Omelie di Monsignor Riboldi - Anno Liturgico 2005/2006

Omelie di Monsignor Antonio Riboldi e altri commenti alla Parola, a cura di miriam bolfissimo
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Omelie di Monsignor Riboldi - Anno Liturgico 2005/2006

Messaggio da Redazione » gio gen 05, 2006 12:55 pm

In questo titolo metteremo le omelide di Monsignor Riboldi vescovo di Acerra.

Prima pero' vi presentiamo Monsignor Riboldi.

In questa foto lo vediamo vicino a Papa Giovanni Paolo II°
Immagine

DIO benedica questa nostra "navigazione" facendoci giungere ad un porto sicuro
Quando Gesù incontrava i Suoi, li salutava con una parola che è densa di contenuti: ossia "pace a voi". E’ la stessa cosa che dire: "Dio vi vuol bene". Ed è una bella notizia, la bella notizia per tutti.
Lo stesso saluto lo rivolgo a tutti quanti "navigano " in Internet.
Perché ho deciso anch’io Vescovo, di cercare un "sito" in Internet. Da quello che so, Internet è come "la grande piazza della città del mondo" dove è possibile incontrarci, parlarci, ascoltarci, da amici, che vogliono forse respirare una boccata di bontà nella verità.
Se così è, questa "piazza", può essere il luogo dove un Vescovo può trovare un posto anche lui per ascoltare le gioie, le speranze, le angosce e le sofferenze dell’uomo di oggi. E offrire la propria condivisione.
Dopo la Sua Resurrezione Gesù, apparendo ai Suoi che si erano riuniti nel Cenacolo, forse per paura, o per l’incertezza del loro domani, li salutò con il Suo saluto "Pace a voi" e subito come "a passare la mano nella grande opera di salvezza", li investe di un mandato che arriva fino a noi nella Chiesa: "Come il Padre ha mandato Me, così io mando voi".
Può essere un modo di assolvere questo mandato, come Vescovo, entrare in Internet. Un modo, ripeto, di farsi vicino alla gente.
Per quanti di voi non mi conoscono, mi presento: sono nato in Brianza (MI). Entrato nella Congregazione dei Padri Rosminiani. Nel 1958 sono stato inviato dalla Congregazione in una Parrocchia, della Valle del Belice, Santa Ninfa (TP). Lì nel 1968 tutta la vasta zona fu distrutta dal famoso terremoto che lasciò i segni del dolore umano e della grande ingiustizia degli uomini e della mafia: una ingiustizia che l’On.le Pertini, allora Presidente della Camera definì "vergogna d’Italia". E fu duro essere come parroco "voce di chi non aveva voce", anche perché la mafia, la corruzione, non hanno orecchi per sentire chi non ha voce.
Ebbi la fortuna di avere a fianco in questa lotta per la povera gente, uomini come il Gen.le Dalla Chiesa, l’On.le Piersanti Mattarella, l’On.le Pio La Torre e il dott. Chinnici: amici tutti trucidati dalla mafia.
Nel 1978 Sua Santità Paolo VI mi chiamò ad essere Vescovo di Acerra: altro territorio con molti problemi, dalla camorra alla endemica disoccupazione. E come "buon pastore nel nome e per conto di Cristo" dovetti ancora una volta affrontare la criminalità organizzata, la camorra e guidare i passi di una comunità ferita verso la riconquista della propria libertà e del proprio orgoglio di uomini.
In questo cammino ho davvero "incontrato tanta gente" , il più delle volte in cerca di compagnia, di amicizia, di conforto, di speranza, in un mondo che oggi ci ha come scippato del senso della vita e dei suoi valori fondamentali.
Ho imparato che la gente desidera trovare l’amico cui partecipare le proprie ansie, senza essere giudicato, ma solo ascoltato.
Per questo ho deciso di occupare "un sito" nella immensa piazza di Internet, con l’augurio di incontrare tanti amici e creare amicizia.
Internet sarà l’occasione, volta per volta, per raccontare una cronaca mia: per commentare i fatti del nostro mondo: per aiutare chi vuole a cercare con me le impronte di Dio che sono luce e senso della vita.
Per ora un saluto grande a tutti. A ciascuno dico: "sono qui con te".
E Dio benedica questa nostra "navigazione" facendoci giungere ad un porto sicuro.

Antonio Riboldi Vescovo

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Omelia del giorno 6 Gennaio 2006 Epifania del Signore

Messaggio da Redazione » gio gen 05, 2006 12:58 pm

-----Messaggio originale-----
Da: Mons. Antonio Riboldi [mailto:riboldi@tin.it]
Inviato: giovedì 5 gennaio 2006 1.09
A: scrivi@cepostaperme.it
Oggetto: Omelia del giorno 6 Gennaio 2006

Epifania del Signore

La vedi la tua stella?

E’ davvero una grande solennità l’Epifania, per noi sopratutto che non apparteniamo al popolo eletto. Si riteneva che il Messia, ossia Dio, avrebbe ristretto il suo amore solo ad una piccola porzione di umanità
che si era scelto e con cui aveva raccontato e preparato il suo amore per tutto il Vecchio Testamento...fino a che venne il gran giorno che Dio scese tra di noi, come a ridonare quel paradiso rifiutato e quindi farci figli davvero e per sempre.

Dovrebbe essere, e per tanti lo è, la grande festa di vedersi spalancate le porte del cielo. La grande festa in cui Dio ci invita ad andare a Lui, come fece con i Magi, guidati da una stella.

Così esprime la sua gioia il profeta Isaia: “Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla su di te. Poiché, ecco le tenebre ricoprono la terra; nebbia fitta avvolge le nazioni, ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te. Cammineranno i popoli alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere” (Is 60, 1-6).

Vi è il racconto stupendo dell’evangelista Matteo sulla ricerca che i Magi, partendo dall’oriente, fanno di Qualcuno che sentivano essere davvero il “solo che conta sulla terra e nella vita”, pur non sapendo chi fosse. Certamente deve essere stato lo Spirito di Dio a suggerire a quegli uomini onesti, apertissimi alla ricerca dell’Altissimo, che non conoscevano, di muoverai da tanto lontano. Suscita profonda commozione quel loro fare un lungo cammino , con una certezza che avrebbero trovato, non sapevano dove, quello che loro chiamavano “Re dei Giudei” ed erano venuti ad adorarLo. Vorremmo avere tutti il cuore aperto alla fede che avevano i Magi, questi che avrebbero rappresentato tutti i popoli della terra, di qualunque nazione o razza. Non sapevano che quel desiderio, che avevano nel cuore, era la “grande chiamata del Padre a tornare a casa, perché Lui voleva tornare ad essere pienamente Padre”. Per tutti.

Avevano come guida una stella, che era come la “mano divina invisibile”, che li conduceva sicuri a Betlemme. Una stella che scompare quando i Magi cercano Gesù nella città degli uomini, dove non si voleva altro re che l’uomo della terra, l’impossibile e pericoloso re. E, riprendendo il cammino, arrivano a Betlemme. “La stella che avevano visto nel suo sorgere e che si era come eclissata in Gerusalemme, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il Bambino. Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia. Entrati nella casa, videro il Bambino con Maria sua madre e prostratisi lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono: oro, incenso e mirra”. Dio si era così non solo manifestato, ma si donava a tutti noi, e ci chiamava tutti a fare parte del suo amore. L’uomo così, senza eccezione, tornava ad essere quello che era prima del peccato originale.

Da allora Dio “chiama tutti”, perché ognuno si metta in cammino, come i Magi, per trovarLo. Lui si fa trovare sempre. Lo sanno quanti l’hanno cercato di vero cuore e Lo cercano. Come quei Magi erano certi che trovare Gesù era come trovare “il tesoro nascosto” evangelico, tutti, ma proprio tutti, siamo invitati. Ma abbiamo “la passione” dei Magi, che ongono come primo interesse della loro vita trovare Gesù, affrontando un cammino lungo, faticoso? “Ne vale la pena?”, dicono tanti. Ed allora, ignorando l’amore e la chiamata del Padre, affrontano altre strade, per raggiungere altri “re”, che sono il benessere, la gloria, il potere, ogni soddisfazione...che alla fine lasciano il disgusto, perché nulla e nessuno può prendere il posto di Dio nella vita. Ed è un “morire dentro”, a volte, quando, dopo tante fatiche, ci si accorge che tutto è davvero nulla.

Il cuore di noi uomini non e fatto per coltivare “sogni di mondi”, ma per camminare verso la sola luce, che è Dio. Inutile dirci bugie dannose: sarebbe come nascondere la testa sotto la terra, come fanno gli struzzi. Questa è la verità per tutti. Come non c’è proprio nulla che sia capace di donare tanta gioia immensa, come sa darla l’amore di Dio che si fa trovare a chi lo cerca…

E’ vero, abbiamo bisogno tutti di una stella che ci faccia strada: la stella della fede; la stella della passione di cercare Dio nella sua Parola; la stella di andare oltre l’oscurità del mondo; la stella che ci fa osare l’incredibile. Ma la verità è che è Dio che alla fine si manifesta.

“Ho lavorato una vita come un dannato, mi diceva un signore che aveva curato solo i suoi interessi, per crearsi un benessere. Non ho conosciuto sosta. Non ho gustato né famiglia, né amicizia. Ho cercato solo benessere e ora mi trovo stanco, solo, svuotato di tutto, senza un perché, come avessi gettato via il bello della vita. Hanno ragione quelle persone che invece hanno dato tempo per coltivare l’amore, l’onestà, la famiglia, la fede. Ora sono felici”.
E piangeva disperatamente come chi si trova davanti ad un fallimento dei sogni. Non ci rimane allora che guardare dentro il cielo dell’anima, dove sicuramente Dio fa brillare la sua stella che ci guida: e seguirla.
Dio ci attende nella semplicità dell’amore immenso, che è nella povertà della grotta.
Vorrei “cantare” con Paolo VI la gioia della Epifania: “A Cristo, il giorno dell’Epifania, con l’anima assorta, nel suo duplice, immenso significato di manifestazione di Dio e di vocazione dei popoli alla fede, noi esprimiamo l’umile, trepidante ma piena e gaudiosa professione della nostra fede, delle nostre speranze, e del nostro amore. Noi ripetiamo a Lui, come nostra, la confessione di Pietro: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Noi gli diciamo ancora come Pietro: Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna. Facciamo nostra l’esclamazione piena di rimorso ma anche piena di sincerità, di Pietro: Signore Tu sai ogni cosa. Tu sai che noi ti amiamo.
A Lui, come un giorno i Magi, portiamo doni simbolici per riconoscere in Lui il Verbo di Dio fatto carne, in Lui, l’uomo Figlio di Maria la Vergine santissima, in Lui nostro fratello, primogenito della umanità, in Lui il Messia, il Cristo, il Mediatore, unico e indispensabile fra Dio e l’uomo, il Sacerdote, il Maestro, il Re, Colui che era e che è” (6 Gennaio 1964).

E, stando davanti al tabernacolo, ho pensato a tutti voi, nessuno escluso, come compagni di viaggio verso Betlemme, in cerca del “Re dei Giudei”, guidati dalla nostra stella, senza mai perderci ...e se qualcuno ha difficoltà, pronti a dargli una mano...Ma tutti insieme verso la Grotta.

Antonio Riboldi – Vescovo –
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Omelia del giorno 8 Gennaio 2006

Messaggio da Redazione » sab gen 07, 2006 7:36 pm

-----Messaggio originale-----
Da: Mons. Antonio Riboldi - Vescovo - [mailto:riboldi@tin.it]
Inviato: sabato 7 gennaio 2006 16.37
A: scrivi@cepostaperme.it
Oggetto: Omelia del giorno 8 Gennaio 2006


Omelia del giorno 8 Gennaio 2006

Battesimo del Signore (Anno B) Il nostro natale, nel Battesimo


La Chiesa chiude il periodo festoso del Natale con il Battesimo di Gesù nel Giordano, per opera di Giovanni Battista. Lascia alle spalle i 30 anni di silenzio a Nazareth, e subito lo presenta a noi con un gesto che è come l’inizio del suo cammino di redenzione per noi, ossia il Battesimo nel Giordano.

Così lo racconta Matteo: “In quel tempo Giovanni predicava: Dopo di me viene uno che è più forte di me e al quale io non sono degno di chinarmi per sciogliere i legacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzati con acqua, ma egli vi battezzerà con lo Spirito Santo. In quei giorni Gesù venne da Nazareth di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E, uscendo dall’acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba. E si sentì una voce dal cielo: Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto” (Mt 1,7-11).

Il battesimo di Giovanni era un immergersi totalmente nel Giordano, come a morire al peccato ed uscirne senza macchia di peccato. Non era come il nostro.

Gesù, con il suo battesimo, certamente volle caricarsi di tutti i peccati del mondo, a iniziare da quello originale, e toglierli tutti, per restituirci come figli che, con il peccato di Eva, si erano condannati a non avere più Padre.

Non ho alcun dubbio nell’affermare che il giorno del nostro Battesimo è il giorno più bello e grande della nostra vita. E lì veramente le nostre sorti cambiano: da rifiutati a riabbracciati da Dio. E la nostra vita da quel giorno non è più una vita da “uomini senza senso o speranza”, ma di uomini che, se vogliono, possono scalare la difficile, ma meravigliosa vetta del Cielo. Il Battesimo dovrebbe cambiare totalmente rotta al nostro modo di interpretare l’esistenza: non una rotta da sbandati, figli di nessuno, ma una rotta, anche se difficile, verso la casa del Padre.

Così il profeta Isaia interpreta questa meravigliosa vita in Cristo, da battezzati, ossia da uomini nuovi: “Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano: ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi, e faccia uscire i prigionieri dal carcere, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre” (Is 42,6-7).

Oggi forse quella forma del battesimo di Giovanni si è persa nelle tre gocce d’acqua che si versano sul capo del battezzando. Non è più quell’immergersi totalmente, come a morire ad un passato, che non deve esserci più, per riemergere come “creature nuove ad una vita nuova”. E l’aggettivo che dovrebbe essere usato per definire il battezzato è “santo e immacolato”: ossia uno che vive Cristo, vive di e per Dio, seguendo le orme e la parola di Gesù.

Così commentava Paolo VI il battesimo: “Teniamo bene presente questo fatto. Là, al Battesimo, noi abbiamo incontrato Cristo. Incontro sacramentale e vitale, rigeneratore. Fu il nostro vero Natale. Ora, attenzione!, che cosa comporta un tale incontro con Cristo? Ancora il Vangelo ci insegna, comporta seguire Cristo! Comporta uno stile di vita, comporta un impegno inscindibile, comporta una fortuna inestimabile. Qui c’è tutto. Qui la coerenza della nostra vita, qui la fedeltà alla nostra professione religiosa, qui il genio della nostra arte di essere in questo mondo, qui l’obbligo della nostra testimonianza orale, qui la nostra capacità a consumare virtù, qui l’ultimo conforto in ogni terreno travaglio, qui l’urgenza della nostra carità missionaria e sociale” (16.2.1974). In altre parole è vivere sempre a misura del Battesimo, ossia di figli di Dio. Ma è così? E’ grande amarezza vedere che del vivere così, da figli di Dio, c’è poca testimonianza. Pare che il metro su cui conformare le scelte, anche se immorali, sia quello del mondo, che è esattamente il contrario del Battesimo. Come, anche se abbiamo ricevuto il battesimo, anche se ci siamo immersi nel Giordano, non avere abbandonato nelle acque l’uomo “vecchio”, per rivestirci del “nuovo”, ma essere riemersi come eravamo.

C’è oggi una strana atmosfera: da una parte tutti si definiscono cristiani…senza chiedersi quale responsabilità questa qualifica comporti. Non è davvero un gioco di parole da usare per nostro uso e consumo…tranne poi ad avere comportamenti che nulla hanno di cristiano, anzi sono “contro Cristo”. Senza poi contare che, nella vita pubblica, oggi, o si ha timore di mostrarsi per quello che si è veramente, “figli di Dio irreprensibili, santi”, o si è indesiderati se si vuole offrire il proprio impegno, ma da cristiani veri. Abbiamo bisogno ogni giorno, quando, iniziando la giornata, facciamo il segno della Croce, di ricordarci ciò che siamo divenuti nel Battesimo e difendere con la nostra condotta quella “veste bianca” che Dio ci ha indossato allora. Sapessimo il grande valore del Battesimo!

Mamma, mi raccontava, aveva l’abitudine di fare battezzare i figli il giorno dopo la nascita perché diceva: “Sono felice che sia mio figlio, ma più felice che sia figlio di Dio. Io sono povera e passo. Dio è immensamente grande e non passa”. Così, essendo io nato il 16 gennaio, volle, nonostante ci fosse la neve, che venissi portato subito in Chiesa per essere battezzato. Era la grande festa della vita.

Proviamo, carissimi miei amici, oggi, festa del Battesimo di Gesù, a ricordarci del giorno in cui siamo stati anche noi battezzati ed abbiamo il coraggio di rivestirci della veste bianca, con una vita da cristiani nei fatti e non nelle sole parole.

E ringraziamo di cuore Dio che è tornato a essere nostre Padre e diciamoGli: “Grazie Padre! Aiutami nelle difficoltà e fa che non ti rinneghi mai!”

Con Madre Teresa prego:

Caro Dio,

Fa che la gioia che è frutto dello Spirito Santo e un segno caratteristico del Regno di Dio, discenda in questo giorno su di noi. Poiché a Betlemme gli angeli dissero “Gioia”, e Cristo condivise la sua gioia con gli apostoli dicendo: “La mia gioia sia con voi!”; perché il termine gioia era la parola d’ordine dei primi Cristiani e S. Paolo spesso ripete: “Rallegratevi nel Signore, sempre”; perché nel Battesimo il sacerdote dice al novello battezzato: “Che tu possa servire la Chiesa con gioia”.

Fa che siamo mandati dalla gioia, espressa nella Eucarestia, e che essa si diffonda fra tutti coloro che vivono con noi”.



Antonio Riboldi – Vescovo –

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Omelia del giorno 15 Gennaio 2006

Messaggio da Redazione » gio gen 12, 2006 8:11 pm

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Da: Mons. Antonio Riboldi - Vescovo - [mailto:riboldi@tin.it]
Inviato: giovedì 12 gennaio 2006 0.09
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Oggetto: Omelia del giorno 15 Gennaio 2006


II Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

Maestro dove abiti?


Un giorno stando in piazza S. Pietro, una persona vicino mi disse: “ Mi piacerebbe vedere dove abita il Santo Padre; come vive la sua giornata, cosa fa, insomma la sua vita è come la nostra?”
Era forse la curiosità solita di entrare nella vita di uno che si ritiene grande: e Giovanni Paolo II era “il grande”. Più volte ebbi il dono, nelle visite ad limina, che noi vescovi facciamo ogni cinque anni, di “vedere”
dove abitava, mangiare con lui e quello che era più significativo celebrare la S. Messa nella sua cappella.
E’ sempre stato un “vedere la vita” di chi noi consideriamo grandi, come una vita da “sogno”, che poco hanno con la nostra normalità. E questo desiderio di entrare nella vita dei “grandi”, viene ampiamente sfruttato dai mass-media, che sono disposti a volte a fare capriole per sfamare la curiosità della gente: a volte facendo un romanzo di ciò che vedono, a volte divinizzando ciò che invece è banale; a volte anche inventando,per accontentare la nostra fantasia, a caccia di vita da sogni. Vennero una volta anche da me, con tanto di fotografi, pronti a catturare ciò che facevo, dove stavo, come vivevo: volevano
raccontare: “un giorno con il vescovo” e se ne andarono dicendo: “Tutto qui?” per la semplicità, direi la ferialità che videro.
Li avevo scoraggiati dicendo che vi era nulla di straordinario nella mia vita che meritasse di essere raccontato. Era la vita di uno qualsiasi, che non offriva fra l’altro di essere ricamata di bardature impossibili.
Più seria, invece, la domanda rivolta una sera, in un meraviglioso convegno alla Santa Madre Teresa, la vera effigie della semplicità o ancora meglio della umiltà e povertà, che aveva il solo splendore della carità. Era quella umiltà e fede che fa veramente grande il cristiano, chiunque sia. La domanda era: “Mi piacerebbe tanto, Madre, venire a stare con lei. Deve essere fantastico”. Ricordo lo sguardo dolcissimo di Madre Teresa, che era al mio fianco e, guardando fisso negli occhi, con quel suo sguardo che era davvero un canto di dolcezza, e che esprimeva lo stupore della domanda rivoltale, disse: “Il bello della mia vita è stare con Gesù, ma la sua è un’amicizia difficilissima, anche se è la più desiderabile.
Da chi infatti si può, e meglio, essere amati che da Dio? E già gran dono sapere di essere state chiamate a entrare nella sua particolare amicizia. Che poi questa amicizia sia davvero “fantastica”, come pensate voi, proprio non posso dirlo. Non è un mondo di sogni. Questo di un mondo da sogni è un bugiardo linguaggio del mondo che non sa come sia la meraviglia del “mondo di Dio”, che è il Cielo. La verità è che il “fantastico di Dio” è la croce su cui ci si consuma giorno per giorno: lo spettacolo più bello che l’amore di Dio abbia allestito, che quanti seguono Gesù conoscono, ma il mondo chiama follia. Ci stai a venire ora con me?”.
Stranamente la ragazza che aveva interpellato Madre Teresa, non lasciò spegnere la luce che si era accesa nel cuore e mentre scrivo so che quella ragazza vive “tra gli stracci” di Madre Teresa, in qualche lebbrosario del mondo, a raccontare con la vita la bellezza dell’amore...anche se è una vita da croce e non da sogni.
Ma ci vuole la generosità dell’anima: come quella che ci racconta oggi la Scrittura di Samuele.
“Samuele era coricato nel tempio del Signore; dove si trovava l’arca. Allora il Signore chiamò: Samuele!
E Samuele rispose: Eccomi! Poi corse da Elia e gli
disse: Mi hai chiamato, eccomi! Elia rispose: Non ti ho
chiamato: ora torna a dormire. E così per altre volte Samuele ripeteva “Eccomi!”. Venne il Signore finalmente e stette di nuovo accanto a lui e lo chiamò ancora come le altre volte: Samuele, Samuele!
Samuele rispose: Parla, o Signore, perché il tuo servo ti ascolta” (I Sam 3,10-19).
Il Vangelo con semplicità racconta il primo incontro con quelli che poi diverranno i suoi intimi amici e quindi apostoli.
“Il giorno dopo, racconta Giovanni Evangelista, Giovanni stava ancora là con due discepoli e fissando lo sguardo su Gesù che passava disse: Ecco l’agnello di Dio! E i due discepoli, sentendolo parlare così, lo seguirono. Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, disse: Che cercate? Gli risposero:
Rabbì (che significa maestro), dove abiti? Disse loro:
Venite e vedrete! Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui: erano circa le quattro del pomeriggio” (Gv 1,35-42).
Cosa avevano trovato di straordinario? Cosa avranno visto? Certamente nulla di quanto la fantasia in cerca di “cose favolose” immagina. Sappiamo che Gesù non aveva nulla di attraente e che desse sicurezza attorno a sé, tranne la sua divina, incredibile Persona, che forse tutti vorremmo incontrare e seguire. Abitava certamente nei luoghi più disparati; a volte nel deserto, a volte presso amici, il più delle volte a cielo aperto. La sua era una vita “povera”, nel senso pieno della parola, dove dominava la libertà da tutto per vivere il tutto che era la volontà del Padre.
Ma, stranamente, accanto a lui i discepoli trovarono la bellezza della vita...come la trovava Madre Teresa sui marciapiedi di Calcutta a raccogliere gente senza più traccia di uomo o donna, nascosto da una miseria inimmaginabile,ma in cui, con la fede, si poteva vedere chiarissimo il volto di Cristo.
Veramente per i Santi, e non solo quelli degli altari, ma quelli della vita comune che vivono tra di noi, Gesù è “tutto”.
Una delle preghiere più belle dei nostri Padri
era: “Mostraci il tuo volto, Signore!” E . Mosè così
pregava: “Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, fammi vedere il tuo volto.”
I discepoli che chiesero a Gesù di mostrare loro dove abitava, devono essere stati affascinati non da dove abitava, che poteva essere un prato o un rifugio abbandonato, ma da quel Volto, da cui non si poteva staccare l’occhio.
Tanto è vero che, racconta sempre Giovanni, “uno dei discepoli che avevano udito la parola di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro.
Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse:
Abbiamo trovato il Messia ( che significa il Cristo) e lo condusse da Gesù.
Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: “Tu sei Simone, il figlio di Giovanni, ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)” (Gv 1,40-42).
E’ incredibile, ma vero, come chi ha la grazia di vedere Cristo, magari nella meravigliosa fede dei “santi di oggi”, senta anche lui la voglia di chiedere “dove abiti?”. E’ la storia di tante vocazioni comuni o di vita consacrata.
Prima di Natale ebbi la gioia di stare due giorni con tanti giovani alla Verna, in preparazione al S. Natale.
Già la Verna, per chi la conosce, sembra rispondere a “dove abita Cristo”. Per due giorni quei giovani si lasciarono condurre per mano dalla bellezza del volto di Gesù. Non si stancavano di ascoltare, più ancora di mettere sottosopra la loro vita per trovare quel tesoro che era nascosto proprio nel loro campo e forse sotterrato dalle tante gramigne del mondo e, trovatolo, lasciarsi affascinare: un tesoro che era “vedere Gesù”.
Trattenevano quasi il respiro nella adorazione al SS.mo Sacramento, nel luogo più celebre della Verna, ossia nella Chiesa dove S. Francesco ricevette le stimmate. Sembrava volessero, con il loro silenzio, almeno provare il grande amore e la grande gioia di Francesco verso Gesù, fino a condividere “qualcosa, le stimmate” con Lui. Ed ancora più, alle ore 21, vollero celebrare la veglia penitenziale, nella grande basilica. Impossibile descrivere il clima di desiderio di “andare a vedere dove abita Gesù”, quella notte:
svestendosi dalle stupide abitudini del tempo per lasciarsi vestire delle vesti divine della santità.
Avevano coscienza dell’eroismo che chiedeva una scelta simile, perché sapevano che oggi la società non ama vedere cristiani dalla schiena diritta, testimoni di fede autentica, “ama” solo i pagliacci senza dignità, magari con il nome di “cristiano”.
Sapevano che a volte essere cristiano, come afferma spesso il Santo Padre, non è facile nella società che non vuole ostacoli alle tragiche sue bugie della vita.
Ma sembrava non avessero paura. Una veglia che non voleva finire mai, come si volesse “stare ed abitare con Gesù” lì, al luogo delle stimmate. Quando si dice che i giovani sanno essere il meraviglioso possibile futuro, non solo della Chiesa ma del mondo, si dice una stupenda verità.
“Se Francesco, mi disse uno, chiese a Gesù di farlo partecipe del suo amore e del suo dolore con le stimmate, dolorosissime, perché io debbo avere paura delle piccole punture della fede?”
Era un poco quello che un giorno una stupenda giovane, mi scriveva dall’eremo dove ora vive, dopo essersi data, chiamata, tutta a Gesù, per stare sempre e solo con Lui, e quindi farsi dono a noi. “Dopo che l’Amen è stato pronunciato nella professione religiosa, l’ora che inizia la vita monastica, mi rimane l’Alleluja. La Chiesa ha ratificato la mia consacrazione, la comunità che Dio ha scelto per me mi ha accolto, l’Onnipotente si è fatto mio tutto. E’ un mistero incredibile. La gioia e la riconoscenza sono profonde e incontenibili. Però è un Signore crocifisso ed io sono cosciente della mia debolezza perché per essere degna del suo amore dovrò ogni giorno salire sulla sua croce. Ma è sempre Alleluja!”
Non ci viene la voglia di gustare quello stare con Gesù, forse stanchi dello stare con un mondo che offre chiasso e disgusto? Prego sia per tutti questa
nostalgia: “ Signore, dove abiti?” “Venite e vedete”.


Tanti mi chiedono notizie del piccolo libro edito da “Messaggero di S. Antonio” intitolato “Gli scugnizzi di don Antonio”, fra l’altro presentato dalla TV italiana, una domenica, nella trasmissione “A tua immagine”.
In un mondo dove i bambini non sono amati, ho voluto raccontare piccole storie vere con i bambini difficili che ho incontrato. Storie di vita, con amore. Si può facilmente trovare o nelle librerie cattoliche o direttamente a “Messaggero S. Antonio - Casa editrice – Padova”

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Omelia del giorno 22 Gennaio 2006

Messaggio da Redazione » ven gen 20, 2006 12:26 pm

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III Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

Il tempo è compiuto, convertitevi


La Parola di Dio, ci prende per mano per farci riflettere, con dolcezza e fermezza. Vi era un tempo una città chiamata Ninive, città che si era abbandonata ad ogni vizio, “perversa” la chiama la Bibbia.
“Fu rivolta a Giona questa parola del Signore - e sappiamo che Giona in un primo tempo non ne voleva sapere - Và a Ninive, la grande città, e annunzia loro quanto dirò. Giona si alzò e andò a Ninive secondo la parola del Signore. Ninive era una città molto grande, di tre giornate di cammino. Giona cominciò a percorrere la città per un giorno di cammino e
predicava: Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta. I cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, dal più grande al più piccolo. Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si impietosì riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece” (Giona 3).
E sulle tracce quasi di Ninive, così Marco racconta l’ingresso di Gesù nella sua vita pubblica: “Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea, predicando il Vangelo di Dio e diceva: Il tempo è
compiuto: il regno di Dio è vicino: convertitevi e credete al Vangelo”.
Dal peccato di Adamo e di Eva, peccato di superbia, che suggerisce all’uomo di gestire lui la sua vita a sua immagine, l’umanità ha conosciuto davvero sbandamenti morali che la portarono più volte alla rovina totale.
Se uno sfoglia i libri di storia, questi ci raccontano guerre e solo guerre, come se la pace fosse una invocazione, contraddetta però dalla condotta. Tutti abbiamo sempre. davanti il male che passa sotto i nostri occhi ogni giorno, tanto che è facile sentire “ma davvero abbiamo toccato il fondo!”.
Non stiamo costruendo con le nostre le mani “cieli nuovi e terra nuova”, secondo S. Paolo, ma la distruzione di tutto.
“Mi guardo attorno, confessava una persona, e difficilmente incontro qualcosa o qualcuno che mi dia speranza, o mi mostri che non siamo stati creati per vivere nel fango e nella disperazione. E’ difficile a volte trovare segni che siano di incoraggiamento a proseguire con fiducia o avere fiducia”.
Si irride troppe volte a chi cerca di dare alla propria vita quel volto che Dio disegnò ed in cui è riflessa la sua immagine. Ci vorrebbero tutti “maschere” da carnevale senza volto. In fondo tanti, che prendono coscienza che non si può essere maschere, perché la serietà della vita non lo permette, si pongono il problema di un cambiamento radicale, nella famiglia, nella società, nella politica…in tutto insomma. Non accettano di essere spettatori o peggio ancora artefici di un malessere che fa stare male, tanto male.
Si può avere tutto nella vita, benessere, onori o quanto si voglia, ma alla fine se non hai un cuore buono, se non accetti la sfida della conversione, del cambiamento di rotta, la maschera affiora e ti fa morire dentro.
Torna alla meditazione la parola di Gesù: “Il tempo è
compiuto: convertitevi e credete al Vangelo”.
Dai mass media, giornali o TV , si dà tanto spazio al male che l’uomo compie e si propone l’indecente che fa solo male, come se questo fosse il ‘pasto’
dell’anima. Non ci aiutano. E allora Gesù
dice: “Credete al Vangelo”. E tanti lo seguono.
Parlando un giorno con una cantante di moda, donna bellissima con un passato di modella, mi disse: “Ho vissuto un tempo di celebrità che alla fine si rivelò il battimano di un momento, cui fece seguito un silenzio che era insopportabile vuoto dell’anima. Caddi in depressione, come se nulla più mi interessasse, neanche la vita. Trovai chi mi offrì la lettura del Vangelo e, come condotta per mano da Gesù, ritrovai un’altra possibilità di bellezza, ma quella indistruttibile dentro, che ora è ‘il sole della mia vita’. Amo Cristo amo la gente: e vivo in pienezza”.
E, anche se in modo diverso, Gesù dà una mano a tutti noi per “cambiare e convertirci”, chiamando gente generosa e aperta.
“Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare, erano infatti pescatori. Gesù disse loro:
Seguitemi e vi farò pescatori di uomini. E subito, lasciate le reti, lo seguirono. Andando poco oltre, vide anche sulla barca Giovanni di Zebedèo e Giovanni suo fratello mentre riassettavano le reti. Li chiamò. Ed essi, lasciato il loro padre Zebedèo sulla barca con i garzoni, lo seguirono” (Mc 1,14-20).
Loro, poveri pescatori, gente umile che non aveva certamente disegni di grandezza, ossia “maschere da mondo”, con la generosità che distingue la gente pronta alla bontà, non fanno fatica a lasciare tutto e seguire chi forse non conoscevano, affidandosi a Lui in tutto.
E tutti conosciamo come questi ‘pescatori’ divennero i grandi Apostoli che formati dalla Parola di Gesù, pieni di Spirito Santo ci consegnarono quella Chiesa che siamo noi oggi.
E come loro tanti, ieri, oggi, e sempre, si fanno non solo discepoli di Gesù ma sono quelli che continuano a donarci nella Chiesa il volto stupendo dei figli di Dio.
Quanti ve ne sono: padri di famiglia, mamme, giovani, sacerdoti, vescovi e chi volete. E’ davvero piena la terra di questi che, abbandonate le menzogne del mondo, vivono come se non avessero mai smesso la veste bianca; che indossarono il giorno del Battesimo.
Sono quei testimoni dell’Amore del Padre e della bellezza della vita che danno senso e lo hanno dato sempre, all’umanità: a volte dando il sangue nel martirio. E di martiri, di ogni tipo, ce ne sono oggi ovunque. Credetemi, vale davvero la pena vivere come loro per gustare la bellezza di seguire Gesù…anche se appare tanto scomodo.
Voglio offrirvi una riflessione che fece il Santo Padre, quando scrisse il testo della ultima Via Crucis, mentre Giovanni Paolo II la seguiva da uno schermo, dalla croce della sua malattia. Che santo!
Così commentò la terza stazione: “Nella caduta di Gesù sotto la croce, appare l’intero suo percorso: il suo volontario abbassamento per sollevarci dal nostro orgoglio. E nello stesso tempo emerge la natura del nostro orgoglio, la superbia con cui vogliamo emanciparci da Dio, non essendo nient’altro che noi stessi, con cui crediamo di non aver bisogno dell’amore eterno ma vogliamo dar forma alla nostra vita da soli. In questa ribellione contro la verità, in questo tentativo di essere noi stessi dio, di essere creatori e giudici di noi stessi, precipitiamo e finiamo per autodistruggerci. L’abbassamento di Gesù è il superamento della nostra superbia, con il Suo abbassamento ci fa rialzare. Lasciamo che ci rialzi.
Spogliamoci della nostra autosufficienza, della nostra errata smania di autonomia e impariamo invece da Lui, da Colui che si è abbassato, a trovare la nostra grandezza vera, abbassandoci e volgendoci a Dio e ai nostri fratelli calpestati” (Terza stazione Via Crucis).
Ma avremo la forza di seguire Gesù, lasciando tutto di noi stessi, come i suoi discepoli e seguirLo? O vincerà la paura di “perdere troppo”, come il giovane ricco che preferì rifiutare di seguire Cristo “perché aveva molti beni”? Ma quale bene può prendere il posto di Dio? Gesù attende una mia, una vostra risposta. Lui ci dice: “Il tempo è compiuto”. E’
compiuto il tempo di vivere senza conoscere la bellezza della vita con Cristo. E’ compiuto il tempo degli inganni. E’ tempo di farci aprire gli occhi da Dio e contemplare il suo volto, che poi diventa in parte il nostro.
Un giorno, il grande Card. Shuster a chi lo interrogava a cosa guarda la gente, rispose: “Non guarda alle nostre liturgie a volte senza fede: non guarda ai nostri sforzi per divertire i giovani. La gente vuole vedere i santi. Quando li vede si ferma come avesse visto in loro quello che a loro mancava”.
Ed è così, proprio così. Credo che tutti abbiate avuto la fortuna o la grazie di imbattervi in una persona che ha i segni chiari nella vita della santità. Ci siamo fermati a guardarli, ad ammirarli ed in quel momento forse abbiamo visto il nulla che pericolosamente siamo senza Dio.
Non rimane che ascoltare Gesù: “Convertitevi e credete al Vangelo”. Noi diciamoGli di “sì”. Penserà Lui a compiere la sua opera con il suo amore e la sua grazia.
Ma strappiamoci, se la portiamo, maschera che ci ha messo il mondo, che è il velo che imbavaglia l’anima, impedendole di respirare.

Antonio Riboldi – Vescovo –
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Omelia del giorno 29 Gennaio 2006

Messaggio da Redazione » ven gen 27, 2006 1:02 pm

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Da: Mons. Antonio Riboldi - Vescovo - [mailto:riboldi@tin.it]
Inviato: venerdì 27 gennaio 2006 10.09
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Oggetto: Omelia del giorno 29 Gennaio 2006


IV Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

E’ scomodo essere profeti

Se c’è un tempo - ma è sempre stato così - in cui c’è bisogno di profeti, è questo. Ossia di uomini e donne che dialoghino con chiarezza, e direi con il coraggio che viene dal sapere che quello che affermano non è una loro opinione, che può essere discutibile, ma la verità che viene solo da Dio. Assistiamo tutti i giorni ad una mentalità che cerca di imporsi come verità della vita, direi ancora meglio “bene” della vita, e non accetta di essere contrastata. Vuole via libera ad ogni costo. Provate a parlare male di certe mode che gettano alle ortiche non solo la virtù ma la stessa decenza e vi sentirete aggrediti come non adatti al nostro tempo “che cambia”.
Provate a dire male della corsa al benessere, che a volte calpesta la legalità fino a sconfinare nella criminalità, e vi sentirete dire che non conosciamo le vie del benessere.
Ci troviamo di fronte a fatti che scuotono la coscienza e, giustamente, gettano pericolose nubi sul futuro, come i comportamenti da criminali di bande formate da adolescenti, e non abbiamo altro che la esecrazione… ma se osiamo dire che quello che è urgente è una sana, cristiana pedagogia, fin dalla nascita, si rischia di essere derisi.
Ricordo quando ero giovane studente religioso, dopo la grande guerra e la liberazione, eravamo un poco tutti schierati contro la Russia che incarnava la dottrina di chi vuole cancellare il cielo per creare qui in terra “un paradiso di operai”: e sappiamo tutti l’assurdità dei risultati, non solo ma qualcosa di più orribile. Esaltavamo l’America per quel suo amore alla libertà, che è il grandissimo bene dato da Dio ad ogni uomo, non conoscendo però il male che anche lì vi era, seppure meno appariscente, forse!
Un giorno - e mi piace ricordarlo, perché è stata una preziosa lezione di vita che mi ha accompagnato ed aiutato a leggere i tempi - il mio superiore generale, un grande uomo di Dio, filosofo , che sapeva scrutare i tempi, radunò tutti noi chierici e ci disse
pressappoco: “Avete pienamente ragione nel condannare i propositi del comunismo. Cancellando Dio dall’uomo e dalla terra chi si porrà al suo posto? Il niente o l’egoismo dell’uomo e così veramente la terra diventa un inferno. L’uomo non è Dio e non può assolutamente dare ciò che è di Dio; ha- bisogno di Dio, perché Dio è la sola atmosfera in cui è possibile vivere. Ricordatevi, nessuno e nulla può sostituire Dio per l’uomo. Senza Dio il mondo diventa un inferno di violenza, egoismi, abbattendo ogni regola di amore e dando via libera al male.
L’America, è vero, rispetta la libertà dell’uomo, non si propone di cancellare Dio...anzi, fa molta esibizione di fedeltà a Dio. Ma ha un male interiore che è come il cancro e può divorarla nel tempo e questo male è il consumismo, ossia mettere al posto di Dio o vicino a Dio il culto del benessere, che può diventare un altro dio. ‘Non avrai altro Dio, fuori di me’, ci ha detto il Signore”.
E noi tocchiamo con mano come anche da noi lentamente si cerca di mettere in un angolo la fede e la santità per dare spazio ad altri “dèi”, che generano quei mali che suscitano orrore, riducono gli spazi della speranza e della gioia, e quasi a volte fanno dimenticare l’amore non solo di Dio, ma degli uomini.
Come è ai nostri giorni.
Quando la Chiesa, come suo dovere, ha alzato la voce richiamando al rispetto della vita di tutti, a cominciare dal concepimento, tanti si sono scandalizzati come se avesse invaso terreni di politica, ignorando che la politica è al servizio della persona umana, della sua vita, dei suoi diritti, e non “padrona” dell’uomo, fino a erigersi come creatori della vita e non creature di Dio.
E’ stato molto bello ciò che il Santo Padre ultimamente disse a proposito dell’embrione, ossia di questa vita che inizia il suo cammino verso l’esistenza nel seno della famiglia: “l’occhio di Dio si posa sorridente e gioioso subito sull’embrione’, come lì avesse inizio la Sua Creazione ossia la storia del suo amore.
E’ veramente tempo oggi di profeti e di testimoni.
La profezia altro non è che la Parola di Dio messa sulle labbra della Chiesa e dei cristiani: a cominciare dai genitori nella educazione dei figli, a tutti noi. Ci sono poi circostanze in cui Dio fa udire la sua voce a noi che rischiamo di perderci, suscita alcuni che vanno decisamente contro corrente e sono come un efficace schiaffo a noi che a volte diventiamo ciechi e seguiamo le vie del mondo o ci rassegniamo al male senza opporci, per paura. Ma la forza della profezia è il coraggio che Dio sicuramente dà,come è nella storia dei profeti.
“Così dice Dio a Mosé: “Io susciterò un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto gli comanderò. Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto. Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire” (Dt 18,15-20).
Toccò anche a Gesù, Figlio di Dio, il Verbo fatto carne, ossia la sola Parola che contiene tutto l’amore ed il bene per ciascuno di noi, conoscere la sorte dei
profeti: quella di “dare fastidio e di sentirsi indesiderato”… tante volte non capito. Basterebbe il fatto dell’annuncio dell’incredibile dono della Eucarestia. Un discorso che tutti dovremmo sapere a memoria per la sua bellezza e perché davvero è il perno della nostra santità. “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue avrà la vita eterna. Fate questo in memoria di Me”.
Non solo non venne capito, ma fu lasciato solo, al punto che, disgustato forse, disse ai suoi
discepoli: “Volete, andarvene anche voi?” Fu Pietro che a nome di tutti rispose: “Signore, da chi andremo?
Tu solo hai parole di vita eterna”. La risposta di Pietro è di grande attualità. Da chi davvero andremo, oggi, di fronte a tanti discorsi devianti che ci assediano; a volte mettendo in crisi la nostra stessa identità di cristiani? “Da chi andremo?”
Il vangelo di oggi ci mostra Gesù che nella sinagoga di Cafarnao insegna.
“Ed erano tutti stupiti del suo insegnamento perché insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi”. E subito ha la contestazione da un uomo posseduto da uno spirito immondo che gli urla: “Che c’entri con noi Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci!
Io so chi tu sei”. E Gesù di rimando: “Taci! Esci da questo uomo”. E lo spirito immondo, straziandolo e gridando forte, uscì da lui. (Mc 1,21-28 ).
Quante volte sentiamo, impropriamente usata, questa parola, noi vescovi o cristiani, nelle stesse
famiglie: “Taci!”. Che rispetto c’è alla persona, comunque la pensi, intimandogli “taci”? La si può e la si deve dire questa parola, come Gesù, quando si vuole chiudere la bocca al male. Lì ci vuole il profeta.
I miei lettori sanno molto bene che la mia vita nel Belice e qui ad Acerra è trascorsa come assediato dalla criminalità organizzata che con violenza impone il silenzio, in tutti i sensi, alla persona.
Si condanna così una comunità al silenzio, defraudandola di quel grande dono che è la libertà di pensiero, di parola, di gioia che è la bellezza dell’
uomo. Un “taci”, come a non volere ostacoli nel fare il male.
Potevo, come pastore, accettare questo silenzio.
Accettarlo avrebbe avuto il senso della diserzione dalla mia missione, e permettere che il male regnasse. Era ed è pericolo alzare la voce e chiedere giustizia e rispetto.
Quante volte sentii questo ammonimento, che era come un avvertirti del pericolo che potevi correre se non tacevi. Ma era un silenzio impossibile per un pastore. “Le pecore sono state affidate alla mia cura, dissi una volta a chi mi minacciava, non a voi. Voi siete dei mercenari che non hanno scrupolo di portare tutti al macello”.
Sapevo di vivere pericolosamente, ma non accettavo di vivere con paura. Con i miei confratelli Vescovi della Campania, come in Calabria e Sicilia, scrivemmo quella lettera pastorale dura, ma necessaria,
profetica: “Per amore del mio popolo non tacerò”. Un documento di grande attualità.
La gioia è di avere dato la libertà a chi il Signore mi ha affidato… anche se ho dovuto rinunciare alla mia.
Non resta che pregare che Dio ci renda tutti profeti, se davvero desideriamo una società ed un futuro a misura di civiltà di amore. Profeti coraggiosi come fu il grande Giovanni Paolo II, ultimamente. Come furono in altri campi Gandhi, Martin Luther King.
Profeti capaci di togliere la maschera a chi vuole essere la nostra coscienza, per ridonare la bellezza del volto che Dio ci ha donato nella santità.

Antonio Riboldi – Vescovo
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omelia del 05-02-06

Messaggio da Redazione » ven feb 03, 2006 8:02 am

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Da: Mons. Antonio Riboldi - Vescovo - [mailto:riboldi@tin.it]
Inviato: venerdì 3 febbraio 2006 0.09
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Oggetto: Omelia del giorno 5 Febbraio 2006



V Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

La sofferenza: difficile, necessaria prova


Ci sono “passaggi” nella vita di ciascuno di noi, senza eccezioni, che diventano l’immagine di chi davvero siamo e cosa vagliamo, e sono i momenti della sofferenza, quella fisica, le malattie, o quelle ancora più acute, a volte, dell’anima, del cuore.
Non si sa bene se siano più atroci le sofferenze fisiche, che fanno desiderare a volte la stessa morte, o quelle dell’anima. Le sofferenze della passione e morte di Gesù, distrutto nel suo fisico, o quella del Getsemani, posto di fronte alla passione, che era la prova di quanto doveva pagare per amarci e ridarci un paradiso perduto: una sofferenza che Gli fa conoscere l’agonia dell’anima. Lo fa sudare sangue, il limite del dolore interno, fino a chiedere al Padre di risparmiarGli quella prova: “Padre, se è possibile, allontana da me questo calice, ma sia fatta la tua volontà”. E un angelo gli porge il calice della necessaria passione. E fu quel grande “sì” di Gesù, che è il meraviglioso, impensabile, impossibile “sì” al nostro possibile Paradiso.
Così in Lui dolore e amore si sposano come i due bracci di quella croce su cui sarebbe stato appeso e su cui eravamo noi e saremmo stati per sempre, se non ci fosse salito Lui.
Così Giobbe, l’icona biblica del dolore dell’innocente, un dolore permesso da Dio per provare fede, fedeltà e amore del suo servo fedele. Giobbe così parlò: Non ha forse un duro lavoro l’uomo sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli del mercenario? Come lo schiavo sospira l’ombra e come il mercenario aspetta il suo salario, così a me sono toccati mesi di illusione e notti di dolore mi sono assegnate. Se mi corico dico:
Quando mi alzerò? Si allungano le ombre e sono stanco di rigirarmi fino all’alba. I miei giorni sono stati più veloci di una spola, sono finiti senza speranza.
Ricordati che un soffio è la mia vita: il mio occhio non rivedrà più il bene” (Gb 7,1-7).
Ed alla moglie che diceva: “Hai ancora fede? Perché non bestemmi Dio e muori?” Giobbe rispose: “Tu parli da insensata. Noi abbiamo avuto da Dio le cose buone. Perché non dovremmo accettare le cose cattive? E nonostante tutto, Giobbe non pronunziò alcuna imprecazione” (3).
Credo che tutti, chi più, chi meno, abbiamo fatto esperienza di essere vicino a chi soffriva nel corpo. E di fronte alla nostra impotenza nel ridare la salute, ci si è come seccata la gola e non abbiamo avuto parole, ma la malattia dei nostri cari, la loro sofferenza è come passata nelle nostre carni, come fosse nostra, per amore. Fino a non capire più se soffriva di più chi era “sulla croce”, come Giobbe o meglio come Gesù, o chi sta sotto, come Maria. “Vorrei stare al suo posto” ho sentito più volte...ma è già tanto partecipare così intensamente: è grande amore.
A volte tanta gente si chiede il perché Dio permette tante sofferenze e perché, se ci ama tanto, non interviene.
Bisognerebbe conoscere il grande mistero dell’amore, che il Padre ha per ciascuno di noi, per capire questi “passaggi duri” della nostra vita, che fanno parte del piano di salvezza e sono la prova della nostra fede. Lo capiremo quando saremo davanti a Lui.
Gesù ha mostrato compassione verso chi veniva portato a Lui per avere guarigioni. Si può dire che la sua vita pubblica sia come una continua dimostrazione di amore e partecipazione al nostro dolore, nelle tanti guarigioni, segno della sua divinità.
Lo racconta il Vangelo di oggi:
“Gesù uscendo dalla sinagoga dove predicava si reca subito nella casa di Simone e Andrea in compagnia di Giovanni e di Giacomo. In casa vi era la suocera a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli accostatosi la prende per mano e la febbre la lasciò ed essa si mise a servirli. A sera il luogo si riempie di ammalati ed indemoniati. Tutta la città era davanti alla porta.
Guarì molti… Al mattino si alzò quando era ancora buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto a pregare. Ma Simone e quelli che erano con Lui si misero sulle sue tracce e, trovatoLo, gli dissero: Tutti ti cercano. Ma Gesù disse: “Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto” (Mc 1,29-39).
Forse noi avremmo provato un atto di orgoglio nel sentire quella frase “tutti ti cercano”...sempre se a prenderci per mano è la nostra fama, più che l’amore e il bene delle persone. Gesù sapeva che i veri malati siamo tutti noi, che ci portiamo addosso la malattia del peccato, che tante volte è un inferno che viviamo, nascondendolo, perché non sappiamo o non vogliamo incontrare chi possa farci uscire. E da questa malattia dell’anima può solo liberarci la Grazia, ossia Dio. E Dio sta alla nostra porta per guarirci...ma o non Lo sappiamo o non Lo vogliamo.
La domanda che ci poniamo è questa: “E’ più facile chiedere la guarigione del corpo o quella dell’anima?
E’ più forte il dolore del corpo, quando è malato, o quello del cuore quando in noi c’è il male?”. Gesù oggi mostra tanta premura per chi soffre fisicamente, e facciamo bene a pregare per i nostri ammalati con insistenza e fede...rimettendoci poi alla volontà del Padre, che sa quello che fa. Questione di fede e di amore.
Ogni volta sono stato a Lourdes con ammalati, chiedevo mi si permettesse di guidare la processione eucaristica del pomeriggio. Impressionante quel viaggio con Gesù tra gli ammalati e con gli ammalati.
Quando alla fine mi trovavo a tu per tu con gli ammalati in cerchio, con nelle mani il Santissimo Sacramento, mi si riempivano gli occhi di lacrime nel chiedere a Gesù una carezza, un conforto per quei fratelli...e se a Lui era gradito, anche la guarigione di chi a Lui sembrava meglio.
Quello che mi impressionava sempre era la grande serenità degli ammalati che, fissando Gesù Eucaristico, era come facessero esperienza di serenità nel dolore, come se la carezza di Cristo fosse scesa fino a fare più di una guarigione. E mi passavano per la mente i tanti, ma tanti santi, che chiedevano a Gesù di portare nella propria carne la
sofferenza: in compagnia della Sua, per essere sempre più santi e rendere più santi noi. E mentre il sacerdote, che guidava la processione,
pregava: “Signore, se tu vuoi, puoi guarirci”, il mio pensiero correva all’amore di Gesù che in vari modi guarisce, realizzando negli ammalati quello che afferma S. Paolo “Soffrire è come completare quello che manca alla passione di Cristo”.
E proprio lì capivo perfettamente come la sofferenza è la sorella dell’amore: inseparabili tutte e due: come Gesù sulla croce e Maria sotto la croce. Ma ancora più, come a capire il Vangelo di oggi, mi passavano per la mente le tante conversioni che avevo visto stando nei confessionali del Santuario. Lì veramente Dio faceva grandi prodigi. “Ora sì - mi diceva un fratello dopo la sua confessione- mi sento felice, vivo, più felice di quegli ammalati che sono qui!” Ed aveva ragione perché la guarigione dell’anima è una felicità più grande.
Ma un’ultima parola vorrei dirla a tutti noi che ora abbiamo la gioia di essere sani: dono grande di Dio.
E se è dovere avere cura della nostra salute fisica - e morale – il grazie al Signore dobbiamo renderlo concreto non lasciando mai e poi mai i malati “soli”.
La solitudine a volte è più dolorosa della stessa malattia. Sono i nostri malati che hanno bisogno di compagnia e non i sani. “Ero malato e siete venuti a trovarmi...venite benedetti del Padre mio”. Stare vicino a chi soffre è la prova del nostro amore. Come Maria sotto la croce del Figlio. E qui va un grazie di cuore a quanti sono volontari nella assistenza agli infermi in casa o negli ospedali. Non so quanti dei miei lettori fanno parte dell’A.V.O. (Associazione volontari ospedalieri), nata dalla felice intuizione di un mio grande amico medico, quando mamma era in ospedale.
Oggi sono in tantissimi ospedali, e sono come angeli preziosi del dolore. Grazie di cuore. Verrà un giorno in cui anche noi avremo bisogno di questi “angeli di
conforto”: per ora, se siamo sani, imitiamo Gesù nel confortare chi soffre, qualunque sia la sofferenza.
Offro questa preghiera di Madre Teresa per tutti gli
ammalati:
“Gesù sofferente, fa che ogni giorno possa vedere nella persona dei malati Te, e che possa servirTi prendendomi cura di loro. Fa che ti riconosca nella ripugnante maschera dell’ira, del crimine e della follia, e possa dire: “Gesù mio sofferente, come è immensamente bello servirti! Signore, dammi questa fede, allora il mio compito mi sembrerà meno pesante. Sarà per me una gioia accettare ed esaudire i desideri di tutti i miseri sofferenti.
Caro malato, quanto mi sei diletto, perché tu sei l’immagine del Cristo: ed è un onore per me potermi occupare di te!”

Antonio Riboldi – Vescovo –
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omelia di domenica 12 Febbraio 2006

Messaggio da Redazione » gio feb 09, 2006 10:46 pm

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VI Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

Se vuoi, puoi guarirmi


Quando ero giovane mi appassionavo nel leggere la vita di quel grande missionario, Padre Damiano, che aveva fatto la scelta di vivere appartato dal mondo, in un’isola dove erano confinati i lebbrosi.
Era poca la conoscenza, allora, di questo male, che si riteneva contagioso, e quindi questi malati dovevano vivere “fuori” dalla società, il più lontano possibile. Ed era come un morire doppiamente: morire per una malattia che oggi si può guarire facilmente e non contagia, come si è abituati a credere e morire emarginati. Poi venne quel grande apostolo dei lebbrosi che fu Follereau, che si fece apostolo tra di loro e si battè con tutte le forze per “guarire la nostra lebbra” che era ed è l’emarginare.
E ci vuole poco. Voglio ricordare un fatto che lo riguarda. Si dice che un giorno, visitando uno dei luoghi dove vivevano segregati i lebbrosi, accorgendosi di essere tra loro a mani vuote, perché tutto quello che possedeva lo aveva speso in altri lebbrosari. si scusò dicendo: “Ho le mani vuote...ma il cuore è pieno di voi e tornerò”. I lebbrosi non si offesero. Si adunarono un attimo e poi si accostarono a Follereau. Uno di loro disse: “Siamo felici che lei sia qui. E tanto. E sappiamo che ci ama e questo per noi è la più preziosa medicina; la medicina di sapere che siamo sempre in lei e con lei. Ma le chiediamo un
dono: baciarle la mano”.
Un dono che subito fu concesso. Dopo un poco di tempo Follereau ricevette una breve lettera da quel lebbrosario in cui si diceva: “Grazie per tutto ciò che fa per noi...e grazie perché ci ha fatto dono di baciarle le mani. Un gesto che conserviamo con gelosia, come un profumo sulle mani, al punto che per giorni, per conservare quel profumo, non ci siamo lavati le mani”.
Cosa vuol dire amare.
“In quel tempo - racconta Marco - venne a Gesù un
lebbroso: lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi guarirmi”. Mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, guarisci!” Subito la lebbra scomparve ed egli guarì. E, ammonendolo severamente, lo rimandò e gli disse: “Guarda di non dire niente a nessuno, ma va’ presentati ai sacerdoti e offri per la tua purificazione quello che Mosé ha ordinato, a testimonianza per loro”. (Mc 1, 40-45).
Di lebbrosari ce ne sono ancora molti nel mondo e sono sempre là dove regna la povertà e dove la salute è un bene difficile. E tutti sappiamo che la lebbra è un male più che contagioso, repellente. La loro emarginazione, più che per tutelare la nostra salute, è per tutelare la “nostra rispettabilità”.
Da qui il brutto male della emarginazione, che si estende a tanti che, pur non essendo “lebbrosi”, costringiamo a vivere da separati in ambienti malsani, cha hanno tanto in comune con i lebbrosari. La cronaca è piena ogni giorno di eventi che scuotono la nostra coscienza, a volte indifferente di fronte a questi mali.
C’è un mondo che non trova un posto alla tavola della vita cui ha diritto come tutti noi. I nostri mezzi di informazione, se ci fate caso, ogni giorno mostrano una Italia che sta bene, dando l’impressione che da noi il benessere regni sovrano e che quindi da noi possono trovare quello che a loro è negato, il più delle volte dal nostro egoismo. E allora si adattano a vivere, come lebbrosi, ai margini delle nostre città, in baracche o roulotte, autentici “lebbrosari”. E’ un grande problema di “compassione come quella di Gesù” trovare una strada di solidarietà in modo che tutti, ma proprio tutti, sia pure con la necessaria prudenza, ritrovino dignità e gioia. Dovremmo ricordarci tutti, a cominciare da me, che questi fratelli ora emarginati, tentati di ricorrere alla violenza con le rapine, per “sedere” alla nostra tavola, “domani”
saranno davanti a Dio i nostri giudici.
La Chiesa con i centri di accoglienza, che sono una meravigliosa geografia della carità, ha fatto grandi passi ed oggi è la sola speranza di molti. Ma non è sufficiente.
Scrive il Santo Padre nella sua recente enciclica: “Dio è amore”: “Il programma del cristiano - il programma del buon Samaritano - il programma di Gesù è un cuore che vede. Questo cuore “vede” dove c’è bisogno di amore e agisce in modo conseguente. Ovviamente alla spontaneità del singolo, deve aggiungersi, quando l’attività caritativa è assunta dalla Chiesa come iniziativa comunitaria, anche la programmazione, la previdenza, la collaborazione con tutte le altre istituzioni simili” ( n. 31,b).
\/iene da chiedersi perché Gesù, una volta guarito il lebbroso, ordina: “Va’, presentati al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato, a testimonianza per loro”.
Questo, perché?
Ai tempi di Mosè il lebbroso era considerato “un impuro” che poteva contagiare gli altri e quindi non poteva partecipare a pieno titolo nella comunità di
Israele: ciò comportava il suo allontanamento dal santuario, che era il centro della purità, per la presenza del Santo dei Santi. Toccava al sacerdote allontanare o verificare la guarigione.
E’ un poco come la nostra scomunica o se vogliamo quel non poter partecipare alla Comunione nella S.
Messa quando si è “lebbrosi” non nella pelle, ma nel cuore. E anche in questo caso è Gesù che libera dalla lebbra attraverso il sacerdote che ha ricevuto da Gesù il potere di ridarci l’integrità dell’anima, con il sacramento della Penitenza, della Misericordia.
Con la differenza che a volte noi trattiamo da “lebbrosi”
tanti che, caduti in errori gravi, o presunti tali, vengono allontanati dalla stima e dalla compassione.
Basterebbe ricordare coloro che affollano le aule giudiziarie per un processo o per altri atteggiamenti immorali. Sono davvero tanti i “lebbrosi” che non vogliamo a volte neppure incontrare ed evitiamo per esprimere il nostro disprezzo o condanna.
Quanta gente ho incontrato, donne “colte in flagrante adulterio”, come nel Vangelo, o uomini caduti dalla onorabilità per fatti illegali, che di colpo ti fanno diventare lebbroso! Tranne poi scoprire a volte che quello che si diceva di loro non era vero.
Manca quello che ebbe Gesù con il lebbroso incontrato e guarito e con tutti quelli convertiti nella storia, ossia la compassione e la misericordia, dono immenso del Signore, che non conosce emarginazioni ma attesa del ritorno del figlio prodigo.
Una giovane donna, schivata da tutti per uno sbaglio “comune”, mi descriveva la sua “morte interiore”, non solo per quello che per debolezza aveva fatto, ma per questo vivere come se non esistesse o peggio. Mi faceva ricordare ciò che scrisse S. Ilario nel quarto secolo, ossia tanti secoli fa: “Dobbiamo combattere contro un persecutore ancora più insidioso, un nemico che lusinga...non ci flagella la schiena, ma ci accarezza la pancia; non ci confisca i beni, dandoci così la vita, ma ci arricchisce per darci la morte; non ci spinge verso la libertà mettendoci in carcere, ma verso la schiavitù invitandoci e inoltrandoci nei palazzi; non ci colpisce il corpo ma prende possesso del cuore; non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l’anima con il danaro e il potere” (Libro contro Costantino).
Questo è anche il nostro mondo che non dovrebbe mai alzare barriere verso chi sbaglia, ma uscire dalla lebbra, che si porta addosso, senza forse saperlo.
Il mio pensiero e affetto oggi va verso i tanti lebbrosi della pelle che potrebbero guarire se trovassero più generosità da parte nostra. E vorrei stringere le loro mani come fece Follereau.
Ancora più vorrei essere vicino ai “lebbrosi”
dell’anima, esposti al disprezzo e, invitandoli a tornare alla Casa del Padre, liberati dalla loro lebbra con il “rientrare in se stessi e tornare a casa”, mettere le mie braccia al collo per fare sentire tutta la stupenda compassione del Padre che fa festa.
E succede così tutte le volte che ho la fortuna di conoscere una di queste anime, che vorrebbero tornare a respirare la bellezza dell’amore di Dio e nostro. Aiutali, Signore, a guarire!

Antonio Riboldi – Vescovo –
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Omelia del 19 Febbraio 06 di Monsignor Ridolfi Vescovo

Messaggio da Redazione » gio feb 16, 2006 8:10 pm

VII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

Il peccato, pericolosa paralisi


Capita a tutti noi di imbatterci sempre più frequentemente in uomini o donne, di ogni età, che o sono totalmente o parzialmente paralitici. Sono quelli che a volte noi chiamiamo, i “disabili”. E’ mortificante e doloroso avere mani e non poterle usare, avere voce e faticare anche solo a spiccicare parole che stentan ad essere comprese, avere piedi e non poter camminare e quindi affidarsi alla pietà di chi ci vuole bene e si fa nostra “mano”, “voce”, “piede”...magari accompagnandoci su carrozzelle, che, a volte, con la loro meccanica, permettono di essere sufficienti nel muoversi. Si calcola che, in Italia, siano quasi otto milioni questi disabili, non sempre riconosciuti ed aiutati nella loro realtà e dignità. In questi casi il disabile ha veramente bisogno e diritto di essere riconosciuto pienamente nella sua dignità e quindi aiutato dalla società a sentirsi “uguale”!
Da queste mie riflessioni sul Vangelo, va un caldo saluto ed un abbraccio a quanti forse sono immobili fisicamente, ma tante volte hanno un cuore ed una bontà che ci supera tutti. Persone che amano e vanno amate con una dose maggiore di amore. Questa è la vera civiltà e solidarietà che siamo chiamati tutti a costruire. E’ bello essere loro Cirenei nel portare la loro dura croce!
Tante volte ci danno lezione di fede e bontà, che sono la loro vera pienezza di vita interiore.
Vengono in mente le parole che il S. Padre pronunciò nella Via Crucis lo scorso anno a commento della terza stazione “Gesù cade la prima volta sotto la
croce”: “Nella caduta di Gesù sotto la croce - afferma - appare l’intero suo percorso, il suo volontario abbassamento per sollevarci dal nostro orgoglio. E nello stesso tempo emerge la natura del nostro orgoglio, la superbia con cui vogliamo emanciparci da Dio non essendo nient’altro che noi stessi, con cui crediamo di non aver bisogno dell’amore eterno, ma vogliamo dar forma alla nostra vita da soli. In questa ribellione contro la verità, in questo tentativo di essere noi stessi dio, di essere creatori e giudici di noi stessi, precipitiamo e finiamo per autosconfiggerci.
L’abbassamento di Gesù è il superamento della nostra superbia: con il suo abbassamento ci fa rialzare.
Lasciamo che ci rialzi. Spogliamoci della nostra autosufficienza, della nostra errata smania di autonomia e impariamo invece da Lui a trovare la nostra vera grandezza, abbassandoci e volgendoci a Dio e ai fratelli calpestati” (Terza stazione).
Il racconto del paralitico, che oggi Marco ci fa ascoltare, mette al centro della attenzione un paralitico da una parte, le persone che lo calano dal tetto, non potendo entrare dalla porta di casa dove era Gesù, e quindi la loro immensa fede, ed infine la compassione di Gesù che, per guarirlo, usa un linguaggio che sorprende e scandalizza gli
scribi: “Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati”.
“Seduti là erano alcuni scribi che pensavano in cuor
loro: Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può rimettere i peccati se non Dio solo? Ma Gesù avendo conosciuto nel suo spirito che così pensavano tra sé, disse loro: Perché pensate così nei vostri cuori? Che cosa è più facile: dire al paralitico: Ti sono rimessi i tuoi peccati o dire: Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina? Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati, ti ordino, alzati, prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua.
Quegli si alzò, prese il suo lettuccio e se ne andò in presenza di tutti e tutti si meravigliarono e lodavano Dio dicendo: Non abbiamo mai visto nulla di simile”
(Mc 2,1-12).
La domanda che fa Gesù, se cioè è più facile perdonare i peccati o dare la salute ad un paralitico, ci mette veramente in crisi, se abbiamo ancora il rossore dell’anima guardando dentro, a volte, le nostre paralisi. C’è tanta gente, molta, ma molta di più, dei veri disabili o paralitici, che vive, vicino a noi, o a volte siamo noi stessi verso gli altri, che ci fa sentire “paralitici dentro”, ossia incapaci di fare qualcosa di buono, come se il male, gli sbagli o i vizi che sono le nostre infinite cadute, tolgano la voglia di alzare gli occhi al cielo, di vivere. E ci muoviamo, apparentemente ci divertiamo: nessuno sa che dentro siamo “come paralitici” e che se potessimo urleremmo dalla rabbia...ma copriamo tutto questo con un sorriso, che tutto ha, per la formalità, fuorché la natura del sorriso, che è sempre e solo voglia di donare la gioia che si ha dentro...ma che non c’è. A volte, perdiamo persino il senso del male che il peccato produce in noi.
Forse ce ne rendiamo conto e, nello stesso tempo, come appena accusiamo un male fisico corriamo da medici e specialisti, perché ci sta a cuore la salute del corpo, così ci rechiamo, oggi, dagli “specialisti dell’anima”, quando il nostro malessere interiore ci rende come paralitici. E questi, tante volte, alla fine ci imbottiscono di ansiolitici, che oggi sono un formidabile affare farmaceutico, ma non riescono che a darci un’apparente serenità, che tale non è. Ci vuole una guarigione “dentro”, che solo Dio può operare con la sua misericordia, attraverso la penitenza.
Una parte della mia vita pastorale l’ho dedicata a incontrare terroristi e criminali nelle carceri. Era difficile il discorso di Gesù: “Alzati, ti sono rimessi i tuoi peccati...prendi il tuo lettuccio e torna a casa”.
Avevo come l’impressione, a volte, di essere di fronte a uomini o donne di una durezza di cuore, che fa perdere anche il senso della bellezza della vita. E la loro vita era un inferno. Eppure qualche volta dire loro che c’era un Padre misericordioso, pronto a ridarci pienezza di vita, lasciava come una nostalgia. Ma ci voleva il miracolo della conversione. E quando avveniva tutto cambiava aspetto.
Porto nel cuore tanti loro volti, che volevano tornare al sorriso della vera felicità dell’anima. Mi diceva un terrorista un giorno: “Caro Padre, lei crede in Dio, io ho tanti dubbi e non so pregarlo. Quando lei Lo incontra e prega gli dica a nome mio che ho un solo desiderio, tornare ad essere bambino, con il cuore buono del bambino che si arrabbiava solo quando vedeva altri picchiarsi”.
Così come non dimenticherò mai il lungo pianto di una giovane, che era sul punto di togliersi la vita, perché “dentro era come morta” e questa vita non interessava più. Alla fine mi si gettò al collo e mi
disse: “Padre mi ridia la gioia della vita. Se non può lei, lo chieda a Dio che è un Padre misericordioso”. E questo miracolo avvenne. Ora questa donna è madre felice e cerca questa felicità nella fede e nella bontà di donarla e difenderla nei figli.
Così come incontrando un uomo, all’apparenza distinto, che faceva servizi umili in un ristorante, seppi che era stato uomo “di mondo”, ma Dio gli aveva cambiato il cuore e lui ricambiava il dono con il servizio umile.
E sapeste come è per noi, sacerdoti e vescovi, un immenso dono del Padre quello di stendere le mani sul capo di un uomo o donna e dire: “Va’ in pace, ti sono rimessi i tuoi peccati”. E’ come vedere in quel momento il Padre della parabola del figlio prodigo: va incontro al figlio che, “rientrato in se stesso, torna a casa”, e lo abbraccia con un amore che è il vero tesoro cui dovremmo ricorrere tutti, e dice “Facciamo festa perché questo mio figlio era morto ed ora è risorto”.
Ma riusciremo noi a capire il Cuore di Dio pronto a
dirci: “Figlio, ti sono rimessi i tuoi peccati, alzati e torna a casa tua”? Bisognerebbe almeno una volta vedere il volto pieno di felicità di quanti si sono lasciati attirare dalla pietà di Dio e sono usciti dalla paralisi interna.
Solo allora si capisce cosa significhi incontrare la Misericordia.
Dice il profeta Isaìa oggi:
Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova:
proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa. Il popolo che io ho plasmato per me, celebrerà le mie lodi. Invece tu non mi hai invocato, o Giacobbe, anzi ti sei stancato di me, o Israele. Tu mi hai dato molestia con peccati, mi hai stancato con le tue iniquità. Io cancello i tuoi misfatti per riguardo a me, non ricordo più i tuoi peccati” (Is 43,18-25).

Antonio Riboldi – Vescovo –
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26 febbraio La sete di Cristo

Messaggio da Redazione » ven feb 24, 2006 7:37 pm

-----Messaggio originale-----
Da: Mons. Antonio Riboldi [mailto:riboldi@tin.it]
Inviato: venerdì 24 febbraio 2006 1.08
A: scrivi@cepostaperme.it
Oggetto: Omelia del giorno 26 Febbraio 2006


VIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

La sete di Cristo


Se si hanno ancora “occhi” per fissare chi ci è vicino, un “fissare” con bontà, come a voler farsi partecipe di quello che, chi ci sta vicino, “è”, interiormente, là dove pochi sanno entrare, o facciamo entrare, come fosse la nostra stanza segreta, tante volte si nota una grande tristezza, come un senso “di vuoto di vita”.
Vi confesso, come ad amici, che quando incontro qualcuno che ha desiderio di essere conosciuto, di farsi “visitare dentro”, mi viene da fissare la persona che mi sta di fronte. Quasi sempre questa persona permette, per la fiducia che ha, che io entri nella sua “stanza segreta”, e tante volte, troppe volte, noto un senso di vuoto, di infinita sofferenza a cui non si sa dare una ragione, e nello stesso tempo gli occhi si riempiono di lacrime, perché qualcuno ha portato la luce della amicizia, che sono “mani tese” per trovare il senso della tristezza o del vuoto. Quando il Padre ci ha donato la vita, ha dato anche un senso a questo
dono: quello di conoscere il suo amore, di farne parte e di amare. Poi le vie della nostra esistenza, crescendo, si perdono a volte in tanti deserti che mettono a nudo la nostra infelicità, perché non c’è Chi ti doni o dica la ragione dell’esistenza.
Suonano come grande nostalgia, tesoro nascosto dei santi e dei veri cristiani, quelli cioè che con semplicità di vita si fanno amare da Dio totalmente e Lo amano senza condizioni, le parole che oggi ci offre il profeta
Osèa: “Così dice il Signore: Ecco, io la attirerò a me, la condurrò nel deserto, e parlerò al suo cuore. Là canterà, come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese d’Egitto. Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore” (Os 2,14-20).
Lo vogliamo o no, non è possibile vivere “senza sapere perché vivo e per chi vivo”. Tutto quello che non è amore è alla fine un peso fastidioso o dannoso.
Abbiamo bisogno di farci “fissare negli occhi”, fino al segreto dell’anima, da Dio, per almeno renderci conto per chi e perché viviamo. E sappiamo tutti che amare vuole dire farsi dono, senza avere nel cuore intrusi che tolgano spazio a chi si ama. E’ così l’amore vero, lo si voglia o no, nel matrimonio, verso il prossimo e ancora di più per Dio.
Cercare di mettere insieme Dio e l’io, l’amore e l’egoismo, è tradire noi stessi e la bellezza che Dio ha messo a nostra disposizione. Non si può amare a metà. E’ l’assurdo in cui tanti credono, e così si rischia di avere due padroni e a due padroni, dice Gesù, non si può servire.
Stare con Dio è condividere tutto con Lui. Dice Gesù
oggi: “Nessuno cuce una toppa di panno grezzo su un vestito vecchio, altrimenti il rattoppo nuovo squarcia il vecchio e si forma uno strappo peggiore. E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino spaccherà gli otri e si perdono vino e otri, ma vino nuovo in otri nuovi” (Mc 2,18-22).
L’omicidio assurdo di don Andrea, missionario in Turchia, proprio nel momento più bello di un sacerdote, ossia quando pregava, colpevole solo di essere cristiano, ha scosso tanti, mettendo a nudo la nostra fede e appartenenza a Cristo che, davanti a lui, ci fa abbassare gli occhi per la vergogna. Ma nello stesso tempo ci fa sentire la voglia di uscire allo scoperto e avviarci verso Gesù, come otre nuovo in cui Lui versi vino nuovo.
Dio mi fa dono di partecipare a tanti convegni o incontri, ovunque, con tanta, ma tanta gente, giovani anche, che ha “sete di infinito, di Dio, di amore”: ossia di tessere quello che il Padre ha voluto siamo, facendoci dono della sua vita: belli come Lui, felici come Lui, sempre con Lui. E dovunque - questo è davvero segno positivo che suscita speranza, grande speranza, - mostra la grande sete di Dio.
I vescovi italiani, nel presentare il Convegno che si terrà a Verona, così introducono il documento di
preparazione: “Una Samaritana incontra Gesù al pozzo di Giacobbe...Egli le chiede: “Dammi da bere”.
La sete di Gesù è segno del suo ardente desiderio che la donna e con lei tutta la gente della città si aprano alla fede. Gesù ebbe sete così ardente della fede della Samaritana, da accendere in lei la fiamma dell’amore di Dio. Anche la donna da parte sua domanda dell’acqua: Signore, dammi di quest’acqua perché non abbia più sete” (Gv 4,13-15). La Samaritana ci rappresenta. Ogni persona umana ha sete e passa da un pozzo ad un altro, un vagare incessante, un desiderio inesauribile, rivolto ai molteplici beni del corpo e dello spirito. Nel nostro tempo questa ricerca sembra addirittura tumultuosa:
produrre e consumare; possedere e consumare; possedere molte cose e fare molte esperienze; cercare sempre il piacere e l’utile immediato, tutto e subito.
Molti però hanno la sensazione di correre senza una meta, di riempirsi di cose che risultano vuote. Molti lamentano un impoverimento di rapporti umani, anonimato, estraneità, incontri superficiali e strumentali, emarginazione dei più deboli, conflittualità e delinquenza. Tutto contrasta con quello che sembra essere il nostro anelito profondo: essere amati e amare. Nel cuore di ogni uomo vi è un desiderio di salvezza. Il Signore suscita la sete e dona l’acqua viva dello Spirito, che sazia per sempre la sete di infinito di ogni persona. “Occorre essere sinceri e onesti con se stessi. E’ necessario prendere sul serio le grandi domande che ognuno si porta dentro: chi sono? da dove vengo? dove sto andando? E ancora:
la realtà è assurda o ineleggibile? la vita è un dono o un destino cieco? o un caso? perché questa sete che nessuna conquista riesce ad estinguere? che cosa devo sperare e che cosa devo fare?
Se vengo dal nulla sembra che ci sia nulla da fare, se non lasciarsi andare alla deriva. Se invece vengo dall’Amore infinito e vado verso l’Amore infinito, ecco che mi si apre davanti un cammino, difficile forse, ma pieno di significato...Chi evita le domande fondamentali, fugge da se stesso...Indifferenza, edonismo e attivismo non sono una soluzione, ma una evasione irresponsabile. “Chi ha sete venga a me, chi vuole attinga gratuitamente l’acqua della vita”
(Ap 22,17)” (Doc. Vescovi “la sete di Cristo”).
E’ la risposta a quel “vuoto di vita” che nascondiamo gelosamente nella nostra “stanza segreta”: un segreto che solo lo sguardo di Cristo, fissandoci negli occhi, sa mostrare e sanare.
Non si può vivere un amore, come è la nostra fede, a metà. E’ ingannarsi. Purtroppo a volte lo facciamo e...siamo infelici. Ma una volta che si soddisfa quella “sete”, davvero si entra nella gioia.
Ho avuto il dono di conoscere tante, ma tante persone, nella mia vita pastorale che, raggiunte dalla Grazia, anzi come un vero prodigio della Grazia, non hanno cercato di porre rimedio con qualche buon proposito, ossia una toppa nuova su vestito vecchio, ma si sono lasciate indossare da Dio un vestito tutto nuovo.
Tanti di voi, certamente, avranno sentito parlare o letto qualche poesia di quel grande poeta del secolo scorso che era Clemente Rebora. Era uomo di grande valore: poeta affermato, conoscitore della letteratura russa, pianista, e tutto quello che vogliamo, per coltivare i tanti talenti - doni di Dio, in modo eccezionale. Ma per anni viveva come se Dio non ci fosse, forse da ateo o ricercatore di un infinito cui non voleva dare nome.
E venne il momento di dire a qualcuno
l’insoddisfazione che era il vuoto dell’anima, insopportabile. Si confidò con l’allora vescovo di Milano Card. Shuster che, a sua volta, conoscendo Padre Bozzetti, superiore dei Padri Rosminiani, altro santo che sapeva “leggere le anime”, lo indirizzò a lui.
Si capirono subito e avvenne l’inizio di una nuova vita, ossia “vino nuovo in otre nuovo”.
Clemente Rebora “cancellò” tutto, ma proprio tutto, del suo passato, come fosse una esperienza da gettare dietro le spalle, e, certamente preso per mano dalla Grazia, non solo si convertì, ma volle fare dono della sua vita, consacrandosi con la vita religiosa proprio tra i Padri Rosminiani. E lo fece con la serietà dei santi.
Era mio Confessore da Novizio, per due anni ed ogni settimana mi confessavo da lui. In quella atmosfera mistica, che era il noviziato al Calvario di Domodossola, era quasi impossibile conoscere il male...ma qualche piccola mancanza c’era sempre. E ricordo che, agli occhi di Padre Rebora, tutto sembrava una inammissibile ferita al Cuore di Cristo e piangeva. E io non capivo la ragione.
Ebbi la grazia di trascorrere con lui qualche mese di vacanza, negli anni della mia giovinezza, alla Sacra di S. Michele nella Valle di Susa. Passava le sue giornate tutto assorto nella preghiera e nello studio.
Ma uno studio che portava a conoscere sempre più Dio. Il resto, che lo aveva reso famoso come poeta del ‘900, non esisteva più. Nel momento in cui decise di cambiare vita, bruciò tutto: poesie scritte e mai stampate, un dizionario prezioso, e tutto il resto finì nella spazzatura. C’è una poesia meravigliosa, conservata, in cui descrive la gioia di questa rinascita, intitolata “lo spazzino”.
Alla Sacra gli servivo la Messa ed era un vero dialogo con Dio. Passeggiando parlavo con lui di musica, di letteratura russa e via dicendo e lui si comportava come non ne avesse mai sentito parlare. Annuiva e basta.
Insomma quando si accetta quell’acqua di Gesù, la vita è altro. Come dice il salmista: “L’anima mia ha sete del Dio vivente: quando vedrò il suo volto?”

Antonio Riboldi – Vescovo –
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Omelia del giorno 5 Marzo 2006

Messaggio da Giammarco De Vincentis » sab mar 04, 2006 7:37 pm

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I Domenica di Quaresima (Anno B)

Quaresima, tempo di grazia


Abbiamo lasciato alle spalle con il Carnevale, il tempo della banalità della vita, che se per alcuni è stato solo un momento di follia, per tanti è una follia vissuta ogni giorno.
E la Chiesa, con l’austerità che chiede la voglia di serietà nel vivere la fede, per farsi cambiare “dentro da Dio”, mercoledì ci ha imposto sul capo le ceneri, ricordandoci la grande nostra verità: “Ricordati, uomo o donna, che sei cenere e cenere diventerai”:
oppure “Convertiti e credi al Vangelo”.
Un ammonimento che fa piazza pulita di tutto quel camminare fuori la realtà di una vita dataci per la santità e ci invita a raddrizzare le vie storte che forse percorriamo senza neppure renderci conto: o forse ce ne rendiamo conto per quel malessere che sentiamo “dentro”, come una malattia, ed è come un girare a vuoto, nel nulla.
Vi confesso, cari amici, che diventa difficile anche solo tentare di dire quanto sia importante e vitale per la vita interiore, che è quella che conta, anche il solo pensare o parlare di questo tempo santo ed austero che è la Quaresima. Il rischio di vederlo “passare”
come un tempo normale, senza farsi coinvolgere è grande oggi...ed è come intuire la voce di Dio che chiama e spegnerla nel chiasso, come non ci fosse.
Tanti di voi ricorderanno come un tempo la Quaresima era vissuta con il digiuno quotidiano, tranne la domenica, l’ascolto della Parola, o quaresimale, e la Via Crucis. Si sentiva in famiglia, nell’aria che la Quaresima era davvero un tempo austero, come se in ogni istante fossero davanti al cuore ed alla mente le parole che Gesù dice oggi: “Il tempo è compiuto: il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1,12-15).
Andando indietro nel tempo, la Quaresima era il tempo di preparazione degli aspiranti al Battesimo che dopo un catecumenato si accostavano al Battesimo; e dei peccatori che il vescovo aveva momentaneamente allontanato dalla comunione ecclesiale e che in questo periodo sospendevano ogni attività, dedicandosi alla parola di Dio, alla penitenza ed alla preghiera. Poi, i catecumeni nella notte di Pasqua ricevevano il Battesimo, ossia entravano nella vita nuova e i peccatori ricevevano il perdono, e come segno di questa rinascita vestivano l’abito bianco, simbolo di vita nuova con la Pasqua.
Gesù stesso stette quaranta giorni e quaranta notti nel deserto, prima di affrontare la missione del Padre in mezzo a noi, in totale digiuno, come narrano i vangeli.
Il Santo Padre, Benedetto XVI, nel suo messaggio per la Quaresima, che volle intitolato: “Gesù, vedendo le folle, ne sentì compassione”, scrive: “La Quaresima è il tempo privilegiato del pellegrinaggio interiore verso Colui che è la fonte della misericordia. E’ un pellegrinaggio in cui Lui stesso accompagna attraverso il deserto della nostra povertà, sostenendoci nel cammino verso la gioia intensa della Pasqua.
Anche nella “valle oscura”, di cui parla il salmista, mentre il tentatore ci suggerisce di disperarci o di riporre una speranza illusoria nell’opera delle nostre mani, Dio ci custodisce e ci sostiene. Sì, anche oggi il Signore ascolta il grido delle moltitudini affamate di gioia, di pace, di amore. Come in ogni epoca, esse si sentono abbandonate. Eppure anche nella desolazione della miseria, della solitudine, della violenza e della fame, che colpiscono, senza distruzione, anziani, adulti e bambini, Dio non permette che il buio dell’orrore spadroneggi. Come infatti ha scritto il mio amato predecessore Giovanni Paolo II: c’è un limite divino imposto”.
Il S. Padre così ci offre una indicazione come vivere concretamente la Quaresima, in modo che cambi in noi qualcosa, capace di avvicinarci di più a Dio; in altre parole un modo che sia una vera Pasqua di Resurrezione.
E, come a confermare quanto ha scritto nella sua Enciclica, intitolata “Dio è Amore”, ci fa riflettere e vivere un tema davvero contemporaneo e che chiede la nostra partecipazione: la compassione, ossia la capacità di guardare alle tante miserie spirituali e materiali del mondo e, per quello che possiamo, ma generosamente, “condividere la loro passione” che è il vero significato di “compassione”.
Gesù del resto ce ne dette un esempio. Così descrive la Sua compassione per noi, che davvero siamo “poveri in tutto”, poveri di cuore, “generato dall’egoismo del benessere”, l’Apostolo Paolo, scrivendo ai Filippesi: “Egli era come Dio, ma non conservò gelosamente il suo essere uguale a Dio.
Rinunziò a tutto: divenne come un servo: fu uomo tra gli uomini e visse come uno Sconosciuto, come uno di loro. Abbassò se stesso: fu obbediente fino alla morte, alla morte di croce” (Fil 2,6).
E, fattosi povero, passò tra di noi, manifestando la sua compassione sempre. Basta ricordare la compassione davanti alle folle che lo seguivano e non volle licenziare, senza prima avere moltiplicato i pani ed i pesci. O la sua compassione davanti agli ammalati. O ancora di più la sua compassione di fronte ai peccatori.
Basterebbe ricordare la parabola del buon samaritano per capire la compassione del samaritano che, imbattendosi sulla strada, che conduce da Gerusalemme a Gerico, uomo vicino alla morte, per la brutalità dei briganti, non imitò il sacerdote ed il levita che passando videro, ma andarono oltre, abbandonando al suo destino di morte il Semivivo, ma si commosse, scese da cavallo, gli prestò le prime cure ed ebbe cura di lui, fino a caricarlo sul suo mulo e portarlo in una locanda per affidarlo alle cure, a sue spese, fino a perfetta guarigione. Questa è compassione. Difficile compassione che per fortuna in tanti luoghi del mondo trova samaritani che condividono quello che hanno, perché i semivivi tornino a quel diritto alla vita, che è dono immenso, che deve fare intravedere nella sua bellezza, una vita nella carità.
E il S. Padre, nel suo messaggio, indica proprio nella compassione una via, non solo perché torni a regnare la carità, ma attraverso questa, la gioia e la pace.
“Illuminata da questa verità pasquale, la Chiesa sa che per promuovere lo sviluppo è necessario che il nostro sguardo sull’uomo, si misuri su quello di Cristo (che ebbe compassione)…dinnanzi alle terribili sfide della povertà di tanta parte della umanità, l’indifferenza e la chiusura nel proprio egoismo si pongono in un contrasto intollerabile con lo “sguardo di Cristo”.
Non si tratta allora in questa dimensione quaresimale, che dovrebbe essere norma della nostra esistenza in comunione con tutti, come segno di vera fede e carità, di una casuale elemosina che, diciamolo con sincerità, a poco giova, se non a volte a “mettere a posto” la coscienza. Si tratta di fare guerra, sgretolare quel male che è in noi e che si chiama egoismo: un chiudersi in noi stessi, facendo cadere briciole dalla tavola bene imbandita che il povero Lazzaro contendeva con i cani, come è nella parabola del ricco epulone. E’ entrare nella beatitudine della povertà, che fa suo il Regno dei cieli.
Tutti dovremmo sapere che un benessere coltivato in noi come un idolo, può diventare invalicabile barriera per le tante povertà che bussano alla nostra porta, come fossero Cristo stesso.
E’ una schiavitù che riesce a cancellare la compassione. E uomini senza compassione che uomini sono? Possono solo essere non piccola causa di quelle povertà che vanno aumentando e generano le violenze e gli odi che sono le nubi nere sulla civiltà dell’amore e sulla nostra fede. Il nostro essere di Cristo dovrebbe distinguersi per quello “sguardo di Cristo” su quanti, per qualsiasi ragione hanno bisogno di noi, pronti come Gesù a dare tutto.
Mi è sempre state impresso quando uno di voi, sapendo come casa mia è sempre stata “casa dei poveri”, mi inviò una bella somma. Lo ringraziai e lui mi rispose: “Non mi dica grazie: quanto dato è solo un graffio al mio egoismo e lo farò fino a cambiare pelle”.
La mia vita pastorale, nel Belice e qui, è stata caratterizzata da una precisa scelta: avere compassione di chi ha bisogno. E sulla mia strada Dio mi ha messo alcune persone di una generosità incredibile che mi hanno permesso di fare “grandi cose”, nel Belice, qui, e ora in alcune realtà nel grande serbatoio dei poveri. Gente non cercata, ma che si è affacciata sulla mia strada per farmi compagnia nella carità, sempre riempiendomi le mani perché a mia volta riempissi quelle degli altri. Sono state e sono i miei “angeli”, che mi sono vicine nel nutrire la compassione.
Mentre vi scrivo, ho tanti progetti di bene tra i poveri, accanto a chi già opera condividendo povertà e speranza. Hanno tanta speranza che la compassione si faccia strada. E così sarà. Non piacerebbe anche a voi, a chi può, vivere la Quaresima così?
Toccheremo con mano come con questa povertà in spirito, che si fa dono ad altri, alla fine ci sentiremo liberi, gioiosi, e capiremo l’Alleluja della Pasqua.
E allora, fissando il nostro sguardo nel Suo, dalla croce espresse la compassione verso tutti noi, veramente bisognosi del suo amore, auguro a voi una Santa Quaresima…coltivando compassione.
E sarei felice che anche tra voi ci fosse qualcuno che accetti di essere “angelo” e mi tenga compagnia nella compassione del mondo.

Antonio Riboldi – Vescovo –
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Omelia del giorno 12 Marzo 2006

Messaggio da Redazione » mer mar 08, 2006 8:58 pm

-----Messaggio originale-----
Da: Mons. Antonio Riboldi - Vescovo - [mailto:riboldi@tin.it]
Inviato: mercoledì 8 marzo 2006 20.38
A: scrivi@cepostaperme.it
Oggetto: Omelia della II Domenica di Quaresima (B)


Omelia del giorno 12 Marzo 2006

II Domenica di Quaresima (Anno B)

Chi è Gesù per me?


C’è una domanda, che è fondamentale per ogni uomo, e chiede una risposta che non si può assolutamente eludere. Ossia quale posto ha Gesù, Figlio di Dio nella nostra vita.
Oggi, tempo di Quaresima, la Chiesa sembra voglia togliere il velo alle nostre incertezze o svegliare il nostro pericoloso sonno sulla ragione stessa, sul valore, sul futuro della nostra esistenza.
Gesù sta avviandosi lentamente verso Gerusalemme, e tutti sappiamo che questo non è un viaggio qualsiasi dei tanti che Lui faceva, ma significa, nel Vangelo, avviarsi verso la sommità dell’amore: un amore che si fa sacrificio totale sulla croce.
Gesù sapeva che quanti Lo seguivano non avevano idee chiare su di Lui. Non riuscivano a capire quel figlio dell’uomo, di una umiltà che faceva piazza pulita di ogni fantasia di grandezza sulla terra.
Noi uomini tante volte identifichiamo i “vari messia”
negli uomini che, in qualche modo, quando sono onesti, possono tracciare un cammino di giustizia e pace, ma “qui sulla terra”, dove tutto inesorabilmente ha termine, come l’uomo “polvere”, che “in polvere tornerà”.
Ma Gesù è il Figlio di Dio. Dio ha voluto si vestisse della nostra umanità, che era davvero senza futuro e quindi senza ragione di vita, per ridare senso e gioia alla vita. Ha sempre ragione il proverbio saggio che
dice: “posso anche non sapere perché vivo, ma non posso vivere senza sapere chi mi ama”.
E Gesù ha risposto a questa domanda sulla croce… anche se, dopo tanti secoli, pare che l’uomo non abbia capito o non voglia capire questo dono.
Ed ecco che per aiutare i suoi a entrare nel mistero dell’amore, che si compirà sulla croce con la resurrezione, si mostra, per quello che è, nella trasfigurazione. “Si trasfigurò davanti a loro, racconta Marco, e le sue vesti divennero splendenti,
bianchissime: nessun lavandaio sulla terra poteva renderle più bianche. E apparve Elia con Mosé e discorrevano con Gesù. Prendendo allora la parola, Pietro disse a Gesù: “Maestro è bello per noi stare qui, facciamo tre tende, una per te, una per Mosè ed una per Elia”. Non sapeva che cosa dire poiché erano stati oppressi dallo spavento. Poi si formò una nube che li avvolse nell’ombra e uscì una voce dalla
nube: “Questi è il mio Figlio prediletto, ascoltatelo!” E subito, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù, solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto: se non dopo che il figlio dell’uomo fosse risuscitato dai morti. Ed essi tennero per sé la cosa, domandandosi però che cosa volesse dire risuscitare dai morti” (Mc 9,1-9).
Oggi tutti siamo chiamati a interrogarci, nell’austerità della Quaresima, chi è Gesù per noi? “Se io domandassi - diceva il grande Paolo VI agli uomini del nostro tempo - chi ritenete che sia Cristo Gesù?
Come lo pensate? Ditemi: chi è il Signore? Chi è questo Gesù che noi andiamo predicando da tanti secoli e che riteniamo sia ancora più necessario della nostra vita annunciarlo alle anime? Chi è Gesù?
Alla domanda molti non rispondono, non sanno che dire. Esiste come una “nube” - come sul Tabor - questa sì è opaca e pesante di ignoranza su tanti intelletti. Si ha una vaga cognizione del Cristo, non lo si conosce bene, si cerca anzi di respingerLo. Al punto che all’offerta del Signore di voler essere per tutti guida e maestro, si risponde di non aver bisogno e si preferisce tenerlo lontano…vogliono come annullarlo e toglierLo dalla faccia della civiltà moderna. Non c’è posto per Dio, né per la religione; si affannano a cancellare il suo nome e la sua presenza.
Tale è il contenuto di tutto questo laicismo sfrenato che talvolta incalza fino alle porte delle nostre chiese e che in tanti Paesi, ancor oggi, infierisce. Non si vuole più l’immagine di Cristo”.
E rivolgendosi a noi, Paolo VI così ci interroga, seriamente, con una domanda che dobbiamo porre al centro della nostra Quaresima. “Ma noi, che abbiamo questo dolcissimo e grandissimo nome da ripetere a noi stessi; noi che diciamo di credere in Cristo: noi, almeno noi, sappiamo bene chi è? Sapremo
chiamarLo: Maestro, Pastore, invocarLo quale luce dell’anima e ripeterGli: Tu sei il nostro Salvatore?
Sentire cioè che Egli ci è necessario e noi non possiamo fare a meno di Lui: è la nostra fortuna, la nostra gioia e felicità, promessa e speranza; la nostra via, verità e vita?” Fanno davvero riflettere queste domande.
E’ facile imbattersi in persone che si illuminano nel parlare di “gente celebre, per arte, spettacolo, sport”, come questi fossero il loro “messia”
seppur “effimero”, eppure basta a volte un piccolo incidente e la “trasfigurazione” finisce, come fossero mai esistiti. Ma Gesù, no. Sa che la debolezza umana, posta davanti alle prove, può oscurare la fede in Lui.
Come avvenne nella sua passione, quando si vide abbandonato da tutti, tranne che dalla Mamma, dal fedele Giovanni, che Lui amava, e dalle pie donne.
Quando si ama veramente, nulla può staccarci da chi si ama. Basta pensare a tanti fratelli e sorelle colpiti da malattie che fanno temere della loro vita. Non si fugge da loro, ma anzi ci si fa vicini ancora di più...anche oltre la morte, che a volte sublima l’amore.
Direi che la sofferenza avvicina di più, mette alla prova “quanto” si ama. Chi di noi non ha incontrato persone che avrebbero potuto conoscere la disperazione ed invece, a guardarli bene negli occhi, sembrava apparire una dolcezza, come se fossero sul Tabor. Gesù si era fatto più vicino.
E’ impressionante e meraviglioso il racconto, che oggi ci viene offerte dalla Chiesa, di Abramo. “In quei giorni Dio mise alla prova Abramo e gli disse: “Abramo, Abramo!” Rispose “Eccomi!” Riprese: “Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, e và nel territorio di Morìa e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò”. Essi arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato: qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna. Poi stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: “Abramo, Abramo!!”
Rispose: “Eccomi!” L’angelo disse: “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio”. Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto, invece del figlio” (Gen 22,1-18).
Non si può che rimanere stupiti di fronte a questo episodio, da cui emerge una fede, quella di Abramo, che davvero è sconfinata. Alla domanda di Dio di sacrificare suo figlio, dice solo “Eccomi”. Ben diverso da tutte le nostre divagazioni sulle prove che Dio manda per provare la nostra fede. Ci sentiamo addosso una fede di pochi spiccioli, pronta a sbriciolarsi davanti alla prima difficoltà. E Dio vuole invece una fede senza misura.
Chiude il suo discorso, Paolo VI, sulla trasfigurazione
così: “I tre Apostoli, sul monte, sono rimasti a fissare la visione; ed hanno notato la trasparenza: nella persona di Gesù c’è un’altra vita, c’è un’altra natura, oltre quella umana, la natura divina. Gesù è un tabernacolo in moto: è l’uomo che porta dentro di sé l’ampiezza del cielo: è il Figlio di Dio fatto uomo: è il miracolo che passa sui sentieri della nostra terra.
Gesù è davvero l’unico, il buono, il santo. Se potessimo incontraLo anche noi, saremmo davvero privilegiati, come Pietro Giacomo e Giovanni”
(discorso di Paolo VI nella Quaresima del 1965).
Una aspirazione, quella di Paolo VI, che è nel cuore di tanti che vivono sulla terra tra di noi e “quasi vedono Gesù”. E in me, in voi amici, almeno in questa Quaresima, c’è il desiderio di provare lo stupore dei tre apostoli e di dire: “Facciamo qui una tenda” per te?
Ma questa tenda c’è: ed è nelle nostre Chiese, nel Tabernacolo.
Una delle pratiche che aiutano a stare con Gesù, è la Via Crucis, che spero rimanga in tutte le nostre parrocchie. Ci aiuti la riflessione del S. Padre, che fece nella Via Crucis dello scorso anno, a pochi giorni dalla morte di Giovanni Paolo II. Commenta così l’ultima stazione: “Gesù disonorato e oltraggiato viene deposto con tutti gli onori nel sepolcro nuovo.
Nicodemo porta una mistura di mirra e di aloe di cento libbre destinata a emanare un prezioso profumo...Bisogna ricordare le parole di S. Paolo su Dio, che effonde per mezzo nostro il profumo della conoscenza di Cristo nel mondo intero. Noi infatti siamo…il profumo di Cristo” (2Cor 2,14).
Nella purificazione delle ideologie, la nostra fede dovrebbe essere il nuovo profumo che porta sulle tracce della vita. Nel momento della deposizione comincia a realizzarsi la parola di Gesù Cristo: “In verità, in verità vi dico, se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo, ma se muore produce molto frutto” (XIV Stazione).
Davvero è una meditazione seria, che coinvolge la nostra vita o almeno dovrebbe coinvolgerla, quella che ci offre la Chiesa oggi. Ci faremo coinvolgere?
Me lo auguro, perché anche per noi Pasqua sia resurrezione a vita nuova con Cristo.

Antonio Riboldi – Vescovo –
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Omelia del giorno 19 Marzo 2006

Messaggio da Redazione » gio mar 16, 2006 12:43 pm

Omelia del giorno 19 Marzo 2006

III Domenica di Quaresima (Anno B)

Gesù sa che cosa c’è in ogni uomo


Vorrei aprire questa mia riflessione con un grande augurio. Oggi, anche se la Chiesa trasporta a domani la festa, per la precedenza che ha il grande tempo liturgico della Quaresima, è la festa di S. Giuseppe.
Chissà quanti, che si chiamano Giuseppe o Giuseppina, ci sono tra di voi: a tutti dico che vi voglio bene e oggi ho una preghiera speciale per ciascuno di voi. Avete come patrono colui che il Vangelo definisce “uomo giusto”, sposo di Maria, custode del Figlio di Dio.
Un uomo che ha accolto la volontà di Dio, meravigliosa, ma difficile, in silenzio, portando il suo compito fino alla fine: una vita tutta avvolta nel silenzio, che è la sola parola del compiere la “volontà di Dio”.
Uomo, padre di famiglia, lavoratore, in dignitosa povertà, come vero ornamento della sua famiglia divina; uomo, diremmo noi, “dalla schiena diritta:
insomma uomo giusto”.
Santo da proporre a tutti, senza eccezione. Tanti auguri carissimi e carissime ed affidatevi al grande Patrono S. Giuseppe perché vegli su di voi , come fece con Maria e Gesù.
Oggi la Liturgia della Parola, con molta serietà, ci invita ad accostarci al mistero della Pasqua, se necessario, facendo piazza pulita di quanto a volte fa della nostra piccola “casa del Padre”, che è ciascuno di noi, “un luogo di mercato”.
Troviamo Gesù oramai che sente farsi vicina la sua Pasqua, e sappiamo che non era solo il ripetere la pasqua degli Ebrei, che ricordava la grande liberazione dall’Egitto, ma era ben altra liberazione da questo esilio, in cui ci ha gettato, tutti, il peccato di origine.
Devono essere stati giorni di grande tristezza in Gesù e lo farà capire alla fine di questo vangelo.
Racconta Giovanni: “Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe (che servivano per i sacrifici) e i cambiavalute seduti al banco”. Un mercato insomma, addirittura dentro il tempio. “Fatta allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori dal tempio con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi...e disse: “Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato”.
Fa davvero impressione pensare allo sdegno di Gesù verso chi osa “mortificare” la casa del Padre. Così spiega Giovanni questo sdegno: “I discepoli si ricordarono che sta scritto: Lo zelo per la tua casa mi divora”.
Cerchiamo, in questa prima parte del Vangelo, se per caso, oggi, anche le nostre Chiese, a volte sono “luoghi di mercato”. E’ giusto chiederselo e io, come vescovo, questo problema me lo sono posto tantissime volte in occasione dei Battesimi, delle Prime Comunioni, e non ultimo, dei matrimoni.
Nessuno vuole negare la gioia e la festa in queste occasioni, che sono davvero la festa dei doni che Dio ci fa, o con il farci suoi figli nel Battesimo, o ancora di più nel farci partecipi del “Suo Corpo e Sangue” nella Eucaristia o, nel grande momento della Pentecoste, in cui lo Spirito Santo ci rende testimoni forti e coraggiosi nel vivere la fede e donarla; e non ultimo il grande giorno in cui l’uomo e la donna sono addirittura ministri della meravigliosa vocazione a essere “una cosa sola”, per tutta la vita, nel matrimonio, che con Gesù deve divenire con i figli: “piccola chiesa domestica”. E che tutto questo sia segnato da una nota di festa in Chiesa va bene. Quello che fa veramente male e fa della Chiesa il ghiotto mercato del consumismo, è quell’eccesso di esteriorità in cui ciò che appare è il mercato, “usando il sacramento”.
Non è giusto.
Quante volte fanciulli preparati alla prima comunione, “giorno beato”, abbandonano l’Eucarestia la domenica dopo, come se la “festa fosse finita”. E così della Cresima, in cui pare che il mandato dello Spirito “Andate e dite alle genti la buona Novella” si fermi ad “andare”; ossia si abbandona la Chiesa, tradendo il dono ricevuto. Per non parlare del “fasto”
che urta la “povertà evangelica”, che è indice di serietà, nei matrimoni, che a volte si sciolgono dopo poco tempo come “neve al sole”.E tutto questo “per apparire” agli occhi della gente, che è il vizio del nostro tempo, ignorando la festa che Dio fa con noi, nel Cuore, per sempre.
Davvero sembra che il consumismo, ossia “il mercato” a volte abbia invaso la casa del Padre. Che farebbe Gesù in questi casi? Userebbe la sferza fatta di cordicelle, cacciando quanti osano “usare la casa del Padre” come palcoscenico per fare colpo agli occhi della gente e dei fotografi? Ma tutto questo può essere superato, formando veramente alla fede e ricordando quella povertà di Cristo che Lo accompagnò dalla nascita, ai momenti solenni della sua vita, finendo nella povertà più integrale che è stata la croce. E’ lì che si vive la passione per Cristo! E si fa festa!
Fa davvero meditare quanto il S. Padre, Benedetto XVI, allora Cardinale, disse durante la Via Crucis dello scorso anno, commentando la nona stazione: “Che cosa può dirci la terza caduta di Gesù sotto il peso della croce? Forse ci fa pensare alla caduta dell’uomo in generale, all’allontanamento di molti da Cristo, alla deriva verso un secolarismo senza Dio. Ma non dobbiamo pensare anche a quanto Cristo debba soffrire nella sua stessa Chiesa?
A quante volte si abusa del sacramento della Sua Presenza, in quale vuoto e cattiveria del cuore spesso entra! Quante volte celebriamo soltanto noi stessi senza renderci conto di Lui! Quante volte la sua Parola viene distorta e abusata! Quante parole vuote! Quanta sporcizia c’è nella sua Chiesa e proprio anche in coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere totalmente a Lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! Quanto poco rispetto al sacramento della riconciliazione, nel quale Egli ci aspetta per rialzarci dalle nostre colpe… Signore, spesso la tua chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti. E anche nel suo campo di grano vediamo più zizzania che grano!
La veste e il volto così sporchi ci sgomentano. Ma siamo noi stessi a sporcarli. Siamo noi stessi a tradirti ogni volta, dopo le nostre grandi parole, i nostri grandi gesti. Abbi pietà della tua Chiesa, anche all’interno di,essa. Adamo cade sempre di nuovo. Con la nostra caduta ti trasciniamo a terra e Satana se la ride, perché spera che non riuscirai più a rialzarti da quella caduta, spera che anche tu, trascinato nella caduta della tua Chiesa, rimarrai per terra sconfitto. Tu però ti rialzerai. Ti sei rialzato; sei risorto e puoi rialzare anche noi. Gesù, salva e santifica la tua Chiesa. Salva e santifica anche noi” (Via Crucis, IX Stazione).
Possono sembrare parole dure in chi, di lì a pochi giorni, Dio sceglierà a drizzare il corso della
Chiesa: “Tu sei Pietro”. E in questi tempi del suo pontificato ci dà segni chiari del voler “rialzare la Chiesa,noi”.
C’è oggi un risveglio in tanti a fare sul serio: ossia a rigettare la troppa attenzione del mondo, o di satana con le sue bugie, che rischiano di farci cadere per sempre sulla strada del nostro Calvario. Ma quello che si accompagna con la voglia di liberarci da questo stato di male, è il senso di non farcela. Tanti, ma tanti, vorremmo entrare nella gloria della resurrezione, ma abbiamo paura.
Ce la faremo? Con la Grazia e la buona volontà tutto è possibile…perché la debolezza della nostra natura è davvero grande, ma è ancora più grande la forza dello Spirito, se Lo accogliamo.
“Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: “Quale segno ci mostri per fare queste cose? Rispose:
Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere. Gli dissero: Questo tempio è stato ricostruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere? Ma Gesù parlava del tempio del suo corpo.
Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva loro detto questo e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù” (Gv 2,13-25).
Fa parte veramente del disegno di amore di Dio verso di noi, a volte permettere che “facciamo acqua da tutte le parti”, fino ad avere l’impressione di affondare, per poi fare irruzione con il grande dono della resurrezione ossia della Pasqua.
Non ci resta che dire grazie a Dio se a volte prende a frustate i nostri atteggiamenti che fanno della Chiesa, che è anche in noi, “una spelonca di ladri”, dimenticando che siamo “casa del Padre”.
E’ in questi momenti che dobbiamo alzare gli occhi all’invito alla resurrezione, volgendo i nostri passi verso il Cielo, sempre tenuti con tenerezza dalle mani del Padre.
Questa è la Quaresima che dovremmo vivere: un cammino verso la resurrezione, guidati da quelle stupende regole, che sono il patto di amicizia tra noi e Dio, e che sono fondamentali per la santità e per una civiltà di amore. Guardiamo “dentro i comandamenti”
l’amore del Padre e la nostra felicità.
“In quei giorni Dio pronunziò tutte queste parole: Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto dalla condizione di schiavitù; non avrai altri dèi di fronte a me. Non pronunzierai invano il mio nome…Ricordati del giorno di sabato per santificarlo.
Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà. Non uccidere. Non commettere adulterio. Non rubare. Non pronunziare falsa testimonianza contro il tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né qualunque cosa gli appartenga” (Es 20,1-17).
Così pregava Mons. Tonino Bello: “Con quest’olio, bambino mio, ti innesto nella centrale energetica del Signore e ti trasmetto la forza stessa di Gesù. Se ti capiterà di fare il braccio di ferro con la potenza del male, non avere paura, nei tuoi muscoli scorrerà l’identico vigore con cui Cristo ha sconfitto il demonio.
Quando, poi, divenuto più grande, ti dovrai caricare il fardello degli impegni cristiani e la vita ti obbligherà a un esercizio difficile di sollevamento pesi, stai tranquillo, le spalle non si incurveranno e le ginocchia non vacilleranno. Perché quest’Olio dello Spirito Santo ti farà diventare tutt’uno con il Signore che si mette alla stanga con te” (1990).


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Omelia del giorno 26 Marzo 2006

Messaggio da Redazione » gio mar 23, 2006 9:18 am

IV Domenica di Quaresima (Anno B)

Che follia non farsi amare!


Oramai si stringe il tempo che ci accosta alla Santa Pasqua, “quel grande giorno del Signore”, “un giorno senza tramonto per l’eternità”, in cui esplode una dimensione che non possiamo nemmeno immaginare. I Santi di tutti i tempi, ancora oggi; questa dimensione dell’amore di Dio, che vorrebbe invaderci fino ad occupare tutto di noi, come unico bene e sola immensa felicità, hanno avuto la gioia incontenibile di non solo immaginarla, ma di viverla.
Chi di noi si reca a La Verna, nella chiesetta dove S.
Francesco ricevette le sacre stimmate, rimane sbalordito dal suo amore, che chiese di provare amore e dolore per vivere Cristo: per lui era la somma felicità.
Ma si ha come l’impressione che la Quaresima, la Pasqua, oggi, per troppi sia un tempo senza alcun valore divino. Non si accorgono di essere immersi in un mondo fatto di nulla e questo nulla diventa il terribile vuoto del cuore.
Lo vogliamo o no, miei carissimi carissime, possiamo fare a meno di tutto, ma non dell’amore di Dio. Dio è tutto, il resto è superficialità o pericoloso nulla, se non un inferno inconfessabile. Eppure non si vuole neppure entrare in se stessi e trovare la via di casa, come fece il figlio prodigo (una parabola che in questo tempo dovremmo meditare a lungo) che, dopo avere abbandonato la casa del Padre, sicuro di trovare fuori una effimera felicità, alla fine fu lasciato solo - la nostra solitudine - in totale miseria, lui così ricco nella casa del Padre, costretto a fare da guardiano dei porci e rubare le ghiande a loro destinate. Ma alla fine lo Spirito suscitò la nostalgia del Padre e “rientrò in se stesso” e disse: Tornerò da mio Padre.
L’incontro con il Padre, che lo attendeva sulla porta di casa, è una riga di Vangelo che fa piangere di commozione quanti ancora hanno conservato un briciolo di desiderio del Cielo. Anche solo immaginando la scena, descritta direttamente dal cuore di Gesù, non si può che commuoversi nel vedere il padre che, scorgendo da lontano il ritorno del figlio, gli corre incontro, e, commosso, gli getta le braccia al collo e lo bacia e dice: “facciamo festa, perché questo figlio era morto ed ora è tornato a casa”. E lo veste di vesti nuove, come a voler strappare tutto lo sporco con cui il mondo gli aveva rivestito la vita come di una seconda inaccettabile pelle.
Il Vangelo di oggi torna solennemente a proclamare questo Cuore misericordioso di Dio. “Gesù disse a
Nicodemo: Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in Lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio unigenito nel mondo per giudicare, ma perché il mondo si salvi per mezzo di Lui” (Gv 3,14-21).
Come dovrebbe suonare dolcissimo al cuore di
tutti: “Dio ha tanto amato il mondo...” Siamo assetati di amore, ma forse lo cerchiamo altrove, senza di Lui.
Viene da chiederci se è possibile che ci sia qualcuno che possa vivere rifiutando o ignorando questo amore? E’ possibile perché l’amore è un meraviglioso dono che esige da parte nostra un sì libero, totale. Ci si vuol bene in due! Dio e noi.
Ma sembra proprio che in tutti i tempi, dalla creazione, tante volte abbia la meglio seguire il proprio egoismo, come fu per Adamo ed Eva, che alla fine si trovarono “nudi”: la stessa nostra nudità, che però rincorriamo testardamente, per non accettare quel grande amore del Padre.
Raccontano le Cronache della S. Scrittura: “Il Signore Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché amava il suo popolo e la sua dimora…Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine senza più rimedio” (Cr 36, 14-19).
Fa impressione come la stessa insensibilità, o peggio ancora il rifiuto dell’amore misericordioso di Dio, sia evidenziato nelle parole che Paolo VI, allora cardinale a Milano, disse nel lontano 1962, a
Pasqua: “Vi è una grande parte del mondo moderno che considera Cristo, per usare la parola stessa del Vangelo, il bersaglio della contraddizione. Cristo è il
nemico: ma perché? Sarebbero da ripetere le patetiche e stringenti domande del Venerdì Santo, quelle che la liturgia pone drammaticamente sulle labbra di Cristo morente, le così dette “Lamentazioni”. “Popolo mio che ti ho mai fatto?
In che cosa ti ho contristato? Rispondimi”. Cristo che ha dato all’uomo la coscienza della sua dignità, che gli è stato maestro di vita, che è stato per il mondo la sorgente della libertà, della pace e dell’amore. Cristo è il nemico, dicono. Deve morire. Bisogna sopprimere il suo ricordo, la sua dottrina, la sua Chiesa. Paesi interi, lo sappiamo, fanno di questo furore anticristiano la loro bandiera”.
E non ci vuole tanto per vedere come questo sia vero.
C’era un tempo cui le nostre famiglie davvero vivevano nel nome e con una presenza di Dio in tutto e sempre...era una vita economicamente difficile, ma era ricca di tutto ciò che dona la presenza di Dio.
Oggi sembra che, sicuramente tante volte per ignoranza, Cristo sia bandito dai discorsi o dalle preghiere in famiglie...come non esistesse più. A volte è anche difficile trovare nelle case qualche segno dell’amore di Dio, nel crocifisso. Quello che è ancora più doloroso è quella scomparsa dal ricordo e dall’amore, come fosse un inutile intruso e non l’amico che ci attende a braccia aperte, come sulla o croce, pronto a gettarle sul nostro collo.
Ma scomparso Dio dalla nostra vita, chi o cosa ci rimane che ci assicuri pace, gioia, serenità e sopratutto tanta voglia di volersi bene? Deve essere “duro”, anche per Gesù, vedersi rifiutato, Lui che ci “ama tanto, e per l’eternità”, come nessuno di noi sa dare o fare?
Suonano oggi come un dolcissimo richiamo, che dovrebbe smuovere le nostre coscienze come quando siamo colpiti da una persona che all’improvviso ti dice “ti amo”.
“Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo figlio unigenito perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Non è venuto tra noi per giudicarci, ma per salvarci per mezzo di lui”. Eppure noi, che certamente non siamo i più adatti a essere giudici dei nostri fratelli, perché “dentro” ci sentiamo peccatori, a volte ci indigniamo e gridiamo sia fatta giustizia per chi sbaglia: una giustizia che non conosce misericordia, ma solo punizione.
Ricordate quel meraviglioso racconto della donna adultera, nel Vangelo? I suoi concittadini l’avevano colta in fragrante adulterio, un peccato che allora veniva punito con la pubblica lapidazione, morendo così “due volte”, la prima per il disprezzo di tutti e quindi con la lapidazione. La portano davanti a Gesù, chiedendo un suo giudizio e lo fanno per metterlo alla prova. La risposta alla domanda è di quelle che costringono a riflettere: “Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra”. Poi, come volendosi estraniare da quel cerchio di giudici senza misericordia e ingiusti, si diverte a scrivere per terra, non alzando mai lo sguardo sulla scena. Alla fine si alza e, vedendosi solo di fronte a quella donna “distrutta dentro”, senza speranza, chiede: “Donna, dove sono i tuoi accusatori?” Questi, infatti, se ne erano andati,vedendo che la mitezza di Gesù aveva messo a nudo il loro animo, che non aveva diritto a giudicare. “Neppure io ti condanno: va’ in pace e non peccare più”.
E’ davvero il frutto della Pasqua che tutti vorremmo gustare. Ma siamo pronti ad affidarci alla misericordia, cambiando vita? Dio sa quante volte anche noi vorremmo uscire dal buio dell’anima e sentirci
dire: “Va’ in pace e non peccare più”.
Vorrei fare nostra la preghiera che il S. Padre rivolse a Dio, commentando la tredicesima stazione della Via
Crucis: “Gesù deposto dalla croce”.
“Signore, sei disceso nell’oscurità della morte. Ma il tuo corpo viene raccolto da mani buone e avvolto in un candido lenzuolo. La fede non è morta del tutto, il sole non è del tutto tramontato. Quante volte sembra che tu stia dormendo. Come è facile che noi uomini ci allontaniamo e diciamo a noi stessi: Dio è morto. Fa’
che nell’ora della oscurità riconosciamo che tu comunque sei lì. Non lasciarci soli quando tendiamo a perderci di animo. Aiutaci a non lasciarti da solo.
Donaci una fedeltà che resista nello smarrimento e un amore che ti accolga nel momento più estremo del tuo bisogno, come la madre tua, che ti avvolse di nuovo nel suo grembo.
Aiutaci, aiuta poveri e ricchi, i semplici e i dotti a vedere attraverso le loro paure e i loro pregiudizi, la tua presenza che è solo bontà, e a offrirti la nostra capacità, il nostro cuore, il nostro tempo, preparando così il giardino nel quale può avvenire la resurrezione”.
Ricordo un convegno sul tema “droga, come liberarsi?” Era gremita la sala, come in cerca di qualcuno che indicasse la via della resurrezione. Si alternavano al tavolo giudici, psicanalisti e specialisti:
un fiume di parole che ci mischiava con il denso fumo delle sigarette...senza indicare anche una minima via di uscita. All’improvviso si alzò un giovane e
disse: “C’è uno che può risolvere il problema: Gesù Cristo. Io ero drogato, Lui mi ha salvato”. Una risposta secca, cui nessuno osò porre obiezioni e si sciolse l’assemblea, come quella che voleva processare l’adultera, salvata dall’amore di Gesù.
Può accadere anche a noi, anche se sotto altre forme.
E’ questa la Pasqua.

Antonio Riboldi – Vescovo –
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Domenica delle Palme (Anno B)

Messaggio da Redazione » gio apr 06, 2006 11:26 am

Omelia del giorno 9 Aprile 2006

Domenica delle Palme (Anno B)
Benedetto colui che viene

In punta di piedi, lasciamoci sorprendere e commuovere dalle liturgie di questa settimana, che giustamente la Chiesa definisce “Santa”.

E’ una settimana in cui Dio non solo ci svela in Gesù Suo Figlio quanto ci ama, ma chiede di essere amato. Una settimana in cui ogni vero discepolo di Gesù si fa sorprendere e commuovere dall’amore, fino a “entrare nel vivo del Suo Cuore e farci plasmare”.

Vorrei dire a voi, che siete diventati miei amici e quindi compagni nel cammino verso Dio, i sentimenti che provava Paolo VI proprio commentando questa domenica, detta “delle Palme”.

“Se noi vogliamo comprendere bene la nostra vita e l’indirizzo che sempre intendiamo imprimerle, dobbiamo guardare a Cristo. Egli è il Re, il Sovrano della storia, il centro di ogni aspirazione e la meta dell’uomo. Egli consegue il suo trionfo nel dare quanto ha: il sangue, l’onore, la sua libertà, la sua vita per noi. Gesù ci ha salvati nel dolore e nell’amore. Figlioli, lasciamoci impressionare da queste altissime verità. Incominciamo a comprendere le scene che il racconto evangelico e le cerimonie liturgiche rievocano davanti alle nostre anime. Lasciamoci commuovere, sì commuovere. C’è molto bisogno, proprio di scuotere i nostri sentimenti a volte stagnanti, opachi, tetri, incapaci di vibrare dinanzi a queste supreme lezioni, che riguardano la storia e le finalità stabilite per l’uomo. Sentiamo nelle nostre anime ciò che Gesù Cristo sentì in se medesimo. Che da Lui a noi passi il fluido, la corrente dei suoi sentimenti per trasformare ed accendere i nostri! Gesù ci ha amato: ha offerto la sua vita per noi: ciascuno di noi è debitore a lui di una salvezza per cui è occorso il prezzo del suo sangue. Sì, fratelli, lasciamoci commuovere e coinvolgere.

Non possiamo rimanere inerti, non dobbiamo più oltre comportarci come insensibili, refrattari, nemici. Curviamo invece la fronte, come il Centurione che, dopo aver confitto in croce Gesù, quando lo vide morto, confessò: Veramente era il Figlio di Dio!” (11 aprile 1965).

Ma saremo capaci di accostarci con sincerità e umiltà di cuore a questa fonte di amore e felicità, uscendo dal ghetto del nostro egoismo, che è davvero il buio del cuore? Lasciamoci commuovere!

Durante tutta la settimana, deve accompagnarci l’apostolo Paolo, che così scriveva ai Filippesi questa storia di amore di Dio: “Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù, ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (Fil 2,6-11).

Poche righe che raccontano l’amore di Dio, che si rivela e si mostra in questa settimana santa, che ci porta alla Pasqua.

Inizia questa settimana con “le palme o ulivi”.

Così narra Giovanni l’evangelista: “La gran folla che era venuta per la festa, avendo udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele! Gesù, trovato un asinello vi montò sopra, come sta scritto: “Non temere, figlia di Sion, ecco il tuo re viene seduto sopra un puledro di asina!” Sul momento i suoi discepoli non compresero queste cose! Ma quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che questo era stato scritto di lui e questo gli avevano fatto” (Gv 12,1-16).

Il nostro è un tempo - ma è l’eterna storia dell’uomo, malato di superbia – che sostituisce la mitezza dell’amore, con il trionfalismo di sé. Dio sa molto bene che l’amore va a braccetto con l’umiltà. Vuole essere amore e basta. Forse noi, al posto di Gesù, in quella cavalcata di osanna, avremmo suonato tutte le trombe possibili, per un trionfo che il più delle volte genera umiliazioni di altri...come avviene.

L’amore è come “il chicco di grano che se caduto in terra non muore non può portare frutto”. L’amore è davvero il dono di Dio ed il sogno di ogni uomo di buona volontà, e come tale è l’infinita dolcezza di perdersi nel volto di chi si ama, magari perdendo se stesso, come Gesù. S. Chiara amava dire che per essere di Cristo occorre avere umiltà, povertà e carità. In altre parole “spogli di ogni ambizione o idolatria, ricchi di cuore”. Come sarebbe bella la vita, il mondo, gli uomini se così fosse in tutti. Questa del resto è stata la lezione che Gesù ha indicato per quella pace che è l’anelito dell’uomo.

E certamente il bisogno di pace, oggi, lo si sente da tutti, a cominciare dalla gente comune che, con aria di festa, inonda le nostre città, agitando palme o rami di olivo, sapendo che ha di fronte a sé, una densa coltre di violenze che tolgono a volte anche il respiro della pace.

Siamo davvero stanchi di tanti egoismi, che generano violenze di ogni sorta. Una violenza che sembra impazzita, entrando persino nelle famiglie con le tragedie che raccontano le cronache.

Siamo davvero nauseati del come vediamo strappato ogni lembo di dignità nelle torture, nelle emarginazioni, e viene da dire quanto con amarezza disse Levi: “Ma che uomo è mai questo?” La superbia dell’uomo forse non si rende conto del come stritola i fratelli, come fossero “merce da usare” in ogni modo o “cose di poco conto”.

A volte sentiamo l’amarezza di una vita che potrebbe essere la gioia di gridare, agitando le palme: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”...come la sentì Gesù vedendosi non accolto e capito.

Chi di noi è stato pellegrino in Terra Santa, certamente avrà fatto la ripida discesa che da Betfage porta all’Orto degli Ulivi. A mezza strada si incontra un luogo chiamato “Dominus flevit”. Ai piedi di questa strada vi è il Getsemani e quindi l’Orto degli Ulivi, dove Gesù ha vissuto la sua “agonia”. Di fronte c’è la grande Gerusalemme con la spianata dei templi: Gerusalemme, la città di Dio, che non ha saputo accogliere il Figlio di Dio.

Racconta l’evangelista Luca: “Quando fu vicino alla città, Gesù la guardò e si mise a piangere per lei. Diceva: “Gerusalemme, se tu sapessi almeno oggi, quel che occorre alla tua pace! Ma non riesci a vederlo. Ecco, Gerusalemme, per te verrà il tempo nel quale i tuoi nemici ti circonderanno di trincee. Ti assedieranno e premeranno su di te da ogni parte. Distruggeranno te e i tuoi abitanti e sarai rasa al suolo, perché tu non hai saputo riconoscere il tempo nel quale Dio è venuto a salvarti” (Lc 19,41-45).

Ogni volta mi reco in quel luogo, mi siedo a lungo e cerco di capire l’amarezza, ancora di più il pianto del Figlio di Dio, che era ed è la sola pace possibile se accolto, e mi chiedo cosa direbbe oggi delle “nostre Gerusalemme”, che siamo noi. Mi chiedo fino a che punto sappiamo riconoscere il tempo, che è l’oggi, in cui Gesù viene in mezzo o incontro a ciascuno di noi...ma “non siamo riusciti a vederLo…perché non sappiamo riconoscere il tempo in cui Dio viene a salvarci...Lo sapessi almeno oggi!”.

Come possiamo non farci interpellare da questo pianto di Gesù, restando indifferenti di fronte a tanto amore che non accolto diventa pianto? E’ il grande momento questa Settimana Santa di cogliere l’occasione di “riconoscere il nostro tempo” e quindi asciugare le lacrime di Dio. Ma saremo capaci?

Ripercorrendo le stazioni della via Crucis, proposte dal S. Padre lo scorso anno, alla vigilia di quel grande evento che fu la morte del grande Giovanni Paolo II (ricordate?), così l’allora Card. Ratzinger, ora nostro amato Papa, per le donne che incontrandoLo sulla via del Calvario piansero di dolore, così pregò: “Signore, alle donne che piangono hai parlato di penitenza, del giorno del giudizio, quando ci troveremo al cospetto del tuo volto, il volto del Giudice del mondo. Ci chiami a uscire dalla banalizzazione del male con cui ci tranquillizziamo, così da poter continuare la nostra vita di sempre. Ci mostri la serietà della nostra responsabilità, il pericolo di essere trovati, nel giudizio, colpevoli e infecondi. Fa’ che non ci limitiamo a camminare accanto a te, offrendo soltanto parole di compassione. Convertici e donaci una nuova vita; non permettere che alla fine rimaniamo come il legno secco, ma fa’ che diventiamo tralci viventi in te, e che portiamo frutti per la vita eterna” (Via Crucis, ottava stazione).

Oggi, domenica della Palme, vogliamo aggregarci al popolo umile e devoto che portava in trionfo Gesù agitando palme e olivi. Portiamo con noi il ramoscello di ulivo che ci sarà dato e questo sia segno della nostra buona volontà di farci convertire da Gesù e vivere di Lui, che è la vera pace. E con l’ulivo questa pace entri nelle vostre case e sia il sorriso e la speranza tra di noi, come un canto di fiducia.

Vivremo insieme i grandi giorni di questa settimana santa

-Giovedì, la giornata della Eusarestia “in Cena Domini” e quindi l’adorazione notturna a fare compagnia a Gesù nella sua agonia nel Getsemani.

-Venerdì Santo è il grande giorno dell’amore che non teme di essere come “pane stritolato e spezzato, grano che caduto in terra muore”, per dare vita al grande albero della resurrezione o Pasqua.

Vi sarò vicino, con qualche breve riflessione, in modo da vivere insieme questi giorni che sono “la solennità dell’amore che si dona”.


Antonio Riboldi – Vescovo –

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E-mail: riboldi@tin.it




NOTA BENE:

Martedì santo il mio carissimo e prezioso collaboratore, che è quello che si carica con tanto amore a farvi avere le riflessioni, il buon Guido, vi farà avere una breve riflessione per il Giovedì Santo e il Venerdì Santo che vi aiutano a vivere spiritualmente i grandi Misteri di amore di Gesù.

La riflessione della S. Pasqua sarà come al solito.
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Santa Pasqua – Resurrezione del Signore (Anno B)

Messaggio da Redazione » gio apr 13, 2006 4:38 pm

Omelia del giorno 16 Aprile 2006

Santa Pasqua – Resurrezione del Signore (Anno B)

Cristo è risorto, Alleluja!

Sento davvero la necessità del cuore di far tutti voi, miei amici carissimi, che ogni settimana condividete con me il cammino della fede, forse con fatica, a volte come la salita di Gesù al Calvario, partecipi della gioia mia, di tutta la Chiesa, per la grande solennità della Pasqua.
“Questo è il giorno che ha fatto il Signore, alleluia”, canta da sempre la Chiesa e tutti gli uomini che credono.
E’ il giorno che mette fine a quella notte che era scesa su tutti noi dopo il peccato di Adamo ed Eva. Una terribile notte del cuore, perché ci sentivamo come orfani del Padre, condannati a vagare in una vita che, senza l’amore del Padre, non ha nessun senso e chiude le porte della speranza.
Quanto è terribile questa notte che troppe volte, ancora oggi, si vive perché non si ha forse il coraggio o la volontà di entrare nel giorno del Signore: un giorno che non conosce più tramonto, perché Cristo Risorto non muore più; non solo, ma con la sua resurrezione ha spalancato le porte del cielo: quelle porte che tanti hanno davanti al volto del cuore e cercano di raggiungere per entrarvi, perché là, e solo là, regna Cristo Risorto, là c’è l’eternità della felicità, il vero senso della nostra creazione, ossia il perché ci ha fatto dono della vita. Sempre che per vita intendiamo un camminare con Cristo, non portandoci addosso le paure e la tristezza, come fu per i due discepoli sulla strada di Emmaus…inconsapevoli che Gesù, sì era stato crocifisso, ma come gesto estremo di amore per renderci liberi e figli del Padre. La morte era il passaggio alla felicità, come è nella natura dell’amore.
Scrive a noi, oggi, Paolo l’apostolo: “Fratelli se voi siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù dove si trova Cristo, assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con Lui nella gloria” (Col 3,1-4).
Vorrei essere capace di trasmettere l’incontenibile gioia dei discepoli che, raccolti nel cenacolo, con una grande paura e con il senso di avere sbagliato tutto e di essere orfani, vittime di un gran buio nell’anima, quando meno se lo aspettavano, quel mattino di Pasqua, si trovarono improvvisamente di fronte Gesù risorto. “La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato (la nostra domenica, giorno del Signore) mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli, per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi”.
Detto questo mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono nel vedere il Signore” (Gv 20,19-31).
Paolo VI, così esprime la sua gioia pasquale: “Il mistero di Pasqua è così alto e così grande, che spazia su tutta la vita cristiana, sulla dottrina, sul costume, sulla liturgia...e offre cento aspetti su cui si infrange la sua luce, che è come sole nella oscurità dei nostri destini umani. La Chiesa canta nella notte del Sabato Santo l’inno pasquale, invitando la terra a gioire di questo beato splendore: “Tripudi la terra irradiata da tanto fulgore”...E’ tal cosa, perciò, la Pasqua, che subito ci stupisce e ci esalta, e a volerla in qualche modo annunciare e celebrare, essa fa sorgere negli animi tali sentimenti di letizia e di pace, e suscita una commozione che insieme confonde ed
annuncia: Sono giunti i giorni in cui dobbiamo cantare l’Alleluya, su via, fratelli canti la voce, canti la vita, cantino le azioni” (Paolo VI - Pasqua 1959).
E’ vero, stiamo respirando un clima da venerdì santo, ossia di timore, che sembra togliere speranza al futuro. Molti di noi si sentono confusi, vittime di una vita senza amore, che sconfina nel grande male della solitudine. Non riusciamo a vedere un accenno di resurrezione per tanti avvenimenti che sono il frutto di un mondo che sembra si ritrovi a interrogarsi sotto la croce di un Dio, che si lascia crocifiggere, come se all’uomo anche questo toccasse, la morte di Dio. Una morte impossibile. Non sanno che sulla croce di Gesù spunta la Pasqua, sulla nostra “poca o nulla fede”, spunta solo la disperazione.
Quante volte, credo, abbiamo noi stessi sperimentato la grande amarezza di “sentirci” come finiti, senza più speranza. Penso alle famiglie che molte volte credono di essere arrivate al termine del loro amore: non trovano l’energia, che l Grazia assicura sempre, e si spezzano, seppellendo amore, felicità, tutto insomma.
Un grande venerdì che coinvolge oggi tantissimi uomini e donne, finiti sulla croce della separazione.
Penso a tanti che attraversano momenti di difficoltà di vario tipo, personali, che sono davvero come la corona di spine sul cuore, e non trovano motivo di continuare a lottare, come sepolti dalle difficoltà, che a volte portano al suicidio o alla follia.
Penso a tanti che hanno perso quella meravigliosa fede, che era negli apostoli quando stavano con Gesù. Si sono lasciati sviare dalla mentalità del mondo, dalla voglia di successo, di potenza, di immagine e hanno creduto che la felicità stesse nell’uscire dalla casa del Padre, come per il figlio prodigo. Alla fine si trovano così “nudi” e “affamati”, da desiderare da una parte di credere nella resurrezione e dall’altra non si fa strada la via meravigliosa della misericordia. Ossia il “coraggio di rientrare in se stessi” e tornare a casa, per stupirsi nel vedere il Padre che li attende e corre incontro, non a giudicare o condannare, ma a mettere le braccia al collo e fare festa. Una festa, che ci dona Gesù risorto.
Voglio comunicare a voi, miei carissimi amici, la grande commozione che provo ogni volta leggo il Vangelo che racconta la ricerca del Maestro da parte di Maria Maddalena. Troppo bello, davvero divino. Un tocco di amore che d’improvviso apre il cielo, perché l’amore è cielo, non si era mai chiuso e non può mai chiudersi.
“Maria era andata a piangere vicino alla tomba. A un tratto, chinandosi verso il sepolcro, vide due angeli vestiti di bianco. Stavano seduti là ove prima c’era il corpo di Gesù, uno dalla parte della testa e uno dalla parte dei piedi. Gli angeli le dissero: “Donna, perché piangi?” Maria rispose: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno messo. Ma mentre parlava si voltò e vide Gesù in piedi, ma non sapeva che era lui. Gesù le disse: “Perché piangi? Chi cerchi? Maria pensò che fosse il giardiniere e gli
disse: “Signore, se tu l’hai portato via dimmi dove l’hai messo e io andrò a prenderLo”.
Gesù le disse: “Maria”. Lei si voltò e gli
disse: “Rabbuni (che vuol dire Maestro)!”. Gesù le
disse: “Lasciami perché non sono ancora tornato dal Padre; ma va’ e dì ai miei fratelli che io torno al Padre mio e Padre vostro, al Dio mio e vostro” (Gv 20,11-18).
Commuove veramente questa donna che amava tanto Gesù da non volere pensare di averLo perso, rifiutando quasi il pensiero della morte, un pensiero che l’amore e la santità rifiutano sempre, e appena può lo va a trovare. A lei non importava che fosse
sepolto: per lei Gesù “era vivo”!
Impossibile descrivere quel paradiso che si è fatte strada nel cuore di Maria, sentendosi chiamare per nome. Quel “Maria!” è la gioia pasquale che vorremmo sentire tutti, senza eccezione. Una gioia che chiede di avere la fede di Maria e va in cerca del Maestro...non Lo aspetta. Non si rassegna.
E’ la gioia che hanno provato tanti, e provano ancora, che si sono sentiti chiamati “per nome”: come Paolo sulla via di Damasco: come tanti, ieri e oggi, che si convertono.
Una gioia che vorrei augurare a ciascuno di voi, come vera Buona Pasqua. La gioia che ha inizio nel mettere al centro della vita Dio e, nel buio della vita, cercarLo per sentirsi chiamare per nome.
Così canta la Chiesa la Pasqua ieri, oggi, sempre:
“Alla vittima pasquale, si innalzi oggi il sacrificio di lode. L’Agnello ha redento il suo gregge: l’Innocente ha riconciliato noi peccatori con il Padre. Morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Il Signore della vita era morto: ma ora vivo, trionfa.
‘Raccontaci, Maria, che hai visto sulla via? La tomba del Cristo vivente, la gloria del Cristo risorto e gli angeli suoi testimoni: il sudario e le sue vesti. Cristo, mia speranza è risorto e vi precede in Galilea’.
...E tu, Re vittorioso, portaci la tua salvezza”.
Sarò vicino a tutti voi a cercare Gesù “sepolto”, per sentirsi da lui chiamare per nome e così riempirci di cielo. Buona Pasqua!

Antonio Riboldi – Vescovo –
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Omelia del giorno 23 Aprile 2006

Messaggio da Redazione » gio apr 20, 2006 2:26 pm

Omelia del giorno 23 Aprile 2006

II Domenica di Pasqua (Anno B)

Abbiamo visto il Signore!


Ci sono momenti nella vita in cui verrebbe voglia di chiudersi in se stessi nel silenzio dell’anima, resa muta da fatti, sofferenze, tragedie che ci tolgano la stessa voglia di vivere...come se in noi ci fosse solo dolore e fallimento e la vita fosse giunta ad un insuperabile traguardo che sbarra ogni spiraglio di speranza.
Così deve essere stata, secondo il Vangelo, l’anima degli Apostoli dopo la morte del Signore. Quanta speranza avevano posto in Lui! Lo avevano seguito, abbandonando tutto, certi di avere trovato “il TUTTO”.
Ma quella incredibile “resa del Maestro”, che si consegna a chi era venuto per arrestarLo, Lui, non solo l’Innocente, ma addirittura la speranza per tutti, che si lascia portare via, senza alcuna difesa!
Un andare incontro alla passione che la dice lunga sul significato dell’amore che si dona, perché l’amico, noi, diventassimo liberi, amati.
Vedere poi Gesù, depredato di tutto, dalla dignità, alla vita, fino a essere “meno che nulla sulla croce”, divenuto scherno di chi forse si meravigliava sua impotenza! Conoscevano la sua vita, fatta di miracoli, di eventi che solo Dio poteva compiere e Lo invitavano a mostrare questa sua origine divina, come un insulto. E Gesù taceva, si offriva al Padre come Agnello immolato, sapendo che questa è la legge dell’amore che si fa dono a chi ha necessità di essere liberato solo dall’amore.
Quelle mani di Gesù fermate dai chiodi e quindi impedite anche solo nel dare una carezza, di imporsi sui malati e guarirli, erano destinate a essere le nostre mani di vescovi, di sacerdoti, di fedeli, che si imporranno per farci liberi dal peccato nel Battesimo e nel sacramento della Penitenza: rivestiti della potenza di Gesù, si imporranno sul capo dei cresimati perché siano testimoni della Resurrezione e quindi, con la forza dello Spirito, vivere da risorti: sul capo di noi sacerdoti e vescovi per continuare con la Sua Potenza la missione di salvezza nel mondo.
Davvero benedette quelle mani e quei piedi fissi sulla croce e che nella Chiesa sono nei secoli mani sempre tese verso l’uomo, piedi sempre in cammino alla ricerca dell’uomo, per liberarlo dalla pericolosa solitudine senza Dio.
Gli Apostoli amavano tanto Gesù: avevano accettato senza esitazione di seguirLo, condividendo tutto con Lui, forse non sapendo inizialmente la grandezza della loro vocazione.
E per la paura di fare la stessa fine si erano nascosti.
“Ma la sera di quello stesso giorno - racconta Giovanni l’Apostolo - il primo giorno dopo il sabato (la domenica che per noi è il giorno del Signore), mentre eran chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Detto questo mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono nel vedere il Signore. E Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi!
Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. E dopo avere detto questo, alitò su di loro e
disse: “Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi” (Gv 20,19-31).
Deve essere stata immensa la gioia e lo stupore degli apostoli a quella improvvisa e forse incredibile apparizione. Allora, si saranno ricordati a vicenda quello che Gesù continuava a ripetere: “Il figlio dell’uomo sarà consegnato ai farisei che lo flagelleranno e lo crocifiggeranno…Ma il terzo giorno risusciterà”. Ed ora era lì circondato di una gloria
immensa: una gloria che era uno schiaffo alla paura, alla stupidità degli uomini che credevano forse davvero che ci si potesse “liberare” da Dio, come se questo fosse un trionfo e non un affidarsi all’inferno senza di Lui. Aveva ragione ed ha ragione, oggi, Gesù, davanti a chi crede di oscurare o “uccidere
Dio”: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”.
Abbiamo bisogno anche noi, tante volte soggetti a prove che sembrano il nostro venerdì di spavento, in cui tutto si fa “nero”, di guardare, alzare gli occhi al cielo e vedere la gloria del Risorto, che è la sola speranza che dà respiro alla nostra vita.
Abbiamo bisogno anche noi di vedere Gesù risorto o guardare almeno a Lui, per non cadere nella trappola delle tante illusioni che il mondo offre. “Risorgerò” è in fondo la certezza che ci è compagna sempre ed è come il respiro dell’anima.
Purtroppo “Oggi, afferma Paolo VI, tanto si fa e si parla, per dare al mondo un volto “umano”, ma spesso si sottintende un volto privo di anima umana, un volto materializzato dalla fallace speranza di trarre dalla terra quanto basta a fare l’uomo felice e
completo: si crede che la soluzione dei problemi economici, l’esplorazione scientifica della natura possano liberare e redimere l’uomo; che lo sforzo umano, da solo, valga a raggiungere col possesso del mondo sensibile, la sua vera fortuna” ( Pasqua 1969).
Basterebbe , se si è onesti nella ricerca della verità dell’uomo, dare un’occhiata a questo nostro tempo, pieno di contraddizioni, in cui sembra che trionfi l’egoismo che è la vera morte dell’amore.
E quando l’amore viene messo in croce, ad andare in croce siamo noi, senza però il respiro della resurrezione.
Lo descrive bene cosa voglia dire vivere da risorti il racconto che gli Atti degli apostoli fanno della vita delle prime comunità. Vale la pena di approfondirlo e specchiarsi in loro, confrontandolo con quanto crediamo e siamo noi oggi.
“La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuor solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra di loro comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della resurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande stima. Nessuno infatti tra di loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case, li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno” (At 32-35).
E poco prima, sempre parlando delle prime comunità, raccontano gli Atti: “Ogni giorno frequentavano il tempio. Spezzavano il pane nelle loro case e mangiavano con gioia e semplicità di cuore.
Lodavano Dio ed erano ben visti da tutta la gente. Di giorno in giorno il Signore faceva crescere il numero di quelli che giungevano alla salvezza” (At 2, 46-49).
Vivevano, in altre parole, lo stupore della Resurrezione che gli apostoli con grande forza annunciavano. Come a dire che agli occhi di tutti quelli che sentivano, sembrava aprirsi la bellezza del ritorno a casa, di avere ritrovato il senso e la bellezza della vita nella fede.
Ancora oggi, tanti, ma tanti fratelli nella fede, vivono questo stupore e questa gioia. Come sempre non fanno cronaca: ma sono quei fratelli e quelle sorelle che quando li incontri ti restituiscono quel sorriso dell’anima che il mondo cerca di spegnere con il suo rumore.
Ricordo mia mamma, che viveva davvero la semplicità dei primi cristiani, con una fede fatta vita, con un amore che era il pane della vita.
La sua vita era un vero cammino verso la Pasqua. Un giorno le feci notare la sua semplicità di vita, che sembrava provvisorietà di una veglia che attende la festa. Alla mia domanda del perché questa semplicità mi rispose: “Che vuoi? Per arrivare in Paradiso e risorgere non occorre appesantirsi di cose di questo mondo. Bisogna fare crescere le ali dell’anima per il giorno in cui Dio mi chiamerà. E quel giorno sarà la vera Pasqua che attendo”.
Quando ero parroco a Santa Ninfa in Sicilia e il terremoto mi aveva costretto a vivere in una modesta baracca, la gente si stupiva che facessi nulla per costruirmi una casa, mentre mi battevo per la ricostruzione della loro, risposi: “La mia casa me la sto costruendo giorno per giorno con la fede e la carità, non qui, ma in Paradiso”.
Non è facile entrare in questa visione pasquale della vita. Lo dimostra il Vangelo di oggi con l’episodio di Tommaso, che non vuole credere agli altri
apostoli: “Abbiamo visto il Signore!”. E lui, “se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi, e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mano nel suo costato, non crederò”. Tornò Gesù, invitò Tommaso a fare quello che aveva chiesto. Rispose
Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!” E Gesù: “Perché hai veduto, hai creduto: beati coloro che pur non avendo visto, crederanno” (Gv 20, 19-31).
E noi alle volte siamo come Tommaso. Ci è difficile, guardando quello che succede in noi e attorno a noi, che ci sia un evento che supera tutto e fa pulizia di paure ed errori, Cristo Risorto.
Bisogna che il Signore ci doni quella fede forte, coerente, che ci abitui a guardare verso il cielo per non farsi attirare dalla terra. A volte basterebbe incontrare chi è testimone di questa vita da risorti.
Chi di noi non ricorda il giorno della morte e resurrezione dell’amato Giovanni Paolo II? Lui era là, nella sua semplice bara, in mezzo alla Piazza, circondato dalla ammirazione dell’intera umanità. Ma si aveva l’impressione che lui non fosse morto, era risorto, e finalmente “ha visto faccia a faccia il Signore!” I solenni funerali più che una celebrazione della morte, sembrarono la celebrazione della Pasqua. Quella che vorremmo tutti ed auguro a tutti.

Antonio Riboldi – Vescovo –
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Omelia del giorno 30 Aprile 2006

Messaggio da Redazione » mer apr 26, 2006 8:38 pm

Omelia del giorno 30 Aprile 2006

III Domenica di Pasqua (Anno B)

Resta con noi, si fa sera


Ci sono momenti nella vita di tutti, in cui “si fa sera”:
ossia quello che ci succede sconvolge fino ad annullare anche quel briciolo di serenità o di speranza che tutti coltiviamo ed è il sapore della vita. Chi di noi non ha provato questi momenti “tristi”, al punto da sentirsi smarriti, come abbandonati, come privi di senso?
E’ vero che a volte mettiamo le nostre speranze o certezze su fragilità che crollano davanti alla minima prova.
Oppure, a volte, la nostra fiducia piena la poniamo in persone, come può essere un amico, lo sposo, la sposa, o chi volete, e senza capirne a volte la ragione, improvvisamente, “si fa sera”.
Vorremmo incontrare chi ci dà certezze su cui porre la nostra fiducia: certezze che non vengano mai meno e non ci voltino mai le spalle, ma poi quante volte mostrano la loro natura di non essere “certezze”!
Ho sempre davanti agli occhi quella assemblea di giovani, che amano a volte definirsi “branco”. Stanno insieme, si cercano, ma sanno in fondo che “si incontrano senza conoscersi, stanno insieme senza amarsi, si lasciano senza rimpiangersi”. Invitato ad essere con loro in una assemblea numerosissima:
una assemblea dove l’anima era uno spettacolo, da loro messo insieme, con poesie loro, riflessioni loro, e canti tristi… Si respirava a pieni polmoni “la sera di questi giovani”
in cerca di “giorno”. Invitato a salire sul palco, per ringraziarmi della presenza, chiesi perché mi avevano invitato, proprio loro, che mostravano distacco apparente dalla vita di fede. La risposta è di quelle che gelano il cuore: “A noi manca un papà”, ossia chi ci voglia veramente bene e ci assicuri che la vita è gioia. “Quando parliamo di papà non ci riferiamo ai nostri padri naturali che forse ci accontentano esteriormente, ma vivono alla superficie della nostra vita interiore, come se non interessasse. Parliamo di qualcuno che ci voglia veramente bene, ci sia vicino nel nostro incerto cammino e ci ascolti”.
E’ quello che provarono gli Apostoli e quanti allora avevano seguito Gesù nella sua vita tra di noi. Lui dava certezze: a Lui ci si poteva affidare. Forse si vedeva in Lui una certezza “terrena”. Ma Gesù era venuto e viene tra di noi non per darci sicurezze terrene, ma quella certezza che va oltre la terra ed è quella offerta nella Pasqua, il Cielo.
Ma Gesù in croce, che non ha opposto alcuna resistenza - e poteva farlo nella sua onnipotenza divina - ma scelse la nostra estrema debolezza fino in fondo, fino a farsi spogliare di ogni dignità e bellezza, fece crollare i sogni che gli apostoli avevano posto in Lui. E alla gioia di seguirLo, si sostituì la paura, quella di essere coinvolti nella condanna per il semplice fatto di averLo seguito, di essere stati amati e scelti da Lui.
E fuggono, senza più sapere dove andare e da chi andare. Pare la nostra storia.
Il Vangelo prima narra dei due discepoli che, fuggendo da Gerusalemme, si dirigevano verso Emmaus.
“Ma mentre discorrevano e discutevano insieme - racconta Luca - Gesù in persona si accostò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerLo (come capita tante volte a noi). Ed Egli disse loro: Che sono questi discorsi che state facendo tra di voi durante il cammino?
Si fermarono con il volto triste: uno di loro, di nome Cleopa, gli disse: Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che è accaduto in questi giorni? Domandò: Che cosa? ‘Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e parole davanti a Dio e a tutto il popolo: ma i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l’hanno crocifisso…Noi speravamo che fosse Lui a liberare Israele” (Lc 24,13-35).
Gesù li lascia sfogare, solo alla fine interviene: “Stolti e tardi di cuore nel credere alle parole dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a Lui”.
Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi
insistettero: “Resta con noi, perché si fa sera e il giorno già volge al declino” Egli entrò per rimanere con loro.
Dovremmo meditare a lungo carissimi, questa delicatezza di Gesù che si fa vicino ai due, nel loro cammino senza speranza, nella loro vita in cui era scesa la sera della delusione. “Noi credevamo”. Non si fa riconoscere, ma, con lo stile di Dio, che quando si fa vicino, chiede solo il silenzio e la fiducia dell’ascolto, quasi rispettando il dubbio e quindi la tristezza dei due, si fa voce della certezza, quella dell’amore che a volte pare scomparire nei momenti delle nostre difficoltà, e lo fa per riapparire con quella gioia che era dietro quei fatti tristi, quelle nostre “sere dell’anima”, in cui sembra non debba più apparire la luce. E a noi ripete “Stolti e tardi di cuore”.
Conosciamo tutti il disagio giovanile, che non è solo la sofferenza degli adulti, dei genitori, della società, ma sopratutto della Chiesa.
E’ sempre stato così. C’è un tempo, da adolescenti e giovani, in cui si sogna e spera tanto, magari affidandosi a speranze che hanno il solo compito di fare perdere le tracce della speranza. Era grande il desiderio dell’amato Giovanni Paolo II di essere vicino ai giovani, a cui lui riservava un affetto di eccezione. “Vi ho cercati, dirà prima di morire, e voi siete venuti ad incontrami”.
Per questo ci fu un anno che noi vescovi, cercando di accostarci, rispettosamente, ai giovani nel loro cammino, a volte tortuoso, abbiamo scritto una lettera, proprio prendendo l’esempio di Gesù con i due di Emmaus. Ed è quello che oggi, i Pastori pieni di Spirito Santo, i genitori saldi nella fede, la Chiesa tutta, cerca di fare.
Avvicinare, con estrema delicatezza i giovani, ma in genere tutti quelli che sono nella tristezza dei due di Emmaus, la tristezza di avere come perso il senso della vita e quindi la speranza, esercitando la difficile e meravigliosa arte dell’ascolto, camminando con loro e, solo dopo averne avuta la fiducia, aprire il cielo della Verità.
Con quell’amore che non è mai chiasso, ma solo brezza di aria pulita.
Io non so come ringraziare tanti, ma tanti di voi, che con fiducia, accogliendo le riflessioni che offro e che sono la delicata presenza di Gesù, si aprono con le e- mail, raccontando le loro tristezze e a volte gioie e speranze, certi di trovare un amico che ascolta e conserva nel cuore tutto: certi di trovare l’amico con cui condividere il cammino della vita. Grazie per questo.
Ma il racconto di Emmaus non si ferma a quel “Resta con noi perché si fa sera”. Alla parola, come nella Eucarestia, Gesù si fa amore donato, “pane spezzato”.
La parola così diventa Pane di vita. Solo Dio poteva essere così grande nell’ amore.
Racconta sempre Luca: “Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e diede loro. Ed ecco si aprirono i loro occhi e lo riconobbero.
Ma Lui sparì dalla loro vista. Ma non trattennero quella gioia. Corsero, come narra il Vangelo sempre di Luca, oggi, a raccontare tutto agli apostoli, rannicchiati nella paura.
E a confermare il loro racconto ci pensa Gesù stesso. “Mentre i due parlavano Gesù in persona apparve in mezzo a loro e disse: Pace a voi. Stupiti e spaventati, credevano di vedere un fantasma. Ma egli
disse: Perché siete turbati e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi:
sono proprio io! Toccatemi e guardate: un fantasma non ha carne e ossa come voi vedete che io ho.
Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la grande gioia ancora non credevano ed erano stupefatti, disse: Avete qui qualche cosa da mangiare? Gli offrirono una porzione di pesce
arrostito: egli lo prese e lo mangiò davanti a loro” (Lc 24,35-48).
E’ davvero incredibile la bontà del Signore, che, dopo la terribile prova cui sottopose i suoi, andò oltre l’apparire, ma chiese di toccare mani e piedi e, come a confermarli nella fede, chiese da mangiare e mangiò. Poteva Gesù fugare dubbi e paure in modo più grande?
Questa è la Pasqua del Signore. Una meravigliosa storia del Padre, che non è un racconto di duemila anni fa, ma, per chi davvero cerca serenità, speranza nella tristezza, è realtà di oggi. Per tutti noi.
Raccontano le cronache di Pasqua di tanti fratelli nella fede, che per vivere questa compagnia di Gesù e così entrare nella Pasqua, scelsero, non gli svaghi che tante volte sono una fuga dalla vita, ma il silenzio e la preghiera nei monasteri o nella case di spiritualità. Un modo serio di entrare nella Pasqua.
Da queste righe voglio ringraziare i cari giovani della diocesi di Arezzo, che, come a Natale, vollero accostarsi alla Pasqua ritirandosi per due giorni a La Verna, dove è possibile, sulle orme di S. Francesco, entrare nel meraviglioso mistero dell’amore di Dio.
Era un vero dono di Dio vedere quei tanti giovani scegliere il silenzio e la riflessione e la preghiera, per vivere la compagnia di Gesù, come i due di Emmaus.
Stando con loro si percepiva la grande luce pasquale.
Giovani coraggiosi, che non temono di cercare la compagnia di Chi veramente ama e fa felice, Gesù.
Dio certamente li ha riempiti dello stupore suo e a me rimane solo di fare la preghiera dei due di
Emmaus: “Resta, Signore con noi perché si fa sera”.

Antonio Riboldi – Vescovo –
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Omelia della IV Domenica di Pasqua (B) - 7 Maggio 2006

Messaggio da Redazione » gio mag 04, 2006 9:00 pm

Omelia del giorno 7 Maggio 2006

IV Domenica di Pasqua (Anno B)

Io sono il Buon Pastore


E’ chiamata, questa domenica, la domenica “del buon Pastore”, ossia l’amore del Padre che non ci lascia mai soli, ma, prendendo lo spunto, come era solito fare Gesù, dai segni del suo tempo, paragona il suo amore a quello che ha il pastore con le sue pecore.
Ma ascoltiamo quello che Giovanni l’apostolo scrive nella sua prima lettera: “Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre, per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente. La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto Lui. Carissimi, noi siamo fin d’ora figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a Lui, perché Lo vedremo così come Egli è” (1 Lett. 3,1-2).
Incredibile quello che “è” in queste semplici parole di
Giovanni: “noi siamo figli di Dio”. Una verità che sembra semplice, ma che forse non sempre contempliamo in tutta la sua grandezza e in quella manifestazione di amore che è impossibile anche contemplare ed è paradiso il solo sperimentare. Cosa può desiderare di più un uomo, del sentirsi amato da Chi è l’Amore? Un amore che veste ognuno di noi di una bellezza e di un valore che credo gli Angeli contemplino e ci invidino, per cui tutta la vita di ciascuno di noi è un racconto di questo amore...anche se a volte non ce ne accorgiamo. O peggio ancora, ci affidiamo al fragile amore del prossimo, oggi così avaro e che, tante volte, non tiene in conto la grande nobiltà di ciascuno di noi agli occhi del Padre.
Un Padre che, come è nella Pasqua che sviamo vivendo, non si rassegna ai tanti nostri voltaspalle, come non ci interessasse, ma, con quella fedeltà che è la Sua natura, non esita a dare Suo Figlio, a sacrificarLo per poterci “gettare le braccia al collo”, quando torniamo da Lui e, commosso,
gridare: “Facciamo festa, mio figlio è tornato. Era morto ed ora è vivo”.
Contemplare tanto amore era ed è un immergersi nella felicità che diventa poi estasi. Un amore che, come è nella stessa natura sua, non ci perde mai di vista, ma è sempre rivolto su di noi, su ciascuno di noi, cercando tutte le vie per entrare nella nostra vita.
Come è nella parabola del buon Pastore, che è il Vangelo di oggi.
Non si rassegna mai il Padre a perderci. Diremmo noi “fa pazzie”, come fece con il dono di Suo Figlio Gesù, nostra Pasqua.
Quando ero ancora piccolo, mamma ogni giorno faceva due domande, che sono poi il “catechismo della vita”. “Chi ti ha creato? chi è tuo Padre? “Dio”
rispondevo. E così lei designava il suo ruolo, quello di dare vita ad un figlio che veniva da Dio, per poi servirlo con amore, fino in fondo, come fece Maria con Gesù.
La seconda domanda era: “Ma perché Dio ti ha creato? Qual è la ragione o il senso di questo dono, che sei tu? Tutte le creature inanimate, come le piante, gli uccelli, tutto, ma proprio tutto, ha un senso, ma quale è il senso, o la strada, che Dio ha tracciato per te fin dalla eternità?” La risposta era ed è: “Per conoscerLo, amarLo, servirLo e poi essere sempre con Lui in Paradiso”.
E qui ha origine quella che noi
chiamiamo “vocazione”, ossia la strada che Dio ha tracciato per noi e che Lui fa con noi: una strada, qualunque essa sia, che è percorrere i senrtieri della santità, passo dopo passo, anche nelle cose semplici.
Oggi la Chiesa ci offre la riflessione di una vocazione particolare, che è quella della vita religiosa o del sacerdozio, pastore delle anime, ossia Gesù stesso che si dona a poveri uomini, come sono i chiamati, per trasmettere la sua grazia, il suo amore nei sacramenti, nella Parola, nella missione continua della carità.
Essere preti o vescovi non è mai una scelta personale, come può essere la scelta di una professione. E’ addirittura la scelta di Dio. Dice l’evangelista Marco: “Scelse quelli che Egli volle perché stessero con Lui e poi mandarli”. E le sue scelte non sono come le nostre, ossia guardando ai meriti, alle capacità, o altro. No. Lui sceglie i poveri, gli umili, ossia quelli che domani, divenendo Lui stesso, “alter Cristus”, mettano totalmente a disposizione tutto di se stessi, ma, nello stesso tempo, questo tutto, altro non è che aprire a Dio la possibilità di amare ed operare la salvezza, oggi.
Il prete, il vescovo, non sono bravi perché sanno parlare bene o fanno tante belle iniziative; sono semplicemente uomini che si donano completamente e cercano di aprire la strada a Dio. Con un amore che li prende totalmente, pur sapendo che non sono artefici del bene che fanno, ma sono, come direbbe Madre Teresa di Calcutta: “Dita offerte alla matita, con cui Dio scrive la sua opera”. Gesù direbbe: “Servi inutili. E la gente li chiama “pastori”, dal sacerdote, al vescovo.
Pastori che, come il buon pastore, Gesù, amano talmente la propria gente a loro affidata, da essere chiamati “buoni”: e questo è il titolo bello, che vorremmo sentirci dire sempre, noi pastori.
Sono persone semplici, che dovrebbero avere la coscienza di offrire ogni giorno la propria vita, per fare sentire vivamente che loro sono “Gesù che opera”, che è vicino, non ci ha lasciati soli salendo in cielo.
Un sacerdote o vescovo, “servo inutile”, ma pastore buono, quando è accolto dalla gente, sa che non ha più vita propria, ma il suo vivere in mezzo e tra la gente è farsi mangiare, come “pane spezzato”, come continuazione di quel “pane spezzato”, che è l’Eucarestia.
Non può avere paura dei pericoli cui va incontro, tante volte per difendere il gregge. Non lo spaventano né le incomprensioni, né le ostilità: queste fanno parte del cammino con Gesù, sulle vie del Calvario. E se necessario danno la vita, come è nei tanti martiri del nostro tempo.
Così li dipinge Gesù, oggi: “Io sono il buon pastore. Il buon Pastore offre la sua vita per le pecore. Il mercenario invece, che non è pastore e al quale non appartengono le pecore, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le
disperde: egli è un mercenario e non gli importa delle pecore” (Gv 10, 11-18).
La serenità del “pastore”, che è il nostro parroco o il nostro vescovo, viene dal sapere con certezza che vive per amare tutti ed offrire Gesù, e questo gli basta.
Oggi, purtroppo, vengono a mancare i sacerdoti e tante piccole comunità si sentono come “orfane”.
Quella loro chiesa, costruita con tanto zelo dai padri e conserva la memoria della loro fede e santità, ma sopratutto era il sicuro luogo dove Gesù era vicino, stando nel tabernacolo: quella casa canonica “vuota”, perché non c’è il prete, l’amico che dava la sicurezza che Gesù era vicino alle nostre vicende, mette tanta tristezza, come sentirsi orfani. Diceva un ateo al proprio parroco, che si lamentava di essere sempre solo nella chiesa, perché la gente passava ma non entrava, troppo indaffarata, al punto che voleva andarsene, non vedendo l’utilità della sua
presenza: “Caro Parroco, non vada via. Per noi sapere che lei c’è, anche se non entriamo in chiesa, è sentire che c’è qualcuno che ci ama e veglia su di noi. Non ci lasci soli!”
Viene tanta tenerezza e tristezza, oggi, nel vedere tanti sacerdoti e Vescovi che continuano a servire la Chiesa e stanno tra la gente, nonostante la loro tarda età. Parroci, vescovi, con tanta fatica addosso, ma sempre sorridenti, come se ogni giorno fosse il primo giorno. Sono i “padri” di tanti, che da loro sono stati battezzati, uniti in matrimonio: sono davvero amici di casa nostra: amici di cui fidarsi: amici che non hanno mai le mani vuote: queste, caso mai, sono “bucate”
dall’età e dalle sofferenze, ma sempre piene di speranza per tutti, senza distinzione; sempre preoccupati della salvezza di tutti; sempre alla ricerca di chi forse non ama neppure essere cercato.
Non so neppure io perché Dio mi ha scelto perché fossi suo sacerdote e poi vescovo. Ero povero di famiglia, ma pronto a fare la volontà di Dio. Così a soli
12 anni mi sono presentato al piccolo seminario dei Padri rosminiani. Ci vollero anni per modellare la mia vita su Cristo fino al sacerdozio. Nel 1951 venni ordinato prete a Novara. E da allora Dio, attraverso l’obbedienza, mi ha condotto dove non pensavo:
prima in Sicilia a Santa Ninfa, dove la comunità si era totalmente dispersa per uno scandalo, con tanta diffidenza attorno, in attesa del come ci saremmo comportati (eravamo in tre confratelli). Abbiamo atteso i tempi di Dio, nella preghiera, nella attenzione, nella totale disponibilità, sapendo che con noi operava Gesù. E così fu, e la comunità dopo qualche anno divenne modello di comunità. Il terremoto del 1968 poteva disperdere l’opera compiuta: ma il terremoto non solo non intaccò il nostro zelo ma aumentò l’amore, fino a farsi voce di chi non aveva voce e la comunità si ricompose.
Quando, dopo 20 anni, l’obbedienza credeva di avermi chiesto troppo e quindi era il tempo di cambiare, ancora una volta Dio si fece avanti. Con l’autorità di Paolo VI, che mi conosceva, mi chiese di essere vescovo di Acerra, altra situazione ecclesiale
complessa: non certamente facile.
Ma ancora una volta, con la fede che tutto era voluto dal Padre e Lui avrebbe operato con me e per me, con serenità e tutto l’amore possibile, sono stato pastore di questa chiesa. E ancora oggi, anche se “emerito”, continuo a correre.
Osservando il cammino compiuto in situazioni difficili, ogni giorno mi riempie di stupore nel vedere le meraviglie che Dio sa compiere quando ci trova disposti a farci “servi inutili” della sua azione. Davvero Dio è il solo buon Pastore, che si serve di noi, per trasmettere il suo amore.
Per questo sento il dovere di dire grazie a Lui per quello che ha compiuto, e un grande grazie a tanti che si sono fatti amare. E’ davvero un dono essere pastori.

Antonio Riboldi – Vescovo –
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Omelia del giorno 14 Maggio 2006

Messaggio da Redazione » gio mag 11, 2006 6:18 am

Omelia del giorno 14 Maggio 2006

V Domenica di Pasqua (Anno B)

Io la vite, voi i tralci


C’è qualcosa che colpisce ciascuno di noi: ossia il grande bisogno di amore, e l’incapacità di sapere entrare nella vera natura dell’amore.
E’ sempre vero il proverbio: “Posso vivere senza sapere perché vivo, ma non posso vivere senza sapere per chi vivo”.
E’ inutile che lo nascondiamo: l’amore è il vero senso, il gusto, la ragione della vita. E non può essere che così, essendo figli di un Padre che è amore e che quindi ci ha fatti simili a Lui nel cuore. Ma come è difficile possedere la saggezza del vero amore!
Diceva il grande Paolo VI, allora arcivescovo a Milano, in occasione della festa del S. Cuore, lui grande conoscitore degli uomini, “In un mondo che va perdendo la capacità di amare, man mano che perde la capacità di conoscere Dio e, facendo dell’uomo centro supremo del suo pensiero e della sua attività, divinizza se stesso, spegne la luce della verità, vulnera i motivi della onestà e della gioia, noi proclamiamo la legge dell’amore che si sublima, dell’amore che sale, dell’amore che osa prefiggere a suo termine l’infinita bontà... In un mondo che ha deturpato l’amore in tutte le maniere, ne ha fatto sorgente di indescrivibili bassezze, che lo ha confuso col piacere, e il piacere lo ha reso emozione animale, che lo ha sconsacrato nell’innocenza, lo ha deriso nella sua integrità, lo ha mercanteggiato nella sua debolezza, lo ha esaltato per avvilirlo, lo ha esaltato per renderlo complice della passione e del delitto, in questo mondo noi proclamiamo la legge dell’amore che purifica” (discorso 8 Giugno 1956).
Ci vuol poco a capire che è facile confondere l’amore come frutto di sentimento o di egoismo che porta ai “disastri del cuore”, togliendo all’uomo la bellezza di vivere, che è solo nel vero amore. Un amore che Gesù ci ha insegnato con la sua vita tutto dono, fino a farne un sacrificio sulla croce. Basterebbe riflettere un momento su quel fatto narrato dall’Evangelista, di quando i soldati, volendo sincerarsi che veramente Gesù fosse morto, con la lancia Gli trafissero il costato e da quel cuore uscirono le ultime gocce della vita, acqua e sangue. Il Padre, quando ama, davvero è senza limiti e, con l’amore donato a noi, senza limiti è la gioia.
Ci vuole poco, fratelli e sorelle, per vedere quanta tristezza c’è attorno a noi, nelle famiglie, nelle persone che incontriamo, nel mondo. Ma a volte trovate persone che hanno un volto che sembra riflettere il sole del cuore e illumina chi li incontra. Quanto amore alberga in questi fratelli e sorelle. Un amore che è la sola ricchezza dell’uomo e che ha le sue radici nella “vite”, di cui parla il Vangelo oggi, e di cui noi dovremmo essere i tralci, ossia i destinatari di quella “vite che produce molto frutto, se rimaniamo uniti a Lui fortemente”, come seppero fare i santi e sanno fare tutti i veri cristiani.
Non dimenticherò mai il sorriso che era sempre sul volto di mia madre, anche nelle sofferenze: ed era un sorriso che, lei diceva, “attingo dalla Eucaristia”. O come non ricordare la serenità sul volto di papà che, dopo 30 anni di matrimonio, mi diceva: “Io e tua mamma ci amiamo tanto, ma tanto, che se dovesse mancarmi, morirei”!
Lo trovi questo sorriso di cielo, sempre frutto di quella “vite che è Dio”, in tante persone provate dalla sofferenza, a volte durissima.
Era la gioia del Santo Kolbe che, gettato nel carcere a Auschwitz, sosteneva i suoi compagni di cella, condannati a morire di fame e sete, con il canto dei salmi. Morivano ad uno ad uno i suoi compagni, ma non cessava quel canto, tanto che i nazisti dovettero ucciderlo con una iniezione mortale. Dobbiamo essere sinceri con noi stessi, fratelli: quando l’amore, quello vero, ha le sue radici da Dio e si alimenta a quella vite continuamente, vivere è bello, tanto bello, per noi e per chi ci è vicino, perché il vero amore è come il sorriso e la gioia, si comunica a chi è accanto.
Così come quando non si conosce l’amore, il cuore soffre di quel vuoto e la vita sembra una condanna ...come la pianta del fiore le cui radici, non trovando terra e acqua da cui attingere vita, presto seccano.
“Vorrei nascere mille volte, mi diceva una persona felice, tutta amore, per conoscere la bellezza di essere amato e di amare...non importa se a volte devo amare da crocifisso. Ma meglio essere crocifissi per amore, che crocifiggersi e crocifiggere per egoismo e quindi condannarsi alla disperazione”.
E ce n’è tanta gente, credetemi, che ha veramente sete di amore. Basta avere lo sguardo attento e subito si ha l’impressione di essere sommersi da un fiume di lacrime senza speranza.
Scrive S. Giovanni, l’apostolo che aveva direttamente attinto all’amore di Gesù, nell’ultima cena appoggiando la sua testa sul seno di Gesù e aveva voluto seguire il Maestro, che lo amava tanto, fin sotto la croce, con Maria Sua Madre, senza paura di soffrire...perché così è la natura del vero
amore: “Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità. Da questo conosceremo che siamo nati dalla verità e davanti a Lui rassicureremo il nostro cuore qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa...Questo è il comandamento che crediamo nel suo Figlio Gesù Cristo, e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti dimora in Dio ed egli in lui”. ( 1 Lett. Giovanni 3, 18-24).
E Gesù ci dona nel Vangelo la chiave dell’amore, ossia Chi può donarcelo, sempre che a Lui ci
affidiamo: “Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio invece che porta frutto, lo pota perché porti più frutti… Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può fare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite e voi i tralci…”
Quanta sete ha il mondo, e tutti noi, di vero amore. E Dio ci indica a chi ricorrere con questa stupenda immagine della vite e dei tralci. Forse a volte sbagliamo rifiutando di essere tralci, per quello stupido egoismo che pretende di essere vite e tralci.
Ma cosa possiamo mai fare noi che, vogliamo o no, crediamo o no, dipendiamo totalmente da quella suprema vite che è Dio?
Abbiamo avuto la fortuna di vivere guidati da quel grande maestro dell’amore che fu il grande Giovanni Paolo II. Il suo era un cuore immenso che non conosceva confini. Era come “una vite”, a sua volta frutto della “sola vite-Dio”, che sembrava coprire tutta la terra.
Il suo cuore ha cessato di battere quando, come Gesù sulla croce, aveva dato proprio tutto. E il mondo alla sua morte forse lo aveva capito.
Incontrandolo un giorno, in una lunga visita, nel suo studio, con quegli occhi sbarrati che sembravano rivolgersi a me e a ogni uomo e donna mi
disse: “L’uomo ha perso Dio e quindi è finito, come un tralcio staccato dalla vite, in un angolo come un pugile.
Bisogna amarlo, fino a riportarlo al centro del ring, perché torni con gioia a lottare, la lotta della Vita per il Cielo”.
Ogni volta che si elegge un Papa, tutti aspettiamo qual è il suo pensiero-guida, pronti a seguirlo. E questa attesa era grande con l’elezione di Benedetto XVI, un pastore che la gente sta conoscendo e si meraviglia, perché veramente è il Pastore che continua la traccia verso il Cielo, segnata da Giovanni Paolo II.
Stupendoci tutti, la sua prima Enciclica è dedicata
all’amore: “Dio è amore”: amore verso Dio, amore verso i fratelli. Così introduce l’enciclica: “Dio è amore, chi sta nell’amore, sta in Dio e Dio dimora in lui”.
Queste parole della Prima Lettera di Giovanni, esprimono con singolare chiarezza il centro della fede cristiana, l’immagine cristiana di Dio e anche la conseguente immagine dell’uomo e del suo cammino. Inoltre in questo versetto Giovanni ci offre, per così dire, una formula sintetica dell’esistenza
cristiana: “Noi abbiamo riconosciuto l’amore che Dio ha per noi e vi abbiamo creduto”.
Abbiamo creduto all’amore...così il cristiano può esprimere la scelta fondamentale della sua vita.
All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un grande avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva.
Nel suo Vangelo Giovanni aveva espresso questo avvenimento con le seguenti parole: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo figlio unigenito, perché chiunque crede in Lui abbia la vita eterna” (Dalla prefazione della Enciclica).
Non resta ora che chiederci tutti se siamo entrati in questa visione della vita con Dio. Chiederci se davvero siamo “tralci fortemente avvinti alla vite”...se davvero “abitiamo nel Signore”, ossia se viviamo quell’amore donato, che fa vivere e si dona.
Vi confesso che a me piace tanto un salmo, che descrive come si vive dimorando e facendosi amare da Dio: il salmo 131.
“Signore, il mio cuore non ha pretese,
non è superbo il suo sguardo,
non desidero grandi cose superiori alle mie forze:
io resto tranquillo e sereno.
Come un bimbo in braccio a sua madre
è quieto il mio cuore dentro di me”.
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Omelia del giorno 21 Maggio 2006

Messaggio da Redazione » sab mag 20, 2006 1:24 pm

Omelia del giorno 21 Maggio 2006

VI Domenica di Pasqua (Anno B)

Voi siete miei amici


Ci sono pagine del Vangelo in cui Gesù svela quel meraviglioso e a volte misterioso santuario che è il nostro cuore. E’ lì che l’uomo, tutti noi, davvero narriamo ogni giorno le nostre gioie e le nostre speranze, le nostre angosce e le nostre sofferenze. E’
lì che domina su tutto, come “impronta del Padre che ci ha creati a Sua immagine e somiglianza”, la nostra vera natura, ossia un amore ricevuto e donato.
Direbbe Paolo, l’apostolo, nella sua lettera ai Corinzi:
tutto passa, ma la carità resta per l’eternità. L’amore, possiamo dirlo con franchezza, non solo è il “sigillo” di Dio, ma dovrebbe essere il “sigillo di ogni uomo”.
Chi di noi infatti non sente il bisogno, come l’aria dell’anima, di amare ed essere amato?
Purtroppo l’egoismo è capace a volte di mettere al posto della amicizia, di questo immenso bisogno di amore, le cose che non hanno anima, e quindi sono mute...come l’ambizione, il danaro, il piacere.
Ero stato invitato un giorno a cena da una famiglia.
Aveva una bella villa circondata da un meraviglioso parco, il tutto protetto da un muro di cinta con tanto di telecamere per la sicurezza. Un uomo che, diremmo oggi, aveva tutto...ma nella nostra meraviglia per tutto questo, l’amico che mi aveva invitato, improvvisamente ebbe come un sussulto d’anima e con infinita amarezza, che non riusciva a trattenere,
disse: “E’ vero, oggi ho tutto quello che un uomo può
desiderare: casa, danaro famiglia. Ho sudato una vita per costruire tutto questo, sacrificando amicizie, a volte persino ho come sfrattato Dio, pensando che non c’era posto per Lui nella mia corsa a questo benessere. Ora mi sento come uno cui manca tutto.
Uno che passa le notti fissando le telecamere per la paura che qualcuno venga a distruggere con la rapina questo stupido, inutile paradiso. E quello che più mi manca è l’amicizia”.
Aveva ragione. Se c’era un meraviglioso tesoro quando le nostre famiglie erano “povere” di cose, ma ricche di figli e di fede, era il tanto, ma tanto posto, per la fede, l’accoglienza, la gioia. Si viveva in una comunità, dove tutti ci si conosceva e si era amici, pronti gli uni gli altri a farsi in quattro perché a nessuno mancasse almeno la certezza che non era solo nella gioia e nel dolore.
La Parola di Dio oggi, sia nella lettera di Giovanni sia nel discorso di Gesù nell’ultima cena, è una solenne dichiarazione di amore che non è fondata sulla sabbia, come sono tante nostre affermazioni, ma sulla roccia del Cuore di Dio.
Possiamo facilmente immaginare il clima dell’Ultima Cena di Gesù con i suoi, prima di avviarsi verso la dimostrazione di cosa voglia dire “essere amico”, ossia dare la propria vita per renderci felici: e Gesù era atteso di lì a poco a iniziare il durissimo cammino verso il Calvario e quindi la crocifissione. Certamente davanti al suo Cuore, angosciato (lo dirà nella agonia del Getsemani) sfilavano le cattiverie, fino al disumano, di cui siamo capaci quando in noi viene meno l’amore. Ogni parola in quella Cena pesa come un testamento prezioso, affidato ad ognuno di noi: un testamento in cui si scriveva ciò che siamo chiamati ad essere e tante volte non siamo.
Così parla Gesù agli apostoli ieri, e oggi a noi. “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi.
Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio
comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici. VOI SIETE MIEI AMICI, se farete ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo
padrone: ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio, l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga: perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo io vi
comando: amatevi gli uni gli altri” (Gv 15,9-17).
Mentre scrivo queste parole, mi sento come uno dei discepoli seduti a tavola nel cenacolo con Gesù, maestro di amore, dono di amore, fonte di amicizia.
Sento con voi la povertà dell’uomo che “ha sete del Dio vivente” ossia dell’amore, e lo cerca con passione.
Le parole “amatevi come il Padre vi ama”. Come posso misurare l’immensità dell’amore del Padre? Ci credo almeno che Lui mi vuole un bene che nulla e nessuno può dare...nemmeno una briciola?
E parla non di un amore che conosce la fragilità nostra, ma di un amore che contiene tutto il bene possibile per noi: un amore che va oltre i confini di questa vita: un amore che non si spaventa se a volte deve condividere “la passione di Gesù” nel dare la vita.
“Mi sento talmente nel Cuore di Dio - mi confidava un giorno un mio caro amico missionario, la cui vita era uno specchio di cosa voglia dire “rimanere nell’amore di Dio” - che non ho alcuna paura. A volte contemplando questo amore mi sento sollevare da terra. E’ bello, troppo bello, avere per amico Gesù”. E quel carissimo amico, mandato in missione, , si diede totalmente alla difesa dei poveri che venne, dopo pochi mesi, ucciso ed ora gode dell’amicizia fissando il volto di Dio.
Sempre immaginando di essere a tavola con Gesù, e questo avviene nella Eucarestia, le nostre parole sembrano fastidioso rumore, nel sentire Gesù
ripetermi: “Voi siete miei amici...se fate ciò che vi comando...” Ed ancora, come a sottolineare le
parole: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone, ma vi ho chiamato amici, perché tutto quello che ho udito dal Padre mio, l’ho fatto conoscere a voi”.
Non so cosa dicano a voi, carissimi, queste parole che oggi, dico oggi, rivolge a noi Gesù: “Vi chiamo amici…siete miei amici”.
So quello che vuol dire la vera amicizia, anche sul piano umano: vuol dire condividere tutto con l’amico, gioie e dolori; vuol dire non essere soli, ma contare sull’amore di chi sarà sempre vicino fino all’eternità.
Sappiamo tutti che l’amicizia di Gesù è camminare con Lui, fino a salire sulla croce sua, ossia conoscere la prova dell’amore capace di offrire la vita.
A volte forse si vorrebbe che l’amore di Dio ci risparmi quelle prove che sono “la valle oscura” che tutti a volte siamo chiamati ad attraversare. Quei momenti in cui sembra che Dio ti abbia voltato le spalle e non si interessi più di te. Quanta gente, davanti alla sofferenza, si è ribellata a Dio, rinunciando al suo amore...senza sapere che quella sofferenza fa parte di un piano di salvezza, duro se vogliamo, ma in cui Lui si fa nostro Cireneo, o prende il posto di Maria sotto la croce, la nostra croce.
Ho conosciuto, sul piano umano, persone che hanno voluto bene a qualche persona: il marito, la moglie, un figlio, un amico, da non fuggire nella loro sofferenza, ma condividendola fino in fondo. Oltre la stessa morte. Una fedeltà che è la natura della amicizia, come quella di Dio per noi.
Giovanni l’Evangelista, quella sera era vicino a Gesù a tavola e fu lui che poggiò il suo capo sul petto di Gesù per sapere chi lo avrebbe tradito. E’ lo stesso discepolo che visse l’amicizia fin sotto la croce. Lui, educato alla amicizia alla scuola del Maestro, così scrive nella sua prima lettera: “Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama, non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l’Amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio unigenito come espiazione per i nostri peccati” (1 Giov. 4,7-10).
Carissimi, che mi seguite da tempo nella riflessione, e vi considero tutti legati a me dal dolce vincolo dell’amicizia, questa sera voglio dirvi come Gesù: “Voi siete miei amici perché tutto quello che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi”. Mi resta l’augurio fatto da Gesù ai suoi: “Rimanete nella nostra amicizia”. Fa davvero bene.
Prego con Madre Teresa di Calcutta, grande esperta di questo amore:
Signore, insegnami a non parlare come un metallo squillante o come uno strumento che suona a vuoto, ma con amore. Dammi la fede che muove le montagne, ma con amore. L’amore che è paziente e sempre premuroso, mai presuntuoso o permaloso.
L’amore che gode nella verità, che sempre perdona, ama, perdona, sopporta.
Fa’ che alla fine dei giorni, quando tutto apparirà chiaro, io possa essere stata un umile riflesso del tuo amore”.

Antonio Riboldi – Vescovo –
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Omelia del giorno 28 Maggio 2006

Messaggio da Redazione » mer mag 24, 2006 9:05 pm

Omelia del giorno 28 Maggio 2006

Ascensione del Signore (Anno B)

Una festa che attendiamo


La domanda che ci accompagna tutti, speriamo, è quella del “cosa avverrà dopo la nostra inevitabile morte?” C’è chi la risolve sbrigativamente dicendo che tutto finisce e non c’è più “domani”. Ma viene spontaneo chiederci: “che senso allora ha tutta la fatica che facciamo per dare alla vita “un senso” che sia accettabile? Valeva la pena nascere, ci direbbe l’apostolo Paolo, se non ci fosse la resurrezione?
Sentiamo profondamente tutti che ci sono valori che non possono avere un termine, ma hanno bisogno di infinito, come l’amore, come il sacrificio, come il bene stesso. E per chi crede, nella lotta per la vita, - perché davvero vivere è un continuo confrontarsi con i valori grandi, che vanno oltre questa esperienza di vita - sa che ci sarà un domani e giudica questa vita come una vigilia, in attesa che arrivi lo Sposo per accompagnarLo alla grande festa delle nozze…una attesa che Gesù definisce “con le lampade accese”, come è per chi è saggio e prudente, per non essere colti sprovvisti “di olio” e quindi sentirsi dire alla
fine: “Non vi conosco”. E fa paura quella porta che si chiude per sempre.
Gesù ha voluto rassicurare i suoi, e quindi noi, che come Lui è salito al Cielo, così anche noi siamo chiamati a salire con Lui...sempre se saremo vergini prudenti con le lampade della fede accese.
E come a rendere visibile questa vocazione al Cielo, Gesù dopo la resurrezione, tornò spesso tra i suoi e alla fine “salì al cielo”.
Così narrano gli Atti degli Apostoli: “Gesù si mostrò ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del Regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del
Padre: “quella che avete udito da me: Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo fra non molti giorni”. Gesù venutisi a trovare insieme, gli domandarono: “Signore, è questo il tempo in cui restituirai il regno di Israele?” Ma egli
rispose: “Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea, e la Samaria, fino agli estremi confini della terra”.
Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. E poiché essi stavano fissando il cielo, mentre Egli se ne andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il Cielo? Gesù che è stato tra di voi è stato assunto al cielo, ma tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo” (At 1,1-11).
Possiamo per un momento metterci nei panni degli Apostoli.
Avevano all’inizio seguito senza battere ciglio Gesù che li aveva scelti e con fedeltà, lasciando ogni interesse terreno. Oramai Gesù era lo scopo della loro vita. Ed è meraviglioso anche solo immaginarlo, perché tutti vorremmo essere, credo, a quel seguito.
Nonostante i nostri dubbi, le nostre debolezze. E c’è chi, per vocazione, Lo segue come se la vita fosse sempre una attesa di seguirLo oltre la morte.
Chiesero ad una Badessa di un Convento, perché quando una suora moriva suonassero le campane a festa e non a lutto come facciamo noi. La risposta potrebbe essere anche di chi non è suora, di chi è semplicemente uno o una che ha scelto di seguire Cristo nella ordinarietà della vita. “Una suora, - come potremmo dire ciascuno di noi - ha vissuto una vita come fidanzata a Cristo. La morte è il giorno finalmente della festa con lo Sposo in Cielo. E nella festa non si suonano le campane a morte, ma a festa”.
Mi ricorda tanto la morte di mia nonna, una donna con
13 figli di cui t re donati a Dio, una suora e due religiosi. Una donna “ricca di doni” da consegnare al Padre. Quando morì, e la si accompagnava al cimitero, mi venne spontaneo obbiettare: “Ma perché recitiamo l’eterno riposo e non il Gloria? Perché non suoniamo a festa le campane, per l’ingresso in cielo di una “santa” che visse tutta una vita per e con Gesù?”
Ed è lo stesso che sentii quando accompagnai mamma, al camposanto. Non mi venivano sulle labbra preghiere di morti, ma di vivi arrivati alla grande festa del Paradiso.
Quante volte si legge nella vita dei santi, che passavano gli ultimi giorni di questa vita, fissando il cielo e attendendo che si aprisse su di loro...come avvenne per S. Stefano!
Vivere, per questi nostri grandi fratelli o sorelle, era “attesa del Cielo”. Morivano con il sorriso sulle labbra, proprio di chi abbandonava le logore vesti della terra per i vestiti bianchi delle nozze eterne.
Ricordate le ultime parole che, il grande amato Papa Giovanni Paolo II, negli ultimi giorni della sua meravigliosa vita qui tra di noi, rivolse a chi gli era
attorno: “Lasciatemi andare verso il Cielo”.
Questo giorno vorrei anch’io sentirmi uno che ha una vita continuamente con “gli occhi rivolti al cielo”, come erano quelli degli Apostoli. “Ma cosa intendiamo per ‘cielo’ - si interroga Paolo VI -. Intendiamo molte cose. Intendiamo comunemente la condizione in cui si trovano gli angeli e i santi, le anime dei buoni, separate dai corpi, gli spiriti giusti: intendiamo la vita che si prolunga oltre la morte, la sopravvivenza oltre il tempo, la vita immutabile dell’oltre tomba, la vita eterna. Intendiamo anche l’ordine nuovo che emana da Dio, il disegno che Egli ha voluto sovrapporre all’ordine materiale: il Regno dei cieli, quel complesso di rapporti, completamente originali, che il mondo umano è venuto a godere con Dio mediante la missione di Gesù. Il cielo è la visione di Dio, è la felicità eterna, è il termine a cui deve essere diretta la nostra vita presente.
Quanto a noi, dice S. Paolo scrivendo ai cristiani di Filippi, la nostra patria è nei cieli. E allora il senso vero e completo del nostro vivere è un pellegrinaggio nel tempo, in questo mondo, per raggiungere la meta finale, dove il nostro essere avrà la sua espressione autentica, la sua completezza.
Affrettiamoci, dice Sant’Ambrogio, verso questa vita.
Dio, incalza S. Agostino, dopo questa vita, sia la nostra patria.
La religione - continua Paolo VI - che parte da Cristo, proietta nel futuro i suoi raggi, e là fa convergere gli sguardi della umanità, disincantandoli dal presente e dal prossimo avvenire temporale, verso il mistero di una rivelazione completamente nuova ed eterna. Nella stanza chiusa della vita presente si apre una porta luminosa verso una vita futura. La nostra capacità di desiderare, di sperare, è ingrandita oltre misura”
(omelia, 15.5.1958).
E Paolo VI era un “Pastore” che viveva con lo sguardo sempre rivolto al cielo cui cercava di portare anche la Chiesa che a volte sembra non abbia abbastanza gli occhi rivolti al cielo.
Ricordo, e con molta commozione, gli occhi di Paolo
VI: quel suo sguardo pieno di speranza e di cielo. Ero andato da lui, recando le speranze del Belice che stentava a uscire dal tunnel del terremoto, e con me avevo portato 50 bambini, che hanno ancora gli occhi che .conoscono innocenza, speranza. Ci accolse in una delle stanze del Vaticano in udienza speciale.
Sorrise di gioia, davvero da “bambino”, nel vedere quei 50 piccoli, incuranti di ogni formalità necessaria alla solennità dell’incontro: bambini che con incredibile libertà e fiducia lo attorniarono appoggiandosi a lui come avrebbero fatto con papà.
Quando gli chiesi se era giusto ciò che facevo, si alzò, mi gettò le braccia al collo e mi disse: “Grazie per quanto fate anche a nome della Chiesa” e mi fissò lungamente negli occhi. Impossibile dimenticare quello sguardo, che sembrava fosse rivolto al cielo, ma grondante lacrime per le tante miserie della terra, che lui portava come Cireneo sulle spalle e nel cuore.
Quando i miei occhi indugiano sulle vicende degli uomini, davvero non riesco a capire la cattiveria che a volte contengono e genera sofferenze.
E mi accorgo che il culto del benessere, che ci rende “cose materiali”, ha il potere di renderci ciechi che non sanno più che sulle loro teste splende il cielo. Per cui ci si lamenta di tutto e di tutti, per la sola ragione che non si hanno occhi per il cielo.
L’Ascensione, allora, diventa il momento della speranza per tutti noi. Il giorno in cui avremo il dono, come gli Apostoli, di rivolgere il nostro sguardo fisso al cielo, ci sarà facile scorgere quanta miseria c’è in questa terra, con tutti i suoi limiti e inganni.
Viene allora voglia di pregare: “Signore fa’ che io veda, Signore, mostrami il tuo volto”.
Ed è proprio il tempo, con la Grazia, ad “aprire gli occhi” per ritrovare la gioia e la speranza, che sono il prezioso pane dei pellegrini.
Chi di noi, tante volte, non sente la nostalgia di cielo, come quella che viene spontanea quando a Lourdes, a sera, durante la recita del S. Rosario, alla fiaccolata,
cantiamo: “Al ciel, al ciel, al ciel andrò a vederla un dì”? Lì davvero è la sincerità del cuore fatto per Dio.

Antonio Riboldi – Vescovo –
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Omelia del giorno 4 Giugno 2006

Messaggio da Redazione » gio giu 01, 2006 2:02 pm

Omelia del giorno 4 Giugno 2006

Pentecoste (Anno B)

PENTECOSTE, respiro di Cristo


Forse sfugge alla attenzione di tanti di noi cristiani, la solennità della Pentecoste, anche se in tutti lo Spirito Santo ha preso fissa dimora, con i suoi sette santi doni, il giorno della Cresima o Confermazione. Forse è rimasta impressa la festa esterna, ma è sfuggito quanto invece contiene. Eppure è proprio da questo grande sacramento che ha inizio il cammino di santità, se lo percorriamo, spinti propria dalla Sua Presenza. Un cammino che tante volte è così “pentecostale”, che suscita meraviglia in chi lo vive e in chi ne vede i frutti. Grande meraviglia, quello stupore che si diffuse a Gerusalemme il giorno in cui lo Spirito discese sugli Apostoli, riuniti in preghiera nel Cenacolo.
Così descrive lo Spirito Santo uno scrittore: “Benché Gesù dopo la resurrezione si è fatto invisibile ai nostri occhi, nondimeno sentiamo che Egli è vivo in noi, perché sentiamo il suo respiro. Chiamo respiro di Gesù Cristo l’effusione dello Spirito Santo...La prima volta che il genere umano sentì questo respiro potente, fu il giorno di Pentecoste” (Fornari).
E Paolo VI aggiunge: “L’anima della Chiesa è lo Spirito Santo. Il principio, cioè invisibile e soprannaturale che fa vivere la Chiesa di Cristo, è l’assistenza continua dello Spirito Santo che conferisce alla Chiesa la sua natura di umanità collegata con Cristo, di corpo mistico di Cristo e le infonde poteri e carismi, ne crea la coscienza e ne guida la storia” (9.6.1957).
Sappiamo tutti, o dovremmo almeno saperlo, che la Pentecoste è il natale della Chiesa. Il nostro natale di membra vive della Chiesa. E quindi tutti dovremmo conoscere “il respiro di Cristo”. Non si rimane indifferenti a quelle imposizioni delle mani che il Vescovo fa sui nostri capi, il giorno della Cresima (lo
ricordate?) o ancora di più il giorno, per noi sacerdoti, della sua imposizione delle mani e della unzione. Ho vivo il ricordo, come fosse “oggi”, di quel lontano 1978, quando in un piazzale di Santa Ninfa, all’aperto, per accogliere tantissima gente, assistito da ben 24 Vescovi, sentii quelle mani sul mio capo. Ero come stravolto, come non esistessi più qui, da quell’evento.
Sentivo veramente come “il principe dello Spirito”
scendesse su di me, prendendo possesso della mia povertà di uomo, incapace di tutto, da solo...perché è proprio in quei momenti che si ha la misura di quel nulla che si è e della potenza che ci investe con “il respiro di Cristo”, ossia lo Spirito Santo.
Con voi, amici carissimi, vorrei sentirmi in quel Cenacolo, come se ieri, il giorno del nostro Natale di Chiesa, fosse oggi.
Noi con i timidi e poveri apostoli, improvvisamente diventati eroi e martiri della fede.
“Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di un vento che si abbatte gagliardo e riempì tutta la casa dove si trovavano. Apparvero come lingue di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; ed essi furono pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito Santo dava loro di esprimersi. Si trovavano allora in Gerusalemme Giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo.
Venuto quel fragore, la folla si radunò e rimase sbigottita perché ciascuno li sentiva parlare la propria lingua. Erano stupefatti e fuori di sé per lo stupore (At 2,1-11).
Davvero erano irriconoscibili gli apostoli. Ogni timidezza o paura era sparita dando via libera ad un coraggio che era la manifestazione della “fortezza dello Spirito”. Non conoscevano più la paura, ma proclamavano la parola di Gesù, felici quando erano arrestati e flagellati. Oramai non li avrebbe fermati nessuno e nulla. Nessuno infatti può fermare “il respiro di Cristo”, ossia lo Spirito, quando gli si dà via libera.
Ed ancora oggi noi rimaniamo “stupefatti” del loro zelo apostolico che li portava davvero ovunque, fino al cuore di Roma, come a “sfidare” la fragile potenza dell’uomo. Si manifestarono davvero tutti i doni dello Spirito. Basta pensare ai viaggi di S. Paolo. Erano incontenibili nel loro fervore. Fino al martirio. E la loro “ombra” giunge fino a noi dopo 20 secoli.
Arriva a ciascuno di noi in modo particolare nel giorno della S. Cresima. E’ lì il momento in cui il “respiro di Cristo” dovrebbe manifestarsi...a meno che, ripeto, non venga soffocato da quel frastuono di esteriorità che ha nulla a che fare con la Pentecoste.
Quel giorno lo Spirito effuse, dentro ciascuno di noi, doni o carismi che sono le potenze con cui Dio edifica la Sua Chiesa oggi, proprio attraverso di noi. E a volte questi “carismi” o “doni” si manifestano ed allora la vita è una Pentecoste vissuta: un costruire quel Regno di giustizia e pace e verità che tutti vorremmo, a cui tutti potremmo collaborare per edificarlo...solo se almeno conoscessimo e riscoprissimo i carismi, o talenti, dello Spirito in noi. Credo proprio che “il trionfo dell’indifferenza o della ignoranza”, in questo campo, è quello che lascia il campo libero ai mali della nostra società.
Scrive sempre Paolo VI: “In questi tempi alcuni fenomeni di immense proporzioni, vengono segnando un drammatico e meraviglioso capitolo nell’epoca storica della Chiesa moderna. I fenomeni sono quelli, da un lato, che pongono in sofferenza e in angustia la Madre Chiesa: lo sviluppo della vita moderna sembra rivolto contro di essa, per l’incredulità che professa, per l’illusione di sufficienza che crea nell’uomo, per il laicismo e l’ateismo che sembrano caratterizzare di fosche energie la spiritualità sempre più materialista dell’umanesimo contemporaneo.
A questo succede l’abbandono di popoli interi e di nuove generazioni delle sante e sublimi tradizioni religiose...la penosa insufficienza di clero, sia di numero che di forze, per compiere la sua missione salvatrice .Donde uno stato che si potrebbe definire di crisi del cattolicesimo. Ma dall’altro lato i fenomeni degni di nota sono quelli che documentano una potente vitalità della Chiesa, che sempre più priva degli aiuti e dei privilegi che le venivano dalla società temporale, cava dal suo stesso seno le forze per la sua difesa e la sua prosperità. La Chiesa, si direbbe, si piega su se stessa sotto l’immane incubo della irreligiosità moderna e sperimenta in questo interiore raccoglimento, in questo ricorso alle sorgenti di vita soprannaturale, la sua capacità di conquista. E’ il flusso dello Spirito Santo che ancora invade le sue membra e le fa agili e forti. E’ il vento della Pentecoste che soffia nelle vele della mistica nave, la quale non teme tempeste. E sotto l’aspetto visibile e sociale, l’avvento del laicato cattolico a una più vigorosa e articolata collaborazione all’apostolato” (9.6.1957).
E questa presenza del “respiro di Cristo” la abbiamo vissuta nel Concilio Ecumenico, in tante circostanze, come le Giornate mondiali della Gioventù. E la Chiesa italiana, come a sfidare il pessimismo che circola in molti, a ottobre celebrerà il Convegno chiamando tutti noi a essere, nel nome di Gesù Risorto, “testimoni di speranza”. Una vera sfida dello Spirito che dobbiamo cogliere come dono.
Sempre con Paolo VI mi viene da dire: “Grande ora è questa che offre ai fedeli la sorte di concepire la vita cattolica come una dignità e una fortuna, come una nobiltà e una vocazione. Grande ora è questa che sveglia la coscienza cristiana dall’adempimento consuetudinario e indolente in cui per moltissimi era caduta, e la illumina di nuovi diritti e doveri. Grande ora è questa che non ammette che uno possa dirsi cristiano e conduca vita moralmente molle e mediocre, caratterizzata solo dall’osservanza stentata di qualche precetto religioso e non piuttosto trasfigurata dalla volontà positiva ed eroica, talvolta, umile e tenace sempre, di vivere la propria fede in pienezza di convinzioni e di propositi. Grande ora è questa che bandisce dal popolo cristiano il senso della timidezza e della paura, il demone della discordia e dell’individualismo, la viltà degli interessi temporali soverchianti quelli spirituali. Grande ora è questa in cui la Pentecoste invade di Spirito Santo il corpo mistico di Cristo e gli ridà un nuovo senso profetico”. E questo discorso - incredibilmente attuale - lo teneva da vescovo a Milano nel lontano 1959!
E’ davvero tempo anche per noi di dare grande spazio al “respiro di Cristo”; mettere ali ai carismi dello Spirito e così diventare moderni apostoli. Lo possiamo fare e lo dobbiamo fare, se davvero siamo discepoli di Gesù e amiamo quindi il Suo Corpo che è la Chiesa.
Con don Tonino Bello, con voi, vorrei pregare lo Spirito Santo, così: “Spirito di Dio che all’inizio della creazione ti libravi sugli abissi dell’universo e trasformavi in sorriso di bellezza il grande sbadiglio delle cose, scendi ancora sulla terra e donale il brivido degli inizi.
Questo mondo che invecchia, sfioralo con l’ala della tua gloria. Dissipa le sue rughe. Fascia le ferite che l’egoismo sfrenato degli uomini ha tracciato sulla sua pelle. Mitiga con l’olio della tenerezza le arsure della violenza. Restituiscici al gaudio dei primordi. Riversati su tutte le nostre afflizioni. E il deserto finalmente diventerà giardino e nel giardino fiorirà l’albero della giustizia e quindi della pace”.

Antonio Riboldi – Vescovo –
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Omelia del giorno 11 Giugno 2006

Messaggio da Redazione » mer giu 07, 2006 6:25 pm

Omelia del giorno 11 Giugno 2006

Santissima Trinità (Anno B)

Abbà, Padre


La Chiesa, come a coronamento della bellezza della nostra fede, che ha le sue radici proprio in Dio, dopo averci fatti partecipi dei grandi misteri, come la Resurrezione di Gesù, la manifestazione della Pentecoste, “il respiro di Gesù”, fa festa per la presenza di tutta la Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo.
Sappiamo tutti che ogni uomo esiste solo perché, prima di essere nel grembo della mamma, era nel pensiero e nell’amore del Padre, da sempre.
Solo quando avremo la gioia di “vederLo” nella gloria del Paradiso, conosceremo l’immenso amore che ha per ogni uomo, chiunque sia. L’uomo, questa misteriosa bellezza che dà voce al creato, è davvero il capolavoro dell’amore del Padre.
Così ci definisce S. Paolo: “Fratelli, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi, per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo “Abbà, Padre!”.
Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi, eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria” (S. Paolo, Rom 8,14-17).
Non si hanno davvero parole per descrivere chi siamo agli occhi di Dio, il Padre! Mi approprio delle parole del
salmista: “O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra! Canterò la tua gloria più grande dei cieli, balbettando come i bambini e i lattanti...Se guardo il cielo, opera delle tue mani, la luna e le stelle che vi hai posto, chi è mai l’uomo perché ti ricordi di Lui? Chi è mai, che tu ne abbia cura? Lo hai fatto di poco inferiore a un dio, coronato di forza e di splendore, signore dell’opera delle tue mani. Tutto hai posto sotto il suo dominio, ...O Signore, nostro Dio, grande è il tuo nome su tutta la terra! (sl. 8) Credo che nulla del creato, per quanto sia stupendo, come le stelle, la natura che ci circonda, faccia “sorridere” il Padre, come la voce di un uomo, figlio, che gli dice “Ti voglio bene!”.
Possiamo avere tutto l’oro di questo mondo, tutte le ricchezze che volete, ma nulla può stare a paragone di un “ti amo”. Qui è la nostra vera grandezza. E mentre tutto è destinato a passare, come le cose che ci circondano, la nostra stessa vita, quel “ti amo” è destinato a continuare per l’eternità e ricevere in cambio il “ti amo” del Padre che ci ha voluto per la Sua Gloria.
E che sia veramente grande l’amore di Dio lo ha dimostrato nel farci dono di Suo Figlio per risollevarci dallo stato di “orfani” senza futuro, che eravamo dopo il peccato e che siamo ogni volta Gli voltiamo le spalle. E Gesù ci ama tanto da farsi fare a pezzi, come pane spezzato sulla croce, e poi donarsi a noi nella Eucarestia. “Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio Corpo”. Così Gesù manifesta il Suo
amore: “Avvicinatosi agli undici disse: Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”
(Mt 28, 16-20).
Ci rendiamo conto di quanto siamo “grandi” agli occhi della Trinità?
Incontrai un giorno un bambino, nei quartieri dove a volte è difficile sapere se si ha un padre. Mi fissava con due occhi grandi, che sembravano interrogare il cielo. Mi fermò, forse attirato dal fatto che chi mi stava attorno mi chiamava padre e mi disse: “Com’è un papà?”. Non aveva mai avuto la fortuna di avere vicino un papà. E credo sentisse un grande vuoto nel suo cuore. Fu difficile rispondere alla sua domanda, perché a queste domande si risponde con la realtà, ossia con l’avere un papà. Lo presi in braccio, mi si strinse forte al collo, come avesse avuto la sensazione di avere trovato papà. Poi con quei suoi due occhioni lucidi mi chiese “Tu, vorresti essere mio papà?”. Gli dissi di sì. E da allora venne sovente a trovarmi e a chi gli chiedeva perché veniva, rispondeva “E’ il mio papà”.
Mi viene da riflettere su quei milioni di bambini in Africa, America latina, che non vengono denunciati alle autorità quando nascono e così è come non esistessero. Bimbi che contano nulla agli occhi della umanità. E’ incredibile, ma vero.
E l’uomo, tutti noi, siamo come quel bambino, che sente il bisogno di un amore grande, totale, come quello del Padre: il bisogno di un “papà”!
Chi di noi, non sentiva, da piccolo, ma non solo, la gioia di avere vicino il papà, la mamma. Non era solo la nostra natura umana, meraviglioso dono del Padre, che chiedeva amore, ma il bisogno di un amore che desse sicurezza e fedeltà.
C’è davvero una grande nostalgia, o desiderio, in questa nostra società che, con il materialismo ha stritolato tutti i valori dell’uomo, riducendolo troppe volte a merce di poco conto, di un grande amore, come quello di papà o mamma. Questi, che Dio ha messo vicino a noi, altro non sono che l’immagine del grande amore della Trinità, ossia del Padre.
Chi non sente un grande dolore, di fronte a tutto quanto succede nel mondo, dove si uccide con facilità, con quelle che chiamano “guerre preventive”, ma sono guerre di potere. Non bastasse questo, ogni giorno c’è un mondo di uomini condannati alla morte per fame o sete per l’egoismo di chi sta bene e non intende condividere ciò che ha come solidarietà. Ogni volta vedo gli occhini di quei bambini, che la TV mostra, che sono carne ed ossa, e trascinano una infanzia quasi in pellegrinaggio verso la morte, senza neppure avere gustato un briciolo della bellezza dell’amore e della vita, forse interrogandosi che ci stanno a fare su questa terra, come spiegare a loro che vi è un Padre che ama tutti e che ci affida al cuore di tanti che ci sono fratelli, ma sono indifferenti, come se l’amore non esistesse?
Ammiro l’eroismo di tanti missionari e volontari che si fanno vicini a questi “dannati della terra”, condividendo fame, sete e disagi, aiutandoli a vivere e quindi a conoscere che la vita è un grande bene che inizia qui, ma poi avrà pienezza in Paradiso.
In un incontro a Catania con Madre Teresa di Calcutta, le chiesi cosa provasse, quando di notte percorreva i marciapiedi di Calcutta per raccogliere “stracci di uomini” o bimbi aggrediti dalla fame e dalla malattia. “Provo la compassione che Gesù ha per noi e con ogni cura cerco di riportare questi fratelli alla dignità, perché possano gustare la gioia di essere amati”. E Calcutta fu giustamente chiamata da La
Pierre: “La città della gioia”.
Forse è vero che la foresta non fa rumore quando cresce, ma mi accorgo che si moltiplicano le organizzazioni che si fanno vicine a questi fratelli e sorelle per ridare loro la gioia del salmista:
“Chi è mai, Signore, l’uomo perché tu te ne curi?”
Abbiamo davvero bisogno di riscoprire in noi, questa verità; che siamo preziosi agli occhi di Dio. Tutti.
Anche quando, come la pecorella smarrita, ci allontaniamo o facciamo il grande errore di cancellarne il ricordo. Ma si può cancellare l’amore?
Possibile che non sentiamo la dolcezza di quanto ci assicura Gesù: “Io vi sono vicino fino alla fine del mondo”?
Dovremmo, credo, fare un poco di pulizia nel nostro cuore, mettendo al posto giusto le creature, che non hanno voce e amore, e al centro la gioia dell’amore.
Ricordiamocelo sempre: un “Ti amo con tutto il cuore”
che un uomo, una donna, un bimbo dice a Dio, vale di più di tutti i canti degli uccelli messi insieme, per il cuore del Padre.
Quando ero piccolo, e ancora oggi, i genitori che mi amavano veramente di tutto cuore, ci facevano iniziare e terminare la giornata con quella indimenticabile, facile e meravigliosa preghiera che ricordo a voi:
“Ti adoro mio Dio, Ti amo con tutto il cuore, Ti ringrazio di avermi creato, fatto cristiano e conservato in questa notte.
Ti offro le azioni della mia giornata, fa’ che siano tutte secondo la tua volontà per la maggior gloria tua”.
E alla sera le ultime frasi “...fatto cristiano e conservato in questo giorno, perdonami il male che ho commesso. Preservami dal peccato e da ogni male, la grazia tua sia sempre con me e con tutti i miei cari. Amen”.
Che grande voglia di diventare bambini, accarezzati dal Padre!

Antonio Riboldi – Vescovo –
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Omelia del giorno 18 Giugno 2006

Messaggio da Redazione » gio giu 15, 2006 10:25 pm

Omelia del giorno 18 Giugno 2006

Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (Anno B)

Senza domenica non possiamo vivere


La solennità del “Corpus Domini” è sempre stata, nella Chiesa, “la grande festa della Eucarestia”. Oggi si è appannata la solennità, avendo forse dato maggior peso alla domenica come svago, più che al Sacramento, che è la vera origine della gioia.
Ma voglio cantare con tutti voi, miei amici, questa gioia che la Chiesa propone nella S. Messa:
“Ecco il pane degli Angeli: pane dei pellegrini, vero pane dei figli: non deve essere gettato. Con i simboli è annunziato, in Isacco dato a morte, nell’agnello della Pasqua, nella manna data ai padri. Buon Pastore, vero pane, o Gesù pietà di noi: nutrici e difendici, portaci ai beni eterni della terra dei viventi.
Tu, che tutto sai e puoi, che ci nutri sulla terra, conduci i tuoi fratelli alla tavola del cielo. Nella gioia dei tuoi santi” (Sequenza).
Chi non ricorda come i nostri paesi cambiavano letteralmente il loro aspetto feriale, vestendosi a festa, con i più preziosi drappi alle finestre di case, con tanti fiori ai bordi delle strade, come a voler rendere omaggio “all’Amico Gesù” che passava per le nostre strade, vicino alle nostre abitazioni, pregandoLo che le benedicesse. Si aveva l’impressione, o ancora meglio la fede, che Gesù, passando vicino alle nostre case, desse uno sguardo benigno alle nostre famiglie. E il “profumo” di quel “passaggio di Gesù” restava per giorni.
Sono davvero cambiati i tempi. Le
strade “appartengono al traffico” e questo non è disposto a concedere troppo spazio a Dio, per cui le processioni sono brevi, quasi di fretta, senza tanta festa, per non disturbare. L’uomo moderno sembra provi fastidio che Dio per un giorno occupi i suoi spazi.
Lo stesso è per l’Eucarestia, il centro della domenica, che giustamente è definita “il giorno del Signore”. Al posto della Eucarestia, si è programmato lo svago. E così gli spazi alla presenza dell’unica sorgente di gioia, Dio, si vanno facendo piccoli, fino a tentare di mettere in un angolo chi invece è il Centro della vita dell’uomo, o così dovrebbe essere.
Torno come alla contemplaz10ne di una “icona di cielo” della mia memoria. La regola della famiglia era “senza Messa non c’è mensa!”. Ed era una vera festa vedere tutta la famiglia - eravamo in tanti - ad una certa ora, vestiti a festa, recarsi alla S. Messa. Era gioia. Così come per tante nostre mamme non c’era giorno senza Messa, perché “senza quel Pane Celeste”, come si fa a conoscere l’amore alla famiglia?
Ancora adolescente, ricordo sempre come per noi era “inizio di una buona giornata nell’anima”, recarsi in Chiesa per riceve la Comunione, “pane del Cielo”… rischiando a volte di “saltare”la colazione. Mi è sempre davanti mamma che mi attendeva con la piccola cartella della scuola ed un tozzo di pane. A me, che mi lamentavo “mamma, ho fame!”, la risposta
era: “Meglio nella vita una buona Comunione che una buona colazione”. E così ogni giorno.
E’ memoria, se vogliamo. I tempi sono cambiati:
siamo come stati travolti da consuetudini, stili di vita, mentalità che non aiutano a dare il primo posto al “pane del Cielo”. Ma siamo davvero più buoni e sereni oggi con “il pane degli uomini?”
Inevitabilmente con la perdita della centralità della Messa alla domenica, quale è diventato il centro di quello che è chiamato “giorno del Signore?”
Lo scorso anno, se vi ricordate, ci fu il Congresso Eucaristico nazionale a Bari. E il motto era “Senza domenica non possiamo vivere”, attribuito ai 49 martiri di Abilene che nel 304 hanno preferito, contravvenendo agli ordini dell’imperatore Diocleziano, andare incontro alla morte piuttosto che rinunciare a celebrare il giorno del Signore.
Questo è il racconto arrivato a noi dal redattore del martirio, commentando la domanda posta dal proconsole Anulino al martire Felice:
“O stolta e ridicola richiesta del giudice! Gli ha
detto: “Non dire sei cristiano”; e poi ha
aggiunto: “Dimmi invece se hai partecipato all’assemblea”.
Come se vi possa essere un cristiano senza il giorno della domenica o si potesse celebrare il giorno della domenica senza il cristiano! Non lo sai, Satana, che è il giorno della domenica a fare il cristiano e che è il cristiano a fare il giorno della domenica, sicché l’uno non può esistere senza l’altro e viceversa?”
Quando senti dire “cristiano” sappi che vi è una assemblea che celebra il Signore, e quando senti dire “assemblea” sappi che lì c’è il cristiano”... Si comprende allora perché Emerito, al proconsole che gli rimproverava di avere ospitato nella sua casa i cristiani per l’Eucarestia domenicale, non esitò a
rispondere: “ Senza la domenica non possiamo vivere”.
Ascoltando questa testimonianza viene da arrossire pensando a tanti nostri fratelli cristiani che non sanno più quale sia il vero significato della domenica.
Ed è di grande tristezza per noi pastori e per tanti, vedere a volte le nostre chiese la domenica se non deserte, certamente con vuoti che diventano vuoti di gioia per troppi.
E continuando il racconto dei martiri di Abitene, che davano tanta importanza alla domenica con l’Eucarestia, senza della quale “non possiamo vivere”, è bene riscoprire e almeno conoscere l’origine della domenica. Chiediamoci, sulla scorta di quanto hanno asserito i vescovi in preparazione al Congresso
Eucaristico: “Perché il giorno dopo il sabato?”.
“Perché in questo giorno avvenne la resurrezione di
Gesù: in questo giorno Gesù si mostrò ai suoi discepoli, vinse la loro incredulità e la loro paura, effuse su di loro il suo Spirito Santo e così diede la garanzia della sua permanente presenza e della sua azione nella Chiesa. A ben guardare non è la Chiesa che ha istituito “il giorno del Signore”, ma è il Signore risorto che ha voluto che “il primo giorno dopo il sabato” fosse il suo giorno, perché da Lui fatto e a Lui dedicato.
Infatti un salmo, usato nella liturgia della domenica,
canta: “Questo è il giorno fatto dal Signore; rallegriamoci ed esultiamo in esso” (Sal 118).
Per tutti questi motivi la comunità cristiana chiama il “primo giorno dopo il sabato” “giorno del Signore”
(Domenica).
Da qui la celebrazione eucaristica, “cuore della domenica”. Nel suo giorno il Signore si rende presente nella celebrazione eucaristica e si dona a noi nella Parola, nel Pane e nel dinamismo del suo amore, permettendoci di vivere la sua stessa vita.
Disertare l’Eucarestia domenicale porta a impoverirsi, a vedere la propria fede e l’appartenenza alla Chiesa indebolirsi giorno dopo giorno e a constatare la propria incapacità di fare della domenica un giorno di festa.
Mentre l’industria del divertimento diventa sempre più prolifica e le occasioni per fare festa si moltiplicano, l’uomo sembra avere smarrito “il perché” e il “per chi”
festeggiare. Purtroppo quando la domenica perde il significato originario e si riduce a puro “fine settimana”, può capitare che l’uomo rimanga chiuso in un orizzonte tanto ristretto, che non gli consente più di vedere “il cielo”. Allora, per quanto vestito a festa diventa intimamente incapace di “fare festa”.
La domenica ritorna ogni settimana per ricordare a tutti che Cristo è la nostra festa. La partecipazione alla Eucarestia diventa più che un obbligo un bisogno. “Come potremmo vivere, senza domenica?
Dovremmo essere capaci di dire con le parole dei martiri di Abitene.
E’ urgente che tutti noi torniamo a riscoprire la sorgente della gioia della vita che ha la sua fontana proprio nella domenica con l’Eucarestia. E’ una gioia troppo bella, dono del Signore, che non deve essere “bruciata” dalle tante offerte di svago, che possono essere un contorno alla “domenica”, direi un frutto della domenica, ma con al centro l’Eucarestia.
Tornare a sentirci una cosa sola, come comunità, lieta di pregare insieme, felice di incontrarsi e scambiare ai piedi del Signore gioie e speranze, sofferenze e angosce e creare quella comunione, che è l’anima della Chiesa e fa sentire che, nella vita quotidiana, non si è mai soli ma si è con gli altri, come se la vita fosse una continua comunione intorno all’unica Mensa Eucaristica in cui Gesù dona “corpo e vita”.
Tornavo un giorno da una camminata e osservavo la grande fila delle macchine (una triste chiusura a volte di un giorno di festa) e cercavo di cogliere ciò che era sul viso di chi era in macchina. Quasi mai ho notato gioia dopo una giornata di festa solo umana. Ho visto solo visi tirati, senza parole, come tornassero non da una festa ma da una fatica. Proprio vero che “senza domenica non possiamo vivere”.
Forse dove siete oggi si celebra la solennità del Corpus Domini e sono certo con la solenne processione eucaristica. Manifestate quella profonda festa e gioia nel vedere Gesù “camminare per le nostre vie” e benedire, benedire, come accarezzare il nostro animo a volte stanco. Ve lo auguro di vero cuore e anch’io farò grande festa, sempre ricordando la lezione di mamma, tanti anni fa: “senza messa non c’è mensa”, non c’è festa!

N.B: Chiedo ai miei amici una preghiera: Il 29 Giugno compio 55 anni di sacerdozio. E’ un dono e responsabilità.


Antonio Riboldi – Vescovo –
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Omelia del giorno 25 Giugno 2006

Messaggio da Redazione » gio giu 22, 2006 1:11 pm

Omelia del giorno 25 Giugno 2006

XII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

Tempo di paura?

Facile incontrarsi oggi con tanti che “hanno paura della vita”. “Un tempo - mi spiegava una persona - la vita era più semplice. Una semplicità che forse potremmo chiamare oggi, alla luce del cosiddetto benessere, del progresso e di quello che vuole, povertà. Si era felice del poco e si aveva una grande fiducia nella Provvidenza.
Anche le prove della vita, che ci sono sempre per tutti, come le malattie o altro, si accoglievano con quella fede che faceva sentire Dio vicino...anche se non si capivano i Suoi disegni, ma avevamo la certezza che erano amore, solo amore.
Oggi, dopo avere creduto di avere tutto con il benessere, abbiamo perso la gioia di sentire Dio vicino, che sa vegliare sulla nostra esistenza. E allora tutto ci fa paura”.
Mi sono chiesto allora anch’io se il progresso economico, tecnico e quello che volete, ci ha fatto crescere come “figli di Dio” che non temono nulla, e se queste conquiste davvero possono dare quella serenità e fiducia che ci dava l’abbandono nel Cuore di Dio, dove solo si sta bene, tanto bene, nonostante tutto.
Stando un momento in una comunità definita “tenda di Dio”, nel Cremonese, che ospita i malati di AIDS in fase terminale ed ero loro ospite, mi sarei aspettato disperazione o altro. Avvolti da una squisita carità di Padri e volontari, che sembravano davvero la carezza del Padre, in quella struttura semplice, che potrebbe avere nome “povertà dignitosa che vive di servizio e carità”, respirai un’incredibile serenità proprio di chi si sentiva al sicuro sulla barca della vita. E come quella “Tenda” il mondo è davvero pieno di “barche”
che sanno affrontare la burrasca...solo perché hanno la certezza che non sono soli, ma con loro, in mezzo a loro, c’è Cristo.
Non voglio assolutamente negare che ci sono per tutti momenti di buio nella vita, di prove che mettono in discussione che Dio sia con noi. E non riusciamo a spiegarci il suo silenzio.
Ricordiamo tutti quello che del resto disse il Santo Padre, Benedetto XVI, visitando i campi di sterminio in Germania, ad Auswihtz. Facendosi totalmente coinvolgere dall’orrore, con le lacrime agli occhi, non seppe che chiedere a Dio: “Dio, perché hai taciuto?”.
Una domanda che si trova spesso sulla bocca di tanti di fronte al dolore.
Gesù stesso, nell’agonia del Getsemani, “vivendo” il grande dolore della sua passione e morte in croce, sudando sangue, rivolgeva al Padre una preghiera che ha tutta l’aria di chi si sente abbandonato: “Padre, se è possibile, allontana da me questo calice...Ma si compia la tua volontà”. Sapendo che quell’immenso dolore della passione era il necessario prezzo dell’amore per liberarci dalla disperazione, accettò la volontà del Padre. Ma sulla croce, anche Lui, come noi, a volte, ebbe a dire con le parole del
salmista: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.
Che Dio ci sembri indifferente e lontano nei momenti delle nostre inevitabili prove, lo racconta bene il Vangelo di oggi.
“In quel giorno, verso sera, disse Gesù ai suoi
discepoli: “passiamo all’altra riva”. E lasciata la folla, lo presero con sé, così come era, nella barca. C’erano altre barche con Lui.
Nel frattempo si sollevò una gran tempesta di vento e gettava le onde nella barca, tanto che oramai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: “Maestro, non ti importa che noi moriamo?”
Destatosi, sgridò il vento e disse al mare: “ Taci, Calmati!” Il vento cessò e ci fu gran bonaccia. Poi disse loro: “Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?”
E furono presi da grande timore e si dicevano l’un
l’altro: “Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?” (Mc 4,35-40).
Gesù lascia alle spalle la folla, che Lo aveva ascoltato per tanto tempo, quasi troncando il filo del discorso, e decide di andare oltre il lago, tra gente cui non era arrivata ancora la Sua Parola. Ed era la missione che più gli stava a cuore. Sapeva che andare tra la gente che aveva, come sempre, un atteggiamento a volte di entusiasmo, a volte scettico, a volte di indifferenza, come se la Buona Novella fosse un passatempo o una curiosità, esigeva da Lui tanto coraggio e anche la possibilità di incontrare ostacoli.
Era proprio, l’andare tra gli uomini a parlare del Regno del Padre, una non facile missione...proprio come oggi. E sulla barca che lo portava all’altra riva, forse più che riposare pensava a questo suo viaggio non facile di Dio tra di noi. Ma tutto questo non Lo
turbava: anzi mostrava un incredibile distacco fino a sembrare disinteresse.
Non lo “sveglia” neppure la grande bonaccia che, secondo la paura dei discepoli, poteva mettere a rischio la stessa barca, fino ad affondare e quindi porre fine alla missione. Non sapendo che la barca con Gesù non affonda mai, anche nelle più grandi tempeste! E questo per ogni nostra vita a volte simile ad un viaggio “in barca” che, finché “a poppa sul cuscino apparentemente in riposo, vi è Gesù”, non affonda mai. Affondano le tante “barche” su cui non viaggia, o meglio preferiamo non sapere che Lui è lì, sempre vigile. Viene in mente “la barca di Pietro che è la Chiesa”.
Quante tempeste ha attraversato e attraversa nella
storia: con uomini che tentano in tutti i modi di farla affondare, credendo così di “liberarsi di Dio” e non sapendo che senza di Lui sicuramente la barca affonda. Quante persecuzioni ha subito e subisce la Chiesa su tutti i fronti e, “anche se la barca, come affermava il S. Padre nella Via Crucis, fa acqua da ogni parte” continua il suo viaggio verso l’eternità. “Tu sei Pietro, disse un giorno Gesù, e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa”.
Forse oggi, per la nostra poca fede, ci lasciamo prendere dalla paura. E sono tante le voci, troppe, che si alzano per dire con gli apostoli: “Maestro, non ti importa che moriamo?” Gesù non solo non dorme, ma assicura che nessuna tempesta può mandare a fondo la sua Chiesa. Qui è la tranquillità di tanti che davvero sanno che Gesù domina la storia, calma le tempeste, anche se il mondo, come oggi, è davvero un mare in grande tempesta. Basta dare uno sguardo a quello che si viene a sapere: un mondo che a volte sembra impazzito o quasi compiaciuto di distruggersi, come è per esempio la continua minaccia al nostro pianeta con la desertificazione, per la sola ragione di fare soldi nel togliere alla terra ciò che è polmone del mondo, come avviene nella Amazzonia, o nel non fare un passo indietro in tutto ciò che crea l’effetto serra. Si ha quasi l’impressione di vivere quello che avvenne nella tragedia del Titanic, che, mentre la meravigliosa nave affondava, la gente ballava, incurante della tragedia che stava per compiersi.
Davvero noi uomini siamo pazzi: siamo la burrasca che vuole mandare a fondo tutto…salvo poi dire “Ma Dio, dov’era? o dov’è?”.
I veri credenti sanno che Gesù con noi è la nostra serenità, anche se a volte ci viene sulle labbra il
lamento: “Maestro non ti importa che noi moriamo?”
Come discepolo di Antonio Rosmini, la cui causa di beatificazione è in corso, piace donare l’esempio di questo grande della santità, della filosofia, della dottrina e della teologia. Lui solo sa come facesse a scrivere tanto. Quando Gregorio XVI, che conosceva molto bene Rosmini, approvò l’Istituto della Carità, da Rosmini fondato, di sua mano scrisse: “Rosmini è persona fornita di elevato e eminente ingegno, adorna di egregie qualità d’animo, sommamente illustre per la scienza delle cose divine ed umane, chiaro per la sua esimia pietà, religione, virtù, probità, prudenza e integrità e splendente di meraviglioso amore e attaccamento alla religione cattolica e alla Santa Sede”. Insomma un grande della scienza, santità e carità.
Dopo Gregorio XVI, divenne amico intimo di Papa Pio IX che, per onorare questa sua grandezza di scrittore e santità, volle con insistenza fosse elevato all’ordine cardinalizio. Ma tutto si interruppe con le vicende storiche del 1848. Il Papa Pio IX, ora santo, fu esiliato a Gaeta e Rosmini a Caserta. E inizia la guerra contro le sue dottrine, fino al punto di sentirsi rifiutato e sospettato di eresia, tanto che furono messe all’indice, con le famose 5 piaghe della Chiesa, anche altre proposizioni. Di fronte all’ordine del S. Padre, che imponeva il silenzio a tutti, obbedì e si ritirò, subendo insinuazioni e calunnie, senza opporre resistenza.
La sua regola era “Adorare, tacere, godere”. Ed era circondato da tanti che non solo lo stimavano, ma lo avevano come padre spirituale, a cominciare da Alessandro Manzoni.
Ma come viveva lui questa burrasca, che non si riesce a capire neppure oggi. Lui vedeva in tutto questo un disegno della Provvidenza, ossia confidava in Gesù che forse vedeva riposare a poppa su un cuscino, a dare sicurezza.
Ad un sacerdote scriveva il suo stato d’animo, non facile da capire e vivere per noi oggi: “Io, meditando la Provvidenza, l’ammiro: ammirandola la ringrazio; l’amo amandola; la celebro celebrandola; la ringrazio ringraziandola; mi empio di letizia. E come farei altrimenti se so per ragioni di fede, e lo sento con l’intimo spirito, che tutto ciò che si fa, o voluto o permesso da Dio, è fatto da un eterno, da un infinito, da un essenziale Amore?”.
Così sono i santi sempre, di fronte alle tempeste.
Così è bello essere anche noi.

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Omelia del giorno 2 Luglio 2006

Messaggio da Redazione » gio giu 29, 2006 1:15 pm

Omelia del giorno 2 Luglio 2006

XIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

Chi mi ha toccato?


In un incontro di cristiani che hanno deciso di dedicare la propria vita al servizio dei poveri nel mondo - ed è il mondo che occupa più spazio di quanto ne occupa invece chi dice di “vivere bene”, ossia ha, se non tutto, almeno il sufficiente - ad un certo punto un uomo, confrontandosi con la povertà, si chiese pubblicamente. “Non sono ricco, ma non mi manca nulla...Anzi confrontandomi con chi, davvero più che vivere, sopravvive, sento di dovere a loro tante, ma tante cose superflue, fino a condividere in qualche modo la loro totale miseria. Che devo fare? Come togliermi questo che mi pesa e che sento non mi appartiene? Ogni volta mi reco in Africa, per condividere la miseria, dove cerchiamo di alleggerire con altri il deserto della ingiustizia, mi sento davvero felice, finalmente, di essere come uno di loro e non mi pesa il nulla che là posso avere. Mi sento felice in quel diventare povero per rendere meno povero chi è misero sempre. Mi pare che solo allora leggo, negli occhi di chi amo, il sorriso di Gesù che si sente amato. Che fare?”
Viene da rispondere con le parole che Paolo scriveva ai fratelli di Corinto. “Fratelli, come vi segnalate in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella scienza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così distinguetevi anche in questa opera generosa.
Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù
Cristo: da ricco che era, si è fatto povero perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà. Qui non si tratta infatti di mettere in ristrettezza voi per sollevare gli altri, ma di fare uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza e vi sia uguaglianza, come sta
scritto: “Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno” (II Cor 8,7-15).
Ed è proprio nella nostra vocazione cristiana, avere questa sensibilità per essere trovati giusti agli occhi del Signore. Una giustizia che, nella natura della carità, non è solo nel non rubare, ma nel farsi dono, se si ha, con chi non conosce doni e vive in povertà.
Così descrive questa vocazione alla carità il S. Padre nella sua enciclica “Dio è carità”. “La Chiesa è la famiglia di Dio nel mondo. In questa famiglia non deve esserci nessuno che soffra per mancanza del necessario.
Al contempo però la caritas-agape travalica le frontiere della Chiesa: la parabola del buon Samaritano rimane come criterio di misura, impone l’universalità dell’amare che si volge verso il bisognoso incontrato “per caso”, (Lc 10-31) chiunque egli sia.
Ferma restando questa universalità del
comandamento dell’amore, vi è però anche una esigenza specificatamente ecclesiale - quella appunto che nella Chiesa stessa, in quanto famiglia, nessun membro soffra perché nel bisogno. In questo senso vale la parola della Lettera ai Galati: “Poiché dunque ne abbiamo l’occasione, operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede” (6,10).
Osservando superficialmente come troppi tra di noi si comportano, vestono, si divertono, dando l’impressione del benessere che è sempre vanità delle vanità, farse non ci accorgiamo o sfugge all’occhio di chi sta bene, il grande numero di chi accanto a noi, sotto casa nostra, sta male.
Ogni paese, o città, ha le sue “baraccopoli” che sono l’immagine della emarginazione. Fratelli nella fede, che non trovano lavoro o pane e vivono davvero ai confini della sopravvivenza. Assomigliano tanto all’uomo derubato e bastonato sulla via che da Gerusalemme conduce a Gerico, raccontato nella parabola del buon Samaritano. Sono dei semivivi che, se non incontrano il buon samaritano, della vita conoscono solo le ristrettezze e fanno la parte del povero Lazzaro, che raccattava le briciole che cadevano dalla ricca tavola di Epulone, quando non scelgono le vie della violenza, del furto o di altro, che sono la continua guerra che sentiamo raccontare dai mass media. Pare proprio che aggi la ricchezza subisca una continua violenza, che toglie certezze e serenità. Ma queste appartengano a chi sa farsi povero, come Gesù, per liberare i poveri.
Se dovessi raccontare la mia vita tra la povera gente - e pare proprio che Dio abbia così stabilito per me - quante storie di dolore, di violenza, potrei raccontare.
E nello stesso tempo come è bello vivere e farsi continuamente dona per chi non ha dona. E’
davvero “vivere Cristo nei fratelli”.
La sanno tutti gli operatori di carità, sparsi nel mondo, che sono i meravigliosi samaritani che testimoniano che Dio è vicino a noi!
Ma bisogna uscire dalla propria “casa” e mettersi in viaggio tra la gente per imbattersi nel fratello che soffre. Come faceva Gesù, secondo il racconto di Marco, che la Chiesa ci offre aggi. Una pagina di meravigliosa sensibilità e carità, che è esempio di attenzione di Dio verso chi soffre.
Gesù si era allontanato dalla folla ed aveva chiesto di essere trasportato nell’altra parte del lago, seguendo la missione affidatagli dal Padre di portare la Buona Novella a tutti. E ricordiamo la tempesta sul lago, che spaventa a morte i discepoli, mentre Lui dormiva a poppa sul cuscino, e il rimprovero: “Maestro, non ti importa che noi moriamo?” E ricordiamo il rimprovero “Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?”
Arrivato sull’altra sponda lo attende una grande folla lungo il mare. Qui avvengono due miracoli che mostrano da una parte la delicatezza di una fede che si fa preghiera e dall’altra la premurosa risposta del Maestro.
Il primo episodio è quello di Giaìro, uno dei capi della sinagoga, che, “vedutolo, si getta ai piedi di Gesù e lo pregava con insistenza: “La mia figlioletta è agli
estremi: vieni a imporle le mani perché sia guarita e viva”. In questa semplice preghiera c’è una grande fede, tanto grande che Lo prega “con insistenza”.
Gesù accoglie l’invito e, seguito da molta folla, “andò con lui”.
Immaginiamo la scena di questo vario corteo che invade il sentiero ed è curioso forse di sapere che esito avrà quell’avere accettato un invito a compiere ciò che solo Dio poteva compiere, ossia strappare alla morte una fanciulla...
“Mentre cammina, una donna, racconta Marco, che da dodici anni era affetta da emorragia, e aveva molto sofferto, per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla, alle sue spalle, e gli toccò il mantello. Diceva infatti: “Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita” (Ci vuole una fede “da trasportare le montagne” per avere la certezza di guarire, con il solo tocco del mantello di Gesù). Mentre Giairo va da Gesù e, gettandosi ai suoi piedi, lo prega con insistenza per la guarigione della figlia, qui la fede è tanto grande da non affidarsi alla parola, ma è risposta in un gesto semplice e comune, “toccare il lembo della sua veste”.
“Subito, continua Marco, si fermò il flusso del sangue e sentì nel suo corpo che era stata guarita. Ma Gesù, avvertita subito la potenza che era uscita da lui, si voltò verso la folla dicendo: “Chi mi ha toccato il mantello?”
Possiamo immaginare lo stupore di chi gli era vicino, a questa domanda, tanto che dissero: “Maestro, tu vedi la folla che ti si stringe attorno e dici: chi mi ha toccato?” Ma Gesù intanto guardava intorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Gesù rispose: “Figlia, la tua fede ti ha salvata.
Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”.
Intanto c’è chi riferisce a Giairo che era inutile quel viaggio verso casa. “Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?” Ma Gesù: “Non temere e continua ad avere fede!” Viene accolto dal trambusto della gente che forse non si dava pace per quella morte. E
Gesù: “Perché fate tanto strepito e piangete? La fanciulla non è morta, ma dorme”. Ed entrato in casa, prese la mano della bambina e le disse: “Fanciulla, io ti dico, alzati!” La fanciulla si alzò e si mise a camminare” (Mc 5,21-43).
Due miracoli incredibili, che hanno come sfondo da una parte la grande fede di Giairo e della donna e dall’altra la proclamazione della divinità di Gesù.
Un Dio che si lascia commuovere dalla fede e sa mostrare quanto ci ama. Una grande lezione per tutti noi, che non sappiamo avere la stessa fede, ma quasi vorremmo “imporre i miracoli”, che invece hanno le radici nella semplicità di cuore che mette tutto nelle mani o nel cuore di Dio, lasciando che sia Lui, poi, a fare quello che è utile per noi. “Continua ad avere fede!”, ci ripete ancora oggi.
Commuove, e profondamente, la grande umanità di Dio fattosi uno di noi, ieri, oggi e sempre, cha sa piegarsi sul nostro dolore e sa ascoltare, perché Lui è amore, solo amore.
Quante volte potremmo anche noi, se non guarire, dare sollievo ai fratelli che incontriamo, ma non ci pensiamo nemmeno, perché non crediamo alla potenza anche di un solo gesto di amore. Ma “di Giairo e donne” come nel Vangelo di oggi, ce ne sono tanti! Bisogna allargare l’udito del cuore e farlo “parlare”!
A volte sorprende anche noi come gesti di bontà, che a noi sembrano semplici, invece sono una sorgente di grande gioia. Giorni fa un missionario del Perù mi chiedeva aiuto per acquistare una Via Crucis da collocare nella sua Chiesa, situata in mezzo alle favelas,ossia ai poveri della terra.
Quella Via Crucis era il sogno di quei crocifissi nella vita, che vedono nel Crocifisso la loro storia.
Occorrevano mille euro che inviai subito e fu grande festa. La festa che prego per tutti noi.

Antonio Riboldi – Vescovo –
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Omelia del giorno 9 Luglio 2006

Messaggio da Redazione » gio lug 06, 2006 12:28 pm

Omelia del giorno 9 Luglio 2006

XIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

Tempo di profeti il nostro?


Del nostro sempre più amato Giovanni Paolo II, ricordiamo, credo, il suo indomito coraggio nel proporre agli uomini di tutti i luoghi la verità di Dio. E tutti sappiamo che, se è vero che tutti, ma proprio tutti, dal Battesimo riceviamo la missione profetica, il Santo Padre in modo specialissimo lo è per la sua natura di “voce di Dio”. E quello che conta è Dio che si fa Parola, entrando nelle situazioni dell’uomo: situazioni a volte bisognose di conferma nella fede, a volte bisognose di essere scosse dal pericoloso sonno di una fede che può diventare cecità di Dio.
Non aveva certo paura Giovanni Paolo II, come del resto Paolo VI, come l’attuale nostro carissimo Benedetto XVI.
Due esempi: ricordate quando Giovanni Paolo II, visitando la Sicilia, da Agrigento, si rivolse alla mafia con una voce che sembrava fosse il tuono di Dio che ammonisce, e disse quelle poche parole che si stamparono nel cuore di tutti: “Non uccidete! In nome di Dio!”
Fu davvero voce profetica che dette tanto coraggio a chi forse temeva di farsi voce per paura. Ma la profezia non conosce paura.
Un secondo episodio, che credo sia rimasto impresso nella coscienza di tutti, fu quello di Paolo VI, al momento di dire una parola chiara su problemi, che oggi si discutono e sono di grande attualità, ossia aborto, contraccettivi, famiglie. E lo fece con la grande Enciclica “Humanae vitae”, che conobbe tante reazioni, anche nel mondo della Chiesa...come a dire che la Parola di Dio, quando si fa voce, non lascia tranquilli.
Oggi, come sempre, abbiamo bisogno di grande chiarezza, quella che sola viene dalla Parola di Dio, l’unica che è Verità e l’unica che può essere luce a chi davvero cerca la verità...ma viene odiata da chi ama le tenebre.
Così si esprime il profeta Ezechiele: “In quei giorni, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava. Mi disse: “Figlio dell’uomo, io ti mando agli Israeliti, a un popolo di ribelli, che si sono rivoltati contro di me. Essi e i loro padri hanno peccato contro di me fino ad oggi. Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito. Tu dirai loro: “Dice il Signore Dio. Ascoltino o non ascoltino - perché sono una genìa di ribelli - sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro” (Ez 2,2-5).
E’ chiaro che, quando parliamo di “profeti”, intendiamo definire “il profeta”, non colui che fa profezie, ossia predice il futuro. Oggi è incredibile il numero di persone che si rivolgono ai maghi o altre persone di questo genere per sapere da loro il proprio domani. E tutti sappiamo che nessuno ha il potere di conoscere il nostro futuro, se non il solo Dio, eppure spesso diamo credito a questi indovini, che di vero conoscono la magia del profitto o il potere di sottometterci con le minacce. Profeta per noi è solo colui che ci offre quello che Dio dice per il nostro bene, a nome di Dio.
Ricordo che tante volte mamma, davanti a noi figli che a volte cercavamo strade non giuste, diceva: “E’ ora di alzare la voce e dire ciò che è giusto e bene a nome di Dio”. Ed era grande la sua autorità. In questo mamma, papà erano i nostri “profeti”...come lo sono anche oggi tanti laici. E i profeti non piacciono, diciamocelo con franchezza, a noi che cerchiamo invece voci di comodo che diano ragione a quello che non contiene verità e bontà. E quante ce ne sono!
Purtroppo capita a questi “semplici” profeti di casa nostra, che sono in mezzo a noi e con la parola e la vita ci parlano di Dio, quello che capitò a Gesù.
Così racconta Marco nel Vangelo: “In quel tempo, Gesù andò nella sua patria e i discepoli lo seguirono.
Venuto il sabato, incominciò a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltandolo, rimanevano stupiti e
dicevano: “Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? E questi prodigi compiuti dalle sue mani? Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Joses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non sono qui da noi?” E si scandalizzavano di lui. Ma Gesù disse loro: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”. E non vi poté operare nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi ammalati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù andava attorno per i villaggi, insegnando” (Mc 6,1-6).
E’ l’atteggiamento che si ha ancora oggi quando ci troviamo di fronte ad un “profeta” di casa nostra e che accettiamo o rifiutiamo non per quello che dice, ma per la sua condizione sociale. Incredibile.
Il nostro amato Papa Benedetto XVI, presentando la tematica della giornata mondiale dei giovani, che si terrà a Sidney nel 2008, nella lettera dal titolo “Lampada ai miei passi la tua parola, luce sul mio cammino”
scrive: “Cari giovani, amate la parola di Dio e amate la Chiesa che vi permette di accedere a un tesoro di così alto valore introducendoci ad apprezzarne la ricchezza...Non è facile riconoscere e incontrare l’autentica felicità nel mondo in cui viviamo, in cui l’uomo è spesso ostaggio di correnti di pensiero che lo conducono, pur credendosi “libero”, a perdersi negli errori e nelle illusioni di ideologie aberranti. E’
urgente “liberare la libertà”, rischiarare l’oscurità in cui l’umanità sta brancolando. Gesù ha indicato come ciò possa avvenire: Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli, conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (dal messaggio ai giovani).
Da Profeta, quasi a confermare quanto il Santo Padre scrive ai giovani, Paolo VI nella Quaresima del 1965,
diceva: “La prima forma di negazione di Dio è il sistematico e preconcetto rifiuto a non credere. Non si esita a parlare di mito, di fiabe, di cose irreali. Ora questa opposizione, che attraverso i mezzi di comunicazione si sente circolare nel nostro mondo, e forma la mentalità di non pochi, parte da un mendace presupposto. Vi è chi ritiene atto di intelligenza opporsi all’insegnamento del Signore e alla dottrina della Chiesa. Per essere spregiudicati, più forti degli altri, bisogna saper dire di no: io non credo. La religione si insinua come una imposizione che non accetta contrapposizione, è fatta per gli spiriti deboli, non per il pensiero moderno, non per i critici, gli istruiti, i refrattari alle suggestioni. Essi insistono nel loro ripudio. E si servono del “lume divino”, che è la ragione, non per cercare la verità, non per accogliere con simpatia e con gioia LA LUCE DI DIO che entra nelle anime mediante le parole del Vangelo, ma, per così dire, chiudono le finestre e usano dl contrario, proprio la ragione, per negare le verità del Credo e quindi resistere alla luce e gioia del Signore” (Paolo VI, quaresima 1965).
Dobbiamo avere il coraggio di entrare in noi stessi, in quel profondo dell’anima, là dove c’è il “respiro di Dio”
e quindi il bisogno di verità e di gioia.
Nei momenti di silenzio interiore, che è il prezioso momento che Dio crea per farsi trovare, sentiamo tutti, senza eccezione, la necessità di capire il senso della nostra vita e quindi la necessità della VERITA’ che è davvero l’aria dell’anima. E’ in quei preziosi momenti che sentiamo il bisogno di vedere il vero volto della vita e quindi il volto di Dio.
E’ impressionante oggi vedere come tantissimi, a cominciare dai giovani, cerchino le solitudini dei conventi e amino “le notti del silenzio” che diventano alba di gioia. E’ il momento in cui appare chiaro come tutto ciò che il mondo di sempre propone, come “necessità di benessere o stile di vita moderna”, è solo una fuga dalla verità per camminare al buio…e si fa strada la sete del vero! Come la Samaritana al pozzo, ve lo ricordate? “Dammi quest’acqua!”
Ho sempre nella memoria le veglie notturne nelle notti che precedevano le Giornate mondiali dei giovani.
Faceva impressione e meraviglia il silenzio dopo l’ascolto della Parola di Gesù. Ovunque. E non era solo di qualcuno, ma di centinaia di migliaia di giovani.
Così come è davvero una grazia conoscere, frequentare, essere guidati da chi crede che la Parola non è un vuoto suono, ma fa parte della vita: è vera Vita. E’ lì che finalmente si scopre cosa significa verità, gioia.
A volte, mentre scrivo le riflessioni settimanali, in cui cerco di rimuovere il velo alla Parola, per farla apparire in tutta la bellezza, penso a tutti voi, che mi leggete, e mi pare di essere una grande assemblea che per un momento si estranea dal buio del mondo ed entra nella luce di Dio.
E io stesso mi commuovo e chiedo sempre allo Spirito che guidi la mia mano a comunicare la bellezza della Parola. Le tante e-mail, che del resto mi scrivete, confermano tutto ciò. Non ci resta che pregare il Signore perché susciti oggi tanti profeti che sappiano non avere paura della verità, la vivano, la comunichino a troppi che vivono al buio.
Si dice che un giorno Diogene fu visto aggirarsi per le strade della città in piena luce con in mano una lampada accesa, come cercasse qualcosa o qualcuno. Gli fu chiesto chi o cosa cercasse: e la risposta fu, ieri come oggi: “Cerco l’uomo!”
La preghiera che faccio per voi è che sappiate sempre portare la “lampada che fa luce e che è la Parola”, in cerca degli uomini del nostro tempo.

Antonio Riboldi – Vescovo –
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Omelia del giorno 16 Luglio 2006

Messaggio da Redazione » gio lug 13, 2006 11:35 am

Omelia del giorno 16 Luglio 2006

XV Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

Sentiamo di essere “mandati”?


Immagino il giorno in cui Gesù, abbandonata la casa di Nazareth, che per Lui era “il tempio della maturità e della conoscenza della volontà del Padre”, esce allo scoperto e inizia la sua Missione di portare tutti alla conoscenza del Padre.
Forse riflettiamo poco, anche se battezzati, sulla verità del nostro vivere: ossia sul perché siamo a questo mondo. Non certo per vagare senza un preciso indirizzo. E tutti sappiamo come non è permesso a nessuno “vagare nel deserto del mondo”, perché significa smarrirsi, perdersi.
Ricordo sempre quella giovane donna che, al termine di un convegno, proprio sulla necessità della nostra fede, dono immenso di Dio che è come la finestra aperta del Cielo, o se volete la “stella” polare che segna la strada della nostra vita segnata da Dio, mi accostò. Aveva il viso stravolto e più che piangere per dolore, piangeva di rabbia. Non tutto nella vita era andato per il verso giusto, anche perché il suo era un “verso” capriccioso. Con rabbia mi urlò: “Ma chi mi ha fatto quello che lei chiama “dono della vita” senza chiedermi il permesso? Sapesse quanto “vorrei”
scendere da questa vita, ma sono vile e non ne ho il coraggio!”
Siamo stati a lungo a parlare e lentamente la rabbia si scioglieva. Lei aveva i “suoi occhi nei miei”, come a scrutare la verità della mia anima, più che ascoltare le parole. L’affascinava la serenità che era nel mio sguardo e me ne chiese la ragione. “La mia vita, come quella di tutti, la considero un grande dono del Padre. Ma bisogna conoscerLo e amarLo per conoscere la bellezza”. Lentamente il volto di quella donna si rasserenò e pianse. Dopo alcuni mesi mi ringraziò e mi informò della sua intenzione di entrare in un convento “perché ho scoperto con Dio che la vita è meravigliosa ed ora voglio vivere con Lui la pienezza di questa meraviglia”.
Ma quanti, come quella ragazza, ora felice, navigano nella ignoranza di Dio Padre o addirittura non ne vogliono neppure sentire parlare, come non esistesse! Dovremmo ricordarci sempre che per conoscere l’amore, occorre cercarlo ed essere aperti ad accoglierlo.
L’uomo contemporaneo “ascolta più volentieri i testimoni che i maestri o se ascolta i maestri, lo fa perché sono testimoni”.
Decisi, quindi, sono la presenza e i segni della
santità: essa è requisito essenziale per una autentica evangelizzazione, capace di ridare speranza.
Occorrono testimonianze forti, personali e comunitarie, di vita nuova in Cristo. Non basta infatti che la verità e la grazia siano offerte mediante la proclamazione della Parola, e la celebrazione dei Sacramenti, è necessario che siano accolte e vissute in ogni circostanza concreta, nel modo di essere cristiani. Questa è una delle scommesse più grandi che attendono la Chiesa” (Ecc. in Europa 49).
Parole forti che scuotono la nostra coscienza, che pure ama e cerca la verità. Ma è la via da seguire per chi davvero accoglie l’invito di Giovanni Paolo II ed ancora di più di chi ha a cuore che tra gli uomini del nostro tempo torni la Parola di Dio a essere “lampada per i nostri passi”, “luce sul nostro cammino”.
Forse può creare in qualcuno di noi la paura di non essere all’altezza del compito che Dio ci affida. Certo occorre prima “conoscere la Parola”.
Da qui quella che non esito a chiamare “primavera dell’evangelizzazione”, il moltiplicarsi dei “centri di ascolto” che oramai sono in tante parrocchie. E’ la vera scuola non solo per conoscere, ma per farsi “plasmare dalla Parola”. Perché non basta conoscerla, bisogna, come afferma il Papa, “essere testimoni”, ossia mettere in gioco la propria vita in modo da essere credibili.
Leggendo quanto la Chiesa ci propone oggi del profeta Amos, possiamo cogliere come Dio si rivolge alla nostra debolezza e ci faccia coraggio.
“In quei giorni, il sacerdote di Betèl Amasìa disse ad
Amos: “Vàttene, veggente, ritìrati presso il paese di
Giuda: là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Bètel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno. Amos rispose ad Amasìa: “Non ero profeta, né figlio di
profeta: ero un pastore e raccoglitore di sicomori; il Signore mi prese di dietro al bestiame e il Signore mi
disse: Va’ e profetizza al mio popolo Israele” (Am. 7,12- 15).
E’ come una anticipazione alle parole che Gesù dice ai Dodici. “In quel tempo, Gesù chiamò i Dodici, ed incominciò a mandarli a due a due e diede loro potere sugli spiriti immondi. E ordinò loro che, oltre al bastone, non prendessero nulla per il viaggio: né pane, né bisaccia, né danaro nella borsa: ma calzati solo i sandali, non indossassero due tuniche. E diceva loro: “entrati in una casa, rimanetevi finché ve ne andiate da quel luogo. Se in qualche luogo non vi riceveranno e non vi ascolteranno, andandovene, scuotete la polvere di sotto ai vostri piedi a testimonianza per loro”. E partiti, predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano” (Mc. 6,7- 13).
E sappiamo tutti come dopo la Pentecoste iniziò il grande viaggio per le vie del mondo, degli Apostoli, e dopo di loro una grande “catena” di cristiani del Vangelo, fino ad oggi. E sono davvero tanti, anche oggi, nel mondo, in ogni parte del mondo, che annunziano il Vangelo fino a dare la vita per questo.
Credo che tutti vorremmo, con quel coraggio che dà sempre lo Spirito che sostiene e suggerisce, ci fossimo tutti noi. Anche se siamo deboli, se ci sentiamo piccola cosa…anche se il nostro viaggio avviene nella nostra famiglia, nella nostra comunità, tra tanta gente che incontriamo, a volte indifferenti, a volte infastiditi, a volte proprio alla ricerca di chi lasci alle spalle “le voci insulse del mondo” e dica parole che generano amore, pace, speranza, amicizia.
Questo è il Vangelo.
Facciamo nostre le parole di quel grande vescovo di Recife, che passò la sua vita tra i diseredati in Brasile, divenendo per tutti noi un testimone del Vangelo: “Noi siamo specializzati nell’arte di scoprire in ogni creatura il suo lato buono: nessuno è tutto cattiveria.
Noi non temiamo la verità perché, anche se può apparirti dura come a volte può sembrare Cristo quando ti invita a “lasciare tutto per Lui, o essere povero in spirito, essa però è autentica.
Sei nato per essa. E la verità è la bellezza del cuore di Dio che fa capolino proprio nel Vangelo. Se cerchi di incontrarla, la verità, se dialoghi con lei, se l’ami, non c’è migliore amica e sorella.
E non fermarti, perché è una grazia divina ben cominciare, ma è una grazia più grande continuare sulla buona via”.
E qui nasce quella grande ricchezza che tutti possediamo, ossia la possibilità di accostare i fratelli che sono privi della gioia di Dio e con tanta passione farli partecipi.
C’era un tempo in cui questa missione era svolta dai nostri genitori che nel momento in cui accoglievano il dono di un figlio, subito mettevano al primo posto il dono della fede, ossia la conoscenza del Padre, che veniva prima, ripeto, di tutto il resto. Sapevano molto bene che per un uomo, per una donna, per chiunque, la vera felicità, il vero segreto della vita non stava nelle cose del mondo e neppure nella salute o in altro, ma nella fede vera.
E non dimenticherò mai il giorno della mia ordinazione sacerdotale, al momento - così si usava un tempo - in cui papà, dopo l’unzione delle mani, da parte del vescovo, le legava. Era tanta la sua gioia che non seppe fare questo gesto di partecipazione alla mia missione. Ma come visse felice di avere un figlio sacerdote!
Quanta gratitudine ho verso i miei genitori che mi partorirono più per la santità che per altro.
Affermava il grande Papa Giovanni Paolo II, autentico testimone della missione tra la gente: “Se identico in ogni tempo è il Vangelo da annunziare, diversi sono i modi con cui tale annuncio può essere realizzato.
Ciascuno quindi è invitato a “proclamare” Gesù e la fede in Lui in ogni circostanza, “attrarre” altri alla fede, attuando modi di vita personale, familiare, professionale e comunitaria che rispecchino il
Vangelo: “irradiare” intorno a sé gioia, amore e speranza, perché molti vedendo le nostre opere buone, rendano gloria al Padre che è nei cieli, così da venire “contagiati”, conquistati, divenire “lievito” che trasforma e anima dal di dentro, ogni espressione culturale.
Il mondo reclama evangelizzatori credibili, nella cui vita in comunione con la croce e la resurrezione di Cristo, splenda la bellezza del Vangelo. Tali evangelizzatori vanno adeguatamente formati. Oggi più che mai è necessaria la coscienza Missionaria in ogni cristiano, a cominciare dai Vescovi, dai presbiteri, dai diaconi, dai consacrati, dai catechisti e dagli insegnanti di religione. Ogni battezzato, in quanto testimone di Cristo, deve acquisire la formazione adeguata alla sua condizione, non solo per evitare che la fede si inaridisca per mancanza di cura in un ambiente ostile, come quello mondano, ma anche per dare sostegno e impulso alla testimonianza evangelica.

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Omelia del giorno 16 Luglio 2006

Messaggio da Redazione » gio lug 13, 2006 11:37 am

Omelia del giorno 16 Luglio 2006

XV Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)

Sentiamo di essere “mandati”?


Immagino il giorno in cui Gesù, abbandonata la casa di Nazareth, che per Lui era “il tempio della maturità e della conoscenza della volontà del Padre”, esce allo scoperto e inizia la sua Missione di portare tutti alla conoscenza del Padre.
Forse riflettiamo poco, anche se battezzati, sulla verità del nostro vivere: ossia sul perché siamo a questo mondo. Non certo per vagare senza un preciso indirizzo. E tutti sappiamo come non è permesso a nessuno “vagare nel deserto del mondo”, perché significa smarrirsi, perdersi.
Ricordo sempre quella giovane donna che, al termine di un convegno, proprio sulla necessità della nostra fede, dono immenso di Dio che è come la finestra aperta del Cielo, o se volete la “stella” polare che segna la strada della nostra vita segnata da Dio, mi accostò. Aveva il viso stravolto e più che piangere per dolore, piangeva di rabbia. Non tutto nella vita era andato per il verso giusto, anche perché il suo era un “verso” capriccioso. Con rabbia mi urlò: “Ma chi mi ha fatto quello che lei chiama “dono della vita” senza chiedermi il permesso? Sapesse quanto “vorrei”
scendere da questa vita, ma sono vile e non ne ho il coraggio!”
Siamo stati a lungo a parlare e lentamente la rabbia si scioglieva. Lei aveva i “suoi occhi nei miei”, come a scrutare la verità della mia anima, più che ascoltare le parole. L’affascinava la serenità che era nel mio sguardo e me ne chiese la ragione. “La mia vita, come quella di tutti, la considero un grande dono del Padre. Ma bisogna conoscerLo e amarLo per conoscere la bellezza”. Lentamente il volto di quella donna si rasserenò e pianse. Dopo alcuni mesi mi ringraziò e mi informò della sua intenzione di entrare in un convento “perché ho scoperto con Dio che la vita è meravigliosa ed ora voglio vivere con Lui la pienezza di questa meraviglia”.
Ma quanti, come quella ragazza, ora felice, navigano nella ignoranza di Dio Padre o addirittura non ne vogliono neppure sentire parlare, come non esistesse! Dovremmo ricordarci sempre che per conoscere l’amore, occorre cercarlo ed essere aperti ad accoglierlo.
L’uomo contemporaneo “ascolta più volentieri i testimoni che i maestri o se ascolta i maestri, lo fa perché sono testimoni”.
Decisi, quindi, sono la presenza e i segni della
santità: essa è requisito essenziale per una autentica evangelizzazione, capace di ridare speranza.
Occorrono testimonianze forti, personali e comunitarie, di vita nuova in Cristo. Non basta infatti che la verità e la grazia siano offerte mediante la proclamazione della Parola, e la celebrazione dei Sacramenti, è necessario che siano accolte e vissute in ogni circostanza concreta, nel modo di essere cristiani. Questa è una delle scommesse più grandi che attendono la Chiesa” (Ecc. in Europa 49).
Parole forti che scuotono la nostra coscienza, che pure ama e cerca la verità. Ma è la via da seguire per chi davvero accoglie l’invito di Giovanni Paolo II ed ancora di più di chi ha a cuore che tra gli uomini del nostro tempo torni la Parola di Dio a essere “lampada per i nostri passi”, “luce sul nostro cammino”.
Forse può creare in qualcuno di noi la paura di non essere all’altezza del compito che Dio ci affida. Certo occorre prima “conoscere la Parola”.
Da qui quella che non esito a chiamare “primavera dell’evangelizzazione”, il moltiplicarsi dei “centri di ascolto” che oramai sono in tante parrocchie. E’ la vera scuola non solo per conoscere, ma per farsi “plasmare dalla Parola”. Perché non basta conoscerla, bisogna, come afferma il Papa, “essere testimoni”, ossia mettere in gioco la propria vita in modo da essere credibili.
Leggendo quanto la Chiesa ci propone oggi del profeta Amos, possiamo cogliere come Dio si rivolge alla nostra debolezza e ci faccia coraggio.
“In quei giorni, il sacerdote di Betèl Amasìa disse ad
Amos: “Vàttene, veggente, ritìrati presso il paese di
Giuda: là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Bètel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno. Amos rispose ad Amasìa: “Non ero profeta, né figlio di
profeta: ero un pastore e raccoglitore di sicomori; il Signore mi prese di dietro al bestiame e il Signore mi
disse: Va’ e profetizza al mio popolo Israele” (Am. 7,12- 15).
E’ come una anticipazione alle parole che Gesù dice ai Dodici. “In quel tempo, Gesù chiamò i Dodici, ed incominciò a mandarli a due a due e diede loro potere sugli spiriti immondi. E ordinò loro che, oltre al bastone, non prendessero nulla per il viaggio: né pane, né bisaccia, né danaro nella borsa: ma calzati solo i sandali, non indossassero due tuniche. E diceva loro: “entrati in una casa, rimanetevi finché ve ne andiate da quel luogo. Se in qualche luogo non vi riceveranno e non vi ascolteranno, andandovene, scuotete la polvere di sotto ai vostri piedi a testimonianza per loro”. E partiti, predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano” (Mc. 6,7- 13).
E sappiamo tutti come dopo la Pentecoste iniziò il grande viaggio per le vie del mondo, degli Apostoli, e dopo di loro una grande “catena” di cristiani del Vangelo, fino ad oggi. E sono davvero tanti, anche oggi, nel mondo, in ogni parte del mondo, che annunziano il Vangelo fino a dare la vita per questo.
Credo che tutti vorremmo, con quel coraggio che dà sempre lo Spirito che sostiene e suggerisce, ci fossimo tutti noi. Anche se siamo deboli, se ci sentiamo piccola cosa…anche se il nostro viaggio avviene nella nostra famiglia, nella nostra comunità, tra tanta gente che incontriamo, a volte indifferenti, a volte infastiditi, a volte proprio alla ricerca di chi lasci alle spalle “le voci insulse del mondo” e dica parole che generano amore, pace, speranza, amicizia.
Questo è il Vangelo.
Facciamo nostre le parole di quel grande vescovo di Recife, che passò la sua vita tra i diseredati in Brasile, divenendo per tutti noi un testimone del Vangelo: “Noi siamo specializzati nell’arte di scoprire in ogni creatura il suo lato buono: nessuno è tutto cattiveria.
Noi non temiamo la verità perché, anche se può apparirti dura come a volte può sembrare Cristo quando ti invita a “lasciare tutto per Lui, o essere povero in spirito, essa però è autentica.
Sei nato per essa. E la verità è la bellezza del cuore di Dio che fa capolino proprio nel Vangelo. Se cerchi di incontrarla, la verità, se dialoghi con lei, se l’ami, non c’è migliore amica e sorella.
E non fermarti, perché è una grazia divina ben cominciare, ma è una grazia più grande continuare sulla buona via”.
E qui nasce quella grande ricchezza che tutti possediamo, ossia la possibilità di accostare i fratelli che sono privi della gioia di Dio e con tanta passione farli partecipi.
C’era un tempo in cui questa missione era svolta dai nostri genitori che nel momento in cui accoglievano il dono di un figlio, subito mettevano al primo posto il dono della fede, ossia la conoscenza del Padre, che veniva prima, ripeto, di tutto il resto. Sapevano molto bene che per un uomo, per una donna, per chiunque, la vera felicità, il vero segreto della vita non stava nelle cose del mondo e neppure nella salute o in altro, ma nella fede vera.
E non dimenticherò mai il giorno della mia ordinazione sacerdotale, al momento - così si usava un tempo - in cui papà, dopo l’unzione delle mani, da parte del vescovo, le legava. Era tanta la sua gioia che non seppe fare questo gesto di partecipazione alla mia missione. Ma come visse felice di avere un figlio sacerdote!
Quanta gratitudine ho verso i miei genitori che mi partorirono più per la santità che per altro.
Affermava il grande Papa Giovanni Paolo II, autentico testimone della missione tra la gente: “Se identico in ogni tempo è il Vangelo da annunziare, diversi sono i modi con cui tale annuncio può essere realizzato.
Ciascuno quindi è invitato a “proclamare” Gesù e la fede in Lui in ogni circostanza, “attrarre” altri alla fede, attuando modi di vita personale, familiare, professionale e comunitaria che rispecchino il
Vangelo: “irradiare” intorno a sé gioia, amore e speranza, perché molti vedendo le nostre opere buone, rendano gloria al Padre che è nei cieli, così da venire “contagiati”, conquistati, divenire “lievito” che trasforma e anima dal di dentro, ogni espressione culturale.
Il mondo reclama evangelizzatori credibili, nella cui vita in comunione con la croce e la resurrezione di Cristo, splenda la bellezza del Vangelo. Tali evangelizzatori vanno adeguatamente formati. Oggi più che mai è necessaria la coscienza Missionaria in ogni cristiano, a cominciare dai Vescovi, dai presbiteri, dai diaconi, dai consacrati, dai catechisti e dagli insegnanti di religione. Ogni battezzato, in quanto testimone di Cristo, deve acquisire la formazione adeguata alla sua condizione, non solo per evitare che la fede si inaridisca per mancanza di cura in un ambiente ostile, come quello mondano, ma anche per dare sostegno e impulso alla testimonianza evangelica.

Antonio Riboldi – Vescovo –
Internet: www.vescovoriboldi.it
E-mail: riboldi@tin.it
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