio [34] da questo medesimo intento. Però che il firmamento istoriato dalle memorie de' mortali, fatti abitatori degli astri, non era più omai spettacolo di muto stupore; ma, quasi sentisse gli affetti dell'uomo, ripercotea nelle menti mille immagini, le quali animate dal timore e dalla speranza popolarono di numi, di ninfe e di geni la terra. Perchè le conquiste e le colonie accomunando a' popoli le religioni, veniva ogni nume invocato in più lingue, assumeva differenti attributi, e moltiplicavasi in più deità diverse tra loro. Onde la luna, emula del sole nelle prime adorazioni degli uomini, era Astarte a' Fenici7, e Dione [35] agli Assiri8, ed Iside e Bubaste agli Egizi9; poi, di regina celeste degl'imperi, ottenne in Grecia e nel Lazio tanti nomi e riti ed altari quant'erano le umane necessità. Le vedove sedenti sul sepolcro de' figli offerivano alla luna corone di papaveri e lacrime, placandola in nome di Ecate10; a lei, chiamandola Trivia, ululavano nelle orrende evocazioni le pallide incantatrici11; a lei, chiamandola Latmia, si volgeano le preci del pellegrino notturno e del romito esploratore degli astri12; a lei gli occhi verecondi e il desiderio della vergine innamorata13; [36] a lei, che rompea col suo raggio le nuvole, fu dato il nome di Artemide14; e i primi nocchieri appendeano nel suo tempio dopo la burrasca il timone, cantandola Diana dea de' porti e delle isole mediterranee, cantandola Delia guidatrice delle vergini oceanine15; e a lei sull'ara di Dittinna votavano i i cacciatori l'arco, la preda e la gioia delle danze16; e l'inno di Pindaro la salutò Fluviale17; la seguiano le Parche, ministre dell'umana [37] vita18; la seguiano le Grazie quando scendeva dagli auspicj dei talami19; e dalle spose fu invocata Gamelia, e Ilitia dalle madri20, e Opi21, e Lucifera22, e Diana madre23, e Natura24. Videro i saggi che la tutela degl'iddii su tutti gli oggetti del creato, e la consuetudine col cielo ammansava nell'uomo la ferina indole e l'insania di guerra, e lo ritraeva all'equità de' civili istituti; onde ampliarono la religione con l'eloquenza, e la mantennero col mistero. Però le arti della divinazione e dell'allegoria [38] furono sì celebrate in tutta l'antichità, e tanti a noi tramandarono testimoni ne' poemi e negli annali e ne'25 monumenti, che da quelle arti soltanto la critica, dopo d'avere interpretato con induzioni il silenzio delle età primitive, potrà progredire con più fiducia nell'istoria letteraria de' secoli che seguirono. Imperciocchè o sia che i Babilonesi fossero dagli Etiopi iniziati negli arcani della astronomia teologica, quando l'alterno dominio d'ogni nazione sul mondo die' all'Africa di popolare l'Asia di sacerdoti e di eserciti; o sia che que' riti fossero istituzioni di Zoroastro desunte dagli Sciti o dalla magìa de' Caldei, e propagatesi poi con la possanza di Nino; o più veramente emanassero dal limpido cielo e dall'ingegno acuto degli Egizi mediterranei [39] e quindi venissero con Inaco in Grecia e con Pitagora nei templi d'Italia; certo è che le storie de' popoli i quali nobilitarono gran parte del nostro emisfero, mentre pur vanno magnificando i propri numi quasi coevi del mondo e primi benefattori del genere umano, tutte non pertanto palesano le loro città fondate da re pontefici e persuase alla umanità dagli studi de' poeti filosofi26. Da que' popoli e da quegl'istituti, per lungo ordine d'usi, d'idiomi e d'imperi, sovente degenerando e più sovente a torto accusate, le lettere si propagarono a noi.

[40] VIII. Ed ecco omai manifestato che senza la facoltà della parola le potenze mentali dell'uomo giacerebbero inerti e mortificate, ed egli, privo di mezzi di comunicazione necessari allo stato progressivo di guerra e di società, confonderebbesi con le fiere. Donde è poi risultato che non vi sarebbero società di nazioni senza forza, nè forza senza concordia, nè stabilità di concordia senza leggi convalidate della religione, nè lunga utilità di riti e di leggi senza tradizione, nè certezza di tradizione senza simboli da' quali il significato della parola impetrasse lunghissima vita. E poichè l'esperienza delle pesti, de' diluvi, de' vulcani e de' terremoti fe' che i simboli consegnati a' tumuli, a' simulacri ed a' geroglifici fossero trasferiti alle apparenze [41] degli asterismi, noi abbiamo veduta riprodursi dal cielo la religione dei grandi popoli dell'antichità, e fondarsi la teologia politica per mezzo della divinazione o dell'allegoria. Le quali arti, esercitate da' principi, da' sacerdoti e da' poeti, diedero origine all'uso e all'ufficio della letteratura.

[42] IX. QUALI sieno i principj e i fini eterni dell'universo, a noi mortali non è dato di conoscerli nè d'indagarli: ma gli effetti loro ci si palesano sempre certi, sempre continui; e se possiamo talor querelarcene, troviamo sovente nella nostra esperienza compensi di consolazione. L'umano genere turba coi timori la voluttà dell'ora che fugge, o la disprezza per le speranze che ingannano; si duole della vita, e teme di perderla, e anela di perpetuarla morendo: ondeggiamento perenne di speranze [43] e di timori, agitato ognor più dall'impeto del desiderio e dagli allettamenti della immaginazione. Così piacque alla natura che assegnò l'inquietudine alla esistenza dell'uomo, il quale aspira sempre al riposo appunto perchè non può mai conseguirlo; però, languendo le passioni, ritardasi il moto delle potenze vitali; cessato il moto, cessa la vita; ed ogni nostra tranquillità non è che preludio del supremo e perpetuo silenzio. E ben possono starsi, e stanno (purtroppo!) nei forsennati passioni senza ragione; ma la ragione senza affetti e fantasmi sarebbe facoltà inoperosa; e ogni filosofia riescirà sublime contemplazione a chi pensa, utile applicazione a chi può volgerla in pro de' mortali, ma inintelligibile e ingiusta a chi sente le [44] passioni che si vorranno correggere. Aggiungi che come non a tutti la natura fu equa dispensatrice di forze, così non gli armò con pari vigore di ragione27; e senza sì fatta disuguaglianza e cecità di giudizio, qual bene reale indurrebbe gli uomini a legarsi in società per combattersi? a insanguinarsi scambievolmente per possedere la terra abbondantissima a tutti? e qual bene più caro della pacifica libertà? Ma per decreti immutabili l'universalità de' mortali non può essere nè quieta nè libera. Incontentabile ne' desideri, cieca nei modi, dispari nelle facoltà, [45] dubbiosa sempre e le più volte sciagurata negli eventi, non potea se non eleggere il minor danno, rinunziando la guida delle sue passioni alla mente de' saggi o all'imperio del forte. Quindi il genere umano dividesi in molti servi che tanto più perdono l'arbitrio delle loro forze, quanto men sanno rivolgerle a proprio vantaggio, ed in pochi signori che fomentando co' timori e co' premi della giustizia terrena, e con le promesse e le minacce del cielo le passioni degli altri, hanno arte e potere di promuoverle a pubblica utilità.

X. Elementi dunque della società furono, sono e saranno perpetuamente il principato e la religione; e il freno non può essere [46] moderato se non dalla parola che sola svolge ed esercita i pensieri e gli affetti dell'uomo. Ma perchè quei che amministrano i frutti delle altrui passioni sono uomini anch'essi, e quindi talvolta non veggono la propria nella pubblica prosperità, la natura
(continua)

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I «Sonetti»




>Alla sera»

Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, DCD).


Forse perché della fatal quiete
tu sei l'immago a me sì cara vieni
o Sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni, 4

e quando dal nevoso aere inquiete
tenebre e lunghe all'universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni. 8

Vagar mi fai co' miei pensieri su l'orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme 11

delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirito guerrier ch'entro mi rugge. 14




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Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, DCD).


Non son chi fui; perì di noi gran parte:
questo che avanza è sol languore e pianto.
E secco è il mirto, e son le foglie sparte
del lauro, speme al giovenil mio canto. 4

Perché dal dì ch'empia licenza e Marte
vestivan me del lor sanguineo manto,
cieca è la mente e guasto il core, ed arte
la fame d'oro, arte è in me fatta, e vanto. 8

Che se pur sorge di morir consiglio,
a mia fiera ragion chiudon le porte
furor di gloria, e carità di figlio. 11

Tal di me schiavo, e d'altri, e della sorte,
conosco il meglio ed al peggior mi appiglio,
e so invocare e non darmi la morte. 14




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«Te nudrice alle Muse»

Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, DCD):

PER LA SENTENZA CAPITALE PROPOSTA NEL GRAN
CONSIGLIO CISALPINO CONTRO LA LINGUA LATINA


Te nudrice alle muse, ospite e Dea
le barbariche genti che ti han doma
nomavan tutte; e questo a noi pur fea
lieve la varia, antiqua, infame soma. 4

Ché se i tuoi vizi, e gli anni, e sorte rea
ti han morto il senno ed il valor di Roma,
in te viveva il gran dir che avvolgea
regali allori alla servil tua chioma. 8

Or ardi, Italia, al tuo Genio ancor queste
reliquie estreme di cotanto impero;
anzi il Toscano tuo parlar celeste 11

ognor più stempra nel sermon straniero,
onde, più che di tua divisa veste,
sia il vincitor di tua barbarie altero. 14


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«Perché taccia»
Metro: sonetto (ABAB, BABA, CDC, DCD).


Perché taccia il rumor di mia catena
di lagrime, di speme, e di amor vivo,
e di silenzio; ché pietà mi affrena
se di lei parlo, o di lei penso e scrivo. 4

Tu sol mi ascolti, o solitario rivo,
ove ogni notte amor seco mi mena,
qui affido il pianto e i miei danni descrivo,
qui tutta verso del dolor la piena. 8

E narro come i grandi occhi ridenti
arsero d'immortal raggio il mio core,
come la rosea bocca, e i rilucenti 11

odorati capelli, ed il candore
delle divine membra, e i cari accenti
m'insegnarono alfin pianger d'amore. 14


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«Così gl'interi giorni»


Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDE, CED).


Così gl'interi giorni in lungo incerto
sonno gemo! ma poi quando la bruna
notte gli astri nel ciel chiama e la luna,
e il freddo aer di mute ombre è coverto; 4

dove selvoso è il piano più deserto
allor lento io vagabondo, ad una ad una
palpo le piaghe onde la rea fotuna,
e amore, e il mondo hanno il mio core aperto. 8

Stanco mi appoggio or al troncon pino,
ed or prostrato ove strpitan l'onde,
con le speranze mie parlo e deliro. 11

Ma per te le mortali ire e il destino
spesso obbliando, a te, donna, io sospiro:
luce degli occhi miei chi mi t'asconde? 14



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Meritamente

Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, EDE).


Meritamente, però ch'io potei
abbandonarti, or grido alle frementi
onde che batton l'alpi, e i pianti miei
sperdono sordi del Tirreno i venti. 4

Sperai, poiché mi han tratto uomini e Dei
in lungo esilio fra spergiure genti
dal bel paese ove meni sì rei,
me sospirando, i tuoi giorni fiorenti, 8

sperai che il tempo, e i duri casi, e queste
rupi ch'io varco anelando, e

le eterne
ov'io qual fiera dormo atre foreste, 11

sarien ristoro al mio cor sanguinente;
ahi vota speme! Amor fra l'ombre e inferne
seguirammi immortale, onnipotente. 14



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-«Solcata ho fronte»

Metro: sonetto (ABAB, BABA, CDE, CED).


Solcata ho la fronte, occhi incavati intenti,
crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto,
labbro tumido acceso, e tersi denti,
capo chino, bel collo, e largo petto; 4

giuste membra; vestir semplice eletto;
ratti i passi, i pensier, gli atti, gli accenti;
sobrio, umano, leal, prodigo, schietto;
avverso al mondo, avversi a me gli eventi: 8

talor di lingua, e spesso di man prode;
mesto i più giorni e solo, ognor pensoso,
pronto, iracondo, inquieto, tenace: 11

di vizi ricco e di virtù, do lode
alla ragion, ma corro ove al cor piace:
morte sol mi darà fama e riposo. 14



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«E tu ne' carmi avrai perenne vita»

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE).


E tu ne' carmi avrai perenne vita
sponda che Arno saluta in suo cammino
partendo la città che dal latino
nome accogliea finor l'ombra fuggita. 4

Già dal tuo ponte all'onda impaurita
il papale furore e il ghibellino
mescean gran sangue, ove oggi al pellegrino
del fero vato la magion si addita. 8

Per me cara, felice, inclita riva
ove sovente i pie' leggiadri mosse
colei che vera al portamento Diva 11

in me vologeva sue luci beate,
mentr'io sentia dai crin d'oro commosse
spirar ambrosia l'aure innamorate. 14



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«A Zacinto»

Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDE, CED).

Da notare come le parole-rima delle quartine, tra di
suggestiva congruenza semantica, si ripercuotano variamente
in rime interne e assonanze nei primi undici versi.


Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell'onde
del greco mar da cui vergine nacque 4

Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l'inclito verso di colui che l'acque 8

cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse. 11

Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura. 14



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«In morte del fratello Giovanni»
Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, DCD).


Un dì, s'io non andrò sempre fuggendo
di gente in gente, me vedrai seduto
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
il fior de' tuoi gentil anni caduto. 4

La Madre or sol suo dì tardo traendo
parla di me col tuo cenere muto,
ma io deluse a voi le palme tendo
e sol da lunge i miei tetti saluto. 8

Sento gli avversi numi, e le secrete
cure che al viver tuo furon tempesta,
e prego nel tuo porto quiete. 11

Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, almen le ossa rendete
allora al petto della madre mesta. 14



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Alla musa

Metro: sonetto (ABBA, ABAB, CDE, CDE).


Pur tu copia versavi alma di canto
su le mie labbra un tempo, Aonia Diva,
quando de' miei fiorenti anni fuggiva
la stagion prima, e dietro erale intanto 4

questa, che meco per la via del pianto
scende di Lete ver la muta riva:
non udito or t'invoco; ohimè! soltanto
una favilla del tuo spirto è viva. 8

E tu fuggisti in compagnia o Dea! tu pur mi lasci alle pensose
membranze, e del futuro al timor cieco. 11

Però mi accorgo, e mel ridice amore,
che mal ponno sfogar rade, operose
rime il dolor che deve albergar meco. 14



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<Che stai?»

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE).


Che stai? già il secol l'orma ultima lascia;
dove del tempo son le leggi rotte
precipita, portando entro la notte
quattro tuoi lustri, e obblio freddo li fascia. 4

Che se vita è l'error, e l'ambascia,
troppo hai del viver tuo l'ore prodotte;
or meglio vivi, e con fatiche dotte
a chi diratti antico esempi lascia. 8

Figlio infelice, e disperato amante,
e senza patria, a tutti aspro e a te stesso,
giovine d'anni e rugoso in sembiante, 11

che stai? breve è la vita, e lunga è l'arte;
a chi altamente oprar non è concesso
fama tentino almen libere carte. 14



fonte:http://www.logospoetry.org/pls/wordtc/poesis.


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Il sole non ti serve per vedere perchè tu luce sei in mezzo al buio...(Lucia Di Iulio)

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