Emmanuelle Marie (Odile Van Deth) - Riflessioni

Raccolta di preghiere e testi religiosi d’Autore, a cura di miriam bolfissimo
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Emmanuelle Marie (Odile Van Deth) - Riflessioni

Messaggio da miriam bolfissimo » lun ott 08, 2007 1:45 pm

      • Due modi per diventare se stessi
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  • Il tempo è la palestra del distacco indispensabile per diventare se stessi, è il maestro di un congedo sereno dal passato, per accogliere la novità del presente.
Di fronte allo scorrere degli istanti, nasce un certo sbigottimento: questo momento non tornerà più. Il tempo è la palestra del distacco indispensabile per diventare se stessi, è il maestro di un congedo sereno dal passato, per accogliere la novità del presente. Segnati, sin dalla nascita, dalla separazione, dobbiamo costantemente lasciare quello che ci faceva vivere l'istante prima. Per venire alla luce, abbiamo dovuto essere tagliati dall'ambiente che ci aveva fornito tutto fino a quel momento.

Ci sono due modi per diventare se stessi. Quello dell'opposizione, che può essere la ribellione contro l'ingiustizia, che tuttavia introduce nuove violenze, immette dinamiche negative nella storia. L’altro, invece, è quello del distacco da ciò che non ci appartiene, per realizzarci in verità, secondo la nostra originalità.

Due figure, nelle prime pagine della Bibbia, illustrano entrambi gli atteggiamenti. Nimrod, che «cominciò a essere potente sulla terra e valente cacciatore» (Gn 10, 8-9), e Abramo. «L’inizio del regno di Nimrod fu Babele», prosegue il testo. Ora Babele fu il luogo in cui l'uomo sfidò Dio, con la sua tecnica, per raggiungere il cielo. Il peccato non stava nel voler incontrare Dio, perché l'uomo è stato creato proprio per questo fine, ma nel volerlo conseguire con i propri mezzi. La torre segnò la divisione e l'incomprensione tra gli uomini. Questa separazione, frutto della voluta autosufficienza umana, generò la violenza.

Come oggi quando l'attività diventa competitività e fonte di angoscia, anziché collaborare al bene altrui. Abramo, invece, accettò la sfida divina. Anche lui si divise dai suoi, ma non per un suo progetto, bensì per seguire la voce interiore che lo guidava verso «la terra promessa», verso il bene vero. Aveva ricevuto la certezza di un Dio unico, in un ambiente politeista. Se fosse rimasto nella sua terra, avrebbe lottato contro gli idoli e questo scontro avrebbe introdotto violenza.

Ogni rivoluzione - perché sarebbe stata, la sua, una sommossa politica - nasce sempre per sconfiggere l'ingiustizia ma si risolve ogni volta con maggiore iniquità. I poveri risultano più poveri, gli ultimi maggiormente schiacciati, perché l'idea prevale sulla persona. Abramo capì che la via verso la verità era forse più difficile dell'affrontare direttamente l'errore con la lotta: lasciò tutto, obbedì alla spinta interiore verso la separazione.

Il distacco diventò poi il suo modo di vivere: preferì lasciare le terre migliori al nipote Lot, quando la ricchezza di entrambi ostacolò la convivenza. Anche in circostanze apparentemente ingiuste, come quando chiese alla moglie di fingere di essere sua sorella per diventare la donna di un capo locale, o addirittura quando credette di dover uccidere il figlio della promessa, abbandonò sempre i suoi diritti più legittimi pur di fidarsi di quello che sentiva l'invito della vita.

Spiegare questi episodi adducendo i costumi del tempo rimane una visione umana e razionale, che dimentica la necessità, per ogni essere umano, di lasciare dietro a sé ogni attaccamento, per liberare l'essere vero. In seguito, Abramo capì, ogni volta, che il Signore non gli aveva chiesto cose assurde, ma solo la sua fedeltà a staccarsi da tutto per diventare libero di collaborare alla crescita del bene.

Chi conta sulle proprie forze o idee, corre dietro il tempo ma spesso, alla fine, raccoglie solo il vuoto interiore. Chi invece usa ogni istante per collaborare con il bene che la vita gli offre, deve forse pagare il prezzo alto, ma liberante, della separazione. La vera rivoluzione è quella di lasciare dietro a sé quello che non viene da Dio.

La vita è separazione, altrimenti marcisce.
  • Emmanuelle Marie
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun ott 15, 2007 2:35 pm

      • La zizzania? Inevitabile
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  • La Chiesa è come una rete con pesci buoni e pesci cattivi; è come un campo con grano ed erbacce. Ma non bisogna spaventarsi. Lo dice il Papa.
«In fondo, è consolante che la zizzania esista nella Chiesa. Così, con tutti i nostri difetti, tuttavia, possiamo sperare di trovarci ancora nella sequela di Gesù, che ha chiamato proprio i peccatori». Lo ha detto Benedetto XVI ai giovani nella spianata di Marienfeld, a Colonia. Prima, aveva affermato: «Si può criticare molto la Chiesa. Noi lo sappiamo, e il Signore stesso ce l'ha detto: essa è una rete con dei pesci buoni e dei pesci cattivi, un campo con il grano e la zizzania».

Molti criticano il Papa e la Chiesa. Si comportano come i bambini che vorrebbero trovare perfetti i genitori. Un'amica si lamentava del suo parroco. «Cosa fai per lui? Ti rendi conto della sua solitudine? Se non dialoga, è forse per paura, timidezza, nascosta magari dietro un'apparenza di sicurezza? Hai mai provato a invitarlo a cena, ad ascoltarlo parlarti della sua esistenza, delle sue difficoltà?».

La zizzania è inevitabile, ma più uno è consapevole che l'uomo, pur peccatore, è portatore della Presenza dell'Infinito, più si sente chiamato a diventare, nel suo piccolo, artefice di unità e collaboratore dello Spirito per la crescita del bene.

Benedetto XVI ammette che c'è la zizzania tra i credenti, tra il clero, nella Chiesa, ma non se ne spaventa. È un messaggio di pace, anche per le famiglie, le comunità, i movimenti, le associazioni, sempre timorosi davanti alle lacerazioni, come se i credenti dovessero essere perfetti. L’unica perfezione invece, è quella del Padre - dichiara il Signore - «che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni» (Mt 5, 45-48), ossia quella dell'amore del nemico, di chi semina zizzania.

La consapevolezza della propria inadeguatezza porta chi riconosce la causa dei propri difetti nella brama d'immediata felicità ad una sconfinata compassione per i fautori di male, nei quali discerne un disagio, al quale è chiamato a offrire rimedio. Tutti i peccatori - afferma il Papa - «possono sperare di trovarsi nella sequela di Gesù». Il segreto sta nella semplice consapevolezza di essere tali. Chi critica l'altro, dimostra di giudicarsi migliore, mentre la trave della sua radicale imperfezione di creatura gli acceca l'occhio e gli impedisce di riconoscersi forse più malvagio di quell'altro, che desta la sua indignazione. Essere cristiano significa camminare alla sequela di Cristo, senza cercare una perfezione irraggiungibile, ma accogliendo l'altro com'è. Seguire il Signore implica la certezza della Presenza del suo Spirito di verità nella propria vita, l'umile ascolto delle sue spinte interiori che non sono mai di critica ma di indulgente comprensione.

Nasce allora la consolazione, frutto dello Spirito. «È consolante che la zizzania esista nella Chiesa», ha osato dichiarare Benedetto XVI, perché dal momento in cui uno, riconoscendosi peccatore sa di essere nondimeno alla sequela di Gesù, vede il mondo come inconsapevolmente teso verso questa sequela. Fissare lo sguardo su ciò che non funziona è cadere preda della tristezza, della paura. Il Signore conosceva la debolezza umana, quella dei suoi apostoli, eppure non ha temuto di affidare a loro la sua Chiesa. Ancora oggi, non dispera mai dell'umanità, ma ha bisogno che coloro che si dichiarano suoi, si facciano testimoni della sua fiducia.

Come resistere nella speranza della vittoria del bene di fronte a un mondo che sembra andare dritto al suicidio, tra disastri ecologici, guerre, lotte tra religioni? Solo l'accettare la propria frammentazione interiore in una fede incrollabile nella misericordia del Padre, può operare questo miracolo ma anche svelare i piccoli gesti personali in grado di collaborare alla costruzione del Regno. Non con la forza ma con la debolezza si creano sintonia e comunicazione.
  • Emmanuelle Marie
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun ott 22, 2007 10:51 am

      • Un Dio esigente, ma non troppo
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  • La Bibbia non lo presenta infatti come un giudice in agguato, pronto a condannare ogni nostra debolezza. Tutt'altro...
Le persone anziane non mi contraddiranno: la vita passa in fretta, con la spiacevole sensazione di cadere più volte negli stessi difetti. La mia infanzia era ieri e, nonostante l'età avanzata, mi sento ancora la bambina di cinque anni alle prese con la fatica di corrispondere alle attese della mamma, che si confondevano con la volontà di Dio. Sarà stata la rabbia di non riuscire a essere come mi volevano a esplodere nell'adolescenza in una forte ribellione contro la religione, a farmi gettare la spugna quando, per un'ingiustizia, ho abbandonato la scuola pochi mesi prima della maturità? Ancora oggi, la bambina e l'adolescente che vivono in me gettano la spugna, quando non riesco a essere quella che dovrei.

Che cosa dice Dio che ci vuole, come ci hanno insegnato, perfetti come lui? Ma come si fa? Ebbene, apro la Bibbia e mi accorgo che il Dio Santo di cui si parla non è il giudice in agguato, pronto a condannare la debolezza umana. Anzi, è tutt'altro. Talmente altro da sconfiggere la pretesa anche solo di immaginare i suoi pensieri: «Quanto il ciclo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie» (Is 55, 9).

Dopo il peccato di Adamo ed Eva, la prima parola rivolta dal Creatore all'uomo non è un rimprovero. Gli chiede «dove sei?», così come ci si rivolge a una persona che sembra essersi distratta. Non sei più con me, sembra dire il Signore, dove sei approdato? Adamo si nasconde, perché teme il rimprovero, mentre la punizione contenuta nelle parole attribuite a Dio è solo la conseguenza della separazione da Lui, attuata per scelta dall'uomo. Lo stesso avviene nel dialogo tra Dio e Caino. È come se il Signore ambisse solo a risvegliare il vero desiderio della creatura.

Il peccato, infatti, è sempre frutto di una menzogna, come dimostra il dialogo tra Eva e il serpente. Ogni volta che cadiamo nella tentazione, prestiamo fede a una bugia formulata da altri o a una falsa convinzione costruita da noi stessi. L'alcolizzato pensa di trovare nel vino la forza per vincere il suo senso d'inferiorità. Ci lasciamo travolgere dal consumismo convinti che l'acquisto dell'ultimo telefonino ci valorizzi. Poi, come Adamo, ci nascondiamo da Dio. Lo mettiamola parte, lo eliminiamo a poco a poco dal nostro pensiero e non sentiamo più la sua voce che chiede di noi: «Dove sei, figlio mio, perché sei andato a finire lontano dal tuo vero desiderio, che solo in me può essere appagato?».

Riflettendo, infatti, sulle conseguenze del primo peccato, possiamo scoprire in filigrana come ogni ansia umana trovi in Dio la sua fonte e il suo appagamento. La donna ha il desiderio della maternità, ma intesa come collaborazione con il Creatore di ogni vita, e non come «moltiplicazione di gravidanze» (Gn 3, 16). All'uomo piace realizzarsi attraverso il lavoro, visto però come contributo all'avvento del Bene nel mondo, e non solo come fatica schiavizzante e disumanizzante.

Se potessimo fermarci un attimo, prima di ogni scelta, per scendere nell'interiorità ad ascoltare la voce dolce dello Spirito; se potessimo prenderci, ogni tanto, un tempo più lungo per guardare dove si radicano nella nostra storia certe reazioni, allora la nostra esistenza cambierebbe. La bambina che io ero, che gettava la spugna per disperazione, diventa, un po' alla volta, un'adulta fiduciosa nell'aiuto che Dio continuamente offre. «Non sono io ad averti posto un traguardo così alto»: questo mi sono sentita un giorno suggerire da Dio mentre manifestavo a Lui la mia rabbia perché non riuscivo a diventare quella che sognavo.

Nel Padre nostro, chiediamo: «Non ci indurre in tentazione», traduzione infelice, perché il testo greco dice: «Non lasciarci soccombere alla tentazione». Chiediamo fiduciosi al Signore di mostrarci come liberare il nostro vero desiderio, purificandolo da ogni falsa credenza.
  • Emmanuelle Marie
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun nov 05, 2007 3:07 pm

      • Un perdono che va lontano
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  • Perché si fanno dire messe per i defunti? Che cosa significa pregare per loro? Come reagire di fronte al silenzio definitivo di chi non è più con noi?
Novembre, il mese in cui si pensa ai morti. Come la natura sembra morire, così la Chiesa in questa stagione, raccogliendo tradizioni antichissime di religioni pagane attente alla simbologia dei ritmi dell'universo, festeggia coloro che sono passati all'altra sponda del fiume della Vita.

Perché si fanno dire messe per i defunti? Che cosa significa pregare per loro? Come reagire di fronte al silenzio definitivo di chi non è. più con noi? Alcuni anni dopo la morte di una persona che aveva rovinato la mia famiglia, mi venne, in un momento in cui pregavo, il pensiero che forse la sua felicità eterna giaceva tra le mie mani. Se, infatti, gli avessi perdonato tutto il male che mi aveva fatto e di cui portavo pesantemente le conseguenze nel mio carattere, sarebbe entrato in cielo. In un primo tempo, rifiutai, era chiedermi troppo. Poi, pensai che, lui che tanto mi aveva umiliata, avrebbe dovuto per l'eternità essermi grato di averlo fatto entrare in paradiso e accettai di rimettergli le sue colpe nei miei confronti.

Una profonda gioia m'invase allora, come se fossi stata finalmente liberata dal bisogno di farmi giustizia. Nella riflessione che feci in seguito, capii che dovevo, perché fosse realmente assolto, correggere in me le brutte pieghe prese per difendermi dalla sua cattiveria. Ero, infatti, diventata diffidente, scontrosa, incapace di riconoscere i miei errori per paura di sentirmi ancora avvilita, come lo ero stata da lui. E di colpo mi apparve il senso della messa per i defunti.

Tutti lasciano dietro a sé cose incompiute, sbagli che hanno ferito gli altri. Forse il purgatorio non è altro che vedere le conseguenze sugli altri degli atti negativi commessi. In Matteo 18, 18, Gesù afferma, rivolgendosi ai discepoli e non solo agli apostoli o a Pietro, cioè a tutti noi, che «tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche nel cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo». Per sciogliere qualcuno dalle sue colpe, non basta dirlo, è necessario anche cancellare nella nostra vita le tracce che questa negatività ha lasciato.

Far dire una messa è quindi unirci a Cristo sulla Croce, presente sull'altare, per chiedergli che il suo Spirito in noi ci dia la forza di cambiare vita, di abbandonare ogni vendetta, per entrare nel perdono del Padre. Non sempre è possibile perdonare, forse è addirittura impossibile. Tuttavia Gesù ci ha aperto la via: sul punto di morire, ha invocato dal Padre il perdono. Per sciogliere i defunti dalle loro colpe, ci è data la possibilità di fare lo stesso, come ha fatto Stefano nei confronti di chi lo lapidava: «Signore, non imputar loro questo peccato», sicché, quando morirono i suoi carnefici, non furono caricati di questo delitto.

Ecco il perdono liberatorio, per i morti ma anche per i vivi. Non significa affatto dimenticare, anzi, è necessario ricordare il male inflittoci, per reperirne le tracce nella nostra esistenza e poterle correggere, affinché il male sia concretamente cancellato. Chi ci ha nociuto ne porta il peso, ma se gli diciamo - forse non a parole, che potrebbero essere umilianti - ma con il nostro atteggiamento, che è perdonato da Dio, si sente liberato e può migliorare.

Gesù ha realmente salvato il mondo dal male imperante con la forza del perdono concesso dal Padre alla sua preghiera. Ora questa salvezza è nelle nostre mani. Con le nostre forze non è certo possibile, ma con quella di Cristo, è non solo possibile ma doveroso. Gesù morendo, non ha detto che ci perdonava lui ma ha chiesto al Padre di farlo e il Padre non può non rimettere i peccati che suo Figlio gli chiede di sciogliere. Tuttavia il perdono diventa efficace solo attraverso la nostra collaborazione, per la quale attingiamo la forza nel suo stesso Spirito la cui presenza in noi è ravvivata nella comunione eucaristica.
  • Emmanuelle Marie
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun nov 12, 2007 3:30 pm

      • La donna che ha aiutato a vivere la morte
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  • È Elizabeth Kübler-Ross una vita per sconfiggere uno dei più grossi tabù del nostro tempo.
Novembre, il mese in cui si festeggiano i santi e i defunti. Sì, il passaggio nell'eternità è la festa della vita, della vittoria sulla morte. Perché mai temiamo così questo momento, che è l'unica certezza dell'esistenza? Quando Gesù annunciò ai suoi discepoli la sua prossima dipartita da questo mondo, Pietro lo rimproverò, come facciamo anche noi di fronte a chi parla della propria fine.

Invece grazie a una donna svizzera, stupenda di lucidità, Elizabeth Kübler-Ross, sappiamo ormai che la morte non è da temere, che gli agonizzanti hanno bisogno di potersene andare serenamente, di non sentirsi trattenuti dagli affetti di questa terra. Questa donna, psichiatra, consacrò la sua esistenza a studiare...la morte! Giovane medico a Chicago - aveva sposato un americano - fu indotta dalle sue consultazioni a sentire spesso i moribondi. Seppe ascoltarli, li aiutò a esprimere le loro paure, i loro bisogni e capì che doveva liberare i vivi dal timore della morte. Scrisse libri - anche tradotti in italiano - e percorse il mondo intero per fare conferenze su questo tema, descrivendo le tappe che tutti attraversano in fin di vita: il negare la realtà della morte prossima, poi la rabbia, il contrattare con i medici e con la vita stessa, la depressione e, finalmente, il consenso sereno. Queste fasi accompagnano invariabilmente tutti i malati, se la famiglia non impedisce loro, con parole fasulle, di attraversarle.

Anziana, paralizzata, si è preparata lei stessa al grande passaggio, come lo aveva tanto descritto. Nata nel 1926, i suoi lavori sulla morte, che era allora - ma non è così ancora oggi? - un tabù di cui non si doveva parlare negli ospedali in cui lavorava, fecero scandalo. In realtà, aveva riscoperto quello che il Vangelo ribadisce ad ogni pie sospinto: la morte fa parte della vita, è naturale quanto la nascita, è una necessaria tappa verso la piena realizzazione dell'essere. Il suo coraggio per continuare nonostante le critiche e persino l'obbligo di lasciare l'ospedale, sono all'origine delle cosiddette cure palliative, che si diffondono oramai in tutto il mondo, quelle cure che concedono al moribondo di restare lucido e sereno, circondato da infermiere e medici formati all'ascolto, per morire in piena armonia con la vita «che cambia forma, ma non è tolta» come dice il prefazio dei defunti.

Essere cristiano implica vivere per prepararsi a passare all'altra vita. Da bambini, abbiamo tutti sofferto dell'abbandono momentaneo dei genitori, che andavano a fare la spesa o che ci lasciavano all'asilo. Questo sentimento perdura per tutta la vita. Non vogliamo perdere, abbiamo paura di rimanere da soli, desideriamo tanti affetti e cose per attutire il timore di essere abbandonati.

Crescere - e lo s'impara a tutte le età - suppone lasciare dietro di sé tutto quello che non serve più, permettere l'allontanamento delle persone care, quando viene il momento per i figli di andare a vivere altrove, accettare i numerosi cambiamenti sul lavoro, ma anche della mentalità, persino del modo di vivere la propria fede.

Prepararsi alla morte senza paura significa adattarsi all'evoluzione personale, a quella degli altri attorno a noi e a quella della società. Più uno si aggrappa al passato, agli oggetti, ai ricordi, più diventa schiavo dei propri bisogni affettivi. Gesù invece consiglia di lasciare tutto, di camminare dietro a lui senza paura di mancare di nulla, perché il Padre sa ciò che è necessario e lo procura a chi si fida di Lui.

Persino degli errori passati, delle sconfitte, dei peccati addirittura, siamo chiamati a disfarci. Quello che ci appare oggi come sbagliato nella nostra vita era proprio il meglio di quello che potevamo fare allora, era frutto dei limiti inevitabili, di cui la morte sarà l'ultimo.
  • Emmanuelle Marie
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun nov 19, 2007 5:05 pm

      • Morte: la fine o solo un inizio?
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  • Come conciliare la nostra fine con il disegno del Creatore che ci vuole tutti salvi, destinati a prendere parte, già da questa vita, alla sua pienezza d'Essere?
Novembre è il mese in cui si pensa alla morte. La spiritualità dei secoli passati insisteva molto sulla consapevolezza della morte. «Fratelli, dobbiamo tutti morire» rammentava il priore a chi desiderava consacrare la propria vita alla spiritualità nei monasteri. Oggi invece, la morte è occultata in tutti i modi, si evita di parlarne, si cerca di scongiurarla anche con cure costosissime su corpi ormai privi di vita naturale.

L’attenzione, forse esagerata, del passato, fissata sull'inevitabile fine dell'esistenza s'è nel tempo attenuata fino quasi a svanire. Creato per la vita, all'uomo ripugna l'idea della fine e la avvolge di paura, sia meditando ossessivamente su di essa sia, come oggi, negandola. Per il credente, tuttavia, la morte non è affatto l'esito finale, come non lo è la nascita per il feto. Nondimeno essa è vissuta come l'ultimo tradimento della vita, sull'orizzonte dell'insicurezza di fondo della creatura umana e del suo bisogno di esserci per sempre. È, quest'ultimo, un desiderio insito nella natura dell'uomo, creato a immagine di Dio, quindi partecipe dell'Essere eterno, la cui presenza comunica consistenza a tutto quello che è.

La vita è adesione inconscia ma esistenziale a Lui. Diventarne consapevoli è l'unica garanzia contro la morte, perché l'Essere di cui ogni uomo è partecipe non può morire. Il problema nasce quando si dimentica che l'esistenza è dono, che l'uomo non è fonte di se stesso. Da qui nasce l'incessante preoccupazione di rassicurare il proprio esserci, come se tutto dipendesse da noi. L’anelito al piacere, al possesso e al potere ha origine da questo equivoco, come se la ricchezza e il successo potessero scongiurare l'innata paura di morire, di non esserci più.

Ogni perdita è un'esperienza anticipata della morte, perché pone davanti alla fragilità dell'essere umano. Si crede di piangere la persona amata, mentre sono l'insicurezza e lo squilibrio della propria esistenza dovuti alla sua scomparsa a essere dolorosi. Il defunto, invece, è giunto alla gioia piena dell'Essere.

Ogni privazione di una relazione, di un oggetto, di denaro, del posto di lavoro attualizza la transitorietà della creatura, ma è anche un invito alla fiducia in Dio, al consenso a una totale dipendenza da Colui che è l'Amore. La sola povertà, di cui tutte le altre sono il simbolo, è quella del limite nel tempo della creatura, quella dell'impossibilità di esserci con le proprie forze. L’esistenza è intessuta di morte: il corpo perde quotidianamente le sue cellule, la vegetazione appassisce, il tempo scorre e non lo si può ripercorrere. Un proverbio mongolo tuttavia afferma che «quando il ciclo crea il tempo, ne crea a sufficienza».

Ce n'è infatti abbastanza perché l'unica realtà che perdura, ossia l'uomo, giunga alla pienezza della vita che non muore. Ma l'uomo, purtroppo non lo vuole sapere, non ascolta le parole del Vangelo che affermano la vittoria della vita sulla morte, le tante affermazioni della Bibbia sulla necessità di non trattenere nulla per sé, neanche l'esistenza nel tempo.

L’incoscienza umana ostacola quindi lo scopo della vita, che sta appunto nell'umile gratitudine che vede in ogni evento, gioioso o faticoso, un passo verso la pienezza di Dio che si raggiungerà con il trapasso finale. Dio non vuole la morte. Molti si ribellano davanti al decesso di una persona cara, come se fosse opera del Signore. Chi reagisce così ignora il disegno del Creatore, che vuole che tutti siano salvi, che tutti arrivino a prendere parte, già da questa vita, alla sua pienezza d'Essere.

Per chi, invece, consente di esistere solo per partecipazione all'Essere infinito, la morte appare come il compimento di un'esistenza da ricevere come un dono d'amore da parte del Padre, fonte di ogni esistenza.
  • Emmanuelle Marie
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun nov 26, 2007 11:31 am

      • L'eternità inizia oggi
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  • Chi ricerca docilmente il senso di quello che avviene, vede in ogni vicenda, compresa la morte, il colpo di scalpello che lentamente fa emergere il suo vero volto di figlio di Dio.
A volte, parlando di una persona defunta, diciamo che «è passata a miglior vita», come se la sua esistenza appena trascorsa fosse diversa da quella che ora sta vivendo. L’eternità, invece, è la continuazione della stessa vita, che raggiunge la sua vera dimensione oltre la morte. Come il fiore che si tramuta in frutto.

Il tempo ci è donato perché possiamo plasmare la nostra identità di figli del Padre. Rabbi Zousia, un umile ebreo, dichiarava: «Quando mi presenterò davanti al tribunale celeste, non mi si chiederà perché non sono stato Abramo, Giacobbe o Mosè; mi sarà domandato perché non sono stato Zousia». Ogni uomo incarna un volto di Dio, ed è una Sua immagine unica. Michelangelo trascorreva molto tempo nelle cave di marmo alla ricerca, tra i tanti blocchi, di quello più adatto ad accogliere l'idea di statua che aveva in mente. Si dice che egli già vedesse l'opera finita nella materia ancora informe. Così il Signore nel bimbo appena nato contempla già i lineamenti divini che a poco a poco, nel corso della vita, verranno plasmati. Come lo scultore deve togliere marmo per svelare la forma racchiusa nel blocco senza forme, così, se la lasciamo fare, la vita rimuove quello che impedisce alla nostra vera identità di venire alla luce. Sta qui il senso delle prove della vita, in particolare quelle che turbano la vecchiaia. Ci sembra che esse annullino via via le possibilità di realizzarci pienamente, mentre in realtà ci aiutano a staccarci dalle bugiarde lusinghe del mondo.

Ricordo un anziano che si lamentava perché la diminuzione della vista gli impediva di proseguire nel suo lavoro di artista. E un altro, al contrario, che con il trascorrere degli anni era sempre più sereno, perché finalmente aveva tempo per pensare, raccogliersi e ascoltare gli altri. Tutto quello che viene sottratto alle nostre capacità fisiche ci può aiutare a concentrarci di più sull'essenziale, su quello che resterà nel momento in cui, con la morte, lasceremo tutto.

Ogni avvenimento è un'occasione per accogliere l'energia divina che ci dà la forza di lottare contro il male, per far emergere il nostro vero volto, quello che avremo per l'eternità. Si può anche rifiutare quell'energia, per distrazione o per mancanza di fiducia nel Signore, ma allora si perde la possibilità di modellare in noi l'immagine divina. Tuttavia è un'opportunità che Dio continua a proporci fino all'ultimo istante della nostra vita. Chi ricerca docilmente il senso di quello che avviene, vede in ogni vicenda, compresa la morte, il colpo di scalpello che lentamente fa emergere l'essere vero.

La morte è il compimento dell'esistenza, la manifestazione piena del nostro essere figli di Dio. Nel capitolo 14 dell'Esodo gli ebrei, davanti al Mar Rosso, temendo di essere uccisi dai soldati del Faraone, si ribellano: «Forse perché non c'erano sepolcri in Egitto ci hai portati a morire nel deserto?». La traduzione non rende la rilevanza del versetto, nel quale si parla letteralmente non di tombe ma di «non tombe». Per chi, infatti, crede in Dio, e quindi nella vita eterna, la tomba è una «non tomba». Bisognerebbe tradurre: «Forse perché non c'erano delle "non tombe" in Egitto?».

Per un cristiano, infatti, la tomba è la porta che apre alla vita, e l'esistenza terrestre l'utero nel quale si forma pienamente l'immagine di Dio. C'è sempre il rischio di restare un feto, cioè uno che non ha saputo crescere. Tuttavia, nella lotta contro il male il Signore è sempre dalla parte dell'uomo, e gli offre, fino all'ultimo, gli strumenti per portare a compimento la sua identità. Secondo le misure della logica umana, nessuno sarà mai perfetto. Ma il Signore ci chiede solo di accogliere, secondo le nostre possibilità, le offerte della vita che scolpiscono, a poco a poco, il nostro volto di figli di Dio.
  • Emmanuelle Marie
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun dic 03, 2007 6:58 pm

      • Dobbiamo aspettare un altro Messia?
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  • Giovanni predicava un Messia intransigente, già con la scure alla radice degli alberi per troncare il male. Gesù invece... I dubbi del Battista. I nostri dubbi.
Il Battista mandò a dire al Signore: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (Lc 7, 19). Fu il momento della crisi di Giovanni. Giovanni era un uomo dell'Antica Alleanza. Aveva annunciato un Messia violento, che avrebbe ripulito la sua aia (cf Mt 3, 12), «la cui scure era già alla radice degli alberi» (Mt 3, 10). Il contrasto era talmente grande tra la sua immagine interiore del Salvatore d'Israele e Gesù - che mangiava con i peccatori, non rispettava le leggi delle purificazioni e nemmeno sempre quella sacra del sabato - che quel giorno il Battista, in preda al dubbio, mandò i suoi discepoli a chiedere al Signore se fosse veramente «colui che doveva venire». Gesù rispose: «Andate e riferite a Giovanni quello che avete visto e ascoltato: i ciechi vedono... ai poveri viene annunziata la buona novella».

Con queste parole, il Maestro si definiva come il Messia predetto dai profeti e il segno più sconvolgente era l'ultimo: i poveri, i peccatori erano presi in considerazione al punto da essere ammaestrati, alla stregua dei discepoli dei grandi maestri. Fu forse in questo momento che Giovanni si dimostrò più grande che mai. Attraversò il terremoto interiore della conversione evangelica: i suoi riferimenti andarono in frantumi, il Messia non solo non «ripuliva la sua aia», cioè non condannava i peccatori, ma si faceva loro amico, insegnava loro la via dell'amore, della fiducia, rivelava a tutti che avevano un Padre misericordioso e che l'unica perfezione consisteva, appunto, nella misericordia. Ogni vita deve attraversare questi momenti di dubbio in cui tutto sembra crollare, le regole sembrano inutili, gli sforzi compiuti per anni sfociano nella sconfitta.

Maria Teresa aveva per tutta la vita portato avanti la sua numerosa famiglia, gli impegni in parrocchia, l'aiuto nel negozio del marito. Di colpo, i figli, l'uno dopo l'altro, lasciarono la casa per andare a convivere senza sposarsi, non frequentarono più la chiesa, uno diventò addirittura buddista. Con suo marito, Maria Teresa si chiedeva angosciata se avessero sbagliato tutto e dove. «Abbiamo sempre obbedito alla Chiesa, cercato di fare del nostro meglio, e ora cosa possiamo sperare?», dicevano.

L'Avvento è un tempo di speranza, ma chi dobbiamo aspettare? Il Signore viene raramente come lo attendiamo. I suoi parametri non sono i nostri. La salvezza attraversa quasi necessariamente lo scompiglio delle nostre misure. I figli debbono trovare le proprie certezze e se le loro scelte sembrano contraddire l'educazione ricevuta, non per questo i genitori hanno sbagliato. Hanno agito per il meglio, ma come Giovanni stesso, di cui Gesù affermò che «tra i nati di donna non era mai sorto uno più grande di lui» (Mt 11, 11), sono limitati e non possono perciò non commettere errori di valutazione. La salvezza consiste nel cambiamento di mentalità, nella povertà di spirito, di chi accetta di fidarsi senza colpevolizzarsi se la vita sembra contraddire le sue attese. Chi avrebbe mai pensato che il Messia sarebbe nato in una stalla, rifiutato da tutti, sconfitto poi dal potere religioso e politico e che così avrebbe salvato il mondo?

Prepararsi al Natale significa quindi accogliere l'imprevisto nella certezza che il Padre opera in ogni situazione per il bene di coloro che credono nel suo amore indefettibile. Significa attendere, con l'umiltà di chi è consapevole dei propri limiti, che il Bene si manifesti oltre le previsioni. I poveri saranno evangelizzati in modo prioritario, come lo dimostra l'annuncio della nascita del Salvatore ai pastori. Lo saranno dai cristiani che accetteranno di rinunciare ai propri modi di vedere per mettersi in ascolto dello Spirito di Gesù nella loro vita, senza spaventarsi dell'inatteso.
  • Emmanuelle Marie
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun dic 10, 2007 3:33 pm

      • Avvento, cioè semplicemente vivere
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  • L'unica cosa necessaria è l'ascolto della vita, è il prendere contatto con la sorgente di verità che sgorga nel cuore di ciascuno.
L'Avvento, periodo di attesa della nascita, della vita. Cristo afferma al vecchio Nicodemo sbalordito: «Dovete rinascere dall'alto» (Gv 3,7). Natale, al quale ci prepara l'Avvento, è proprio la festa di questa nuova nascita. Qualcuno chiederà forse: che cos'è vivere? È una domanda fondamentale che dovrebbe dare il via a ogni giornata.

A Marta, frantumata interiormente dall'inquietudine, per i molti servizi che si era messa in mente di compiere per ricevere degnamente il Maestro, Gesù risponde: «Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno» (Lc 10,41). Gli affanni ostacolano la vita; mentre la mente è presa da tante cose da fare, da pensare, non viviamo, non siamo presenti a quello che potrebbe darci il senso della nostra esistenza.

Qual è l'unica cosa necessaria, scelta dalla sorella di Marta? Maria aveva scelto «la parte buona» (il testo non parla della parte migliore, ma semplicemente di quella «buona») che non poteva esserle tolta. Aveva preferito sedersi ai piedi del Maestro per ascoltare la sua Parola. Questa era la parte buona. Aveva lasciato da parte l'agitazione del servizio, la preoccupazione della bella figura davanti all'ospite.

Spesso ci creiamo degli obblighi, che in realtà servono più all'immagine che vogliamo avere di noi, o dare agli altri, che non all'accoglienza, all'ascolto. Una donna quarantenne, parlando con la madre di una disgrazia avvenuta in famiglia, cominciò a esprimerle il suo rancore rispetto all'autoritarismo di cui avevano sofferto, lei e i suoi fratelli, durante la loro infanzia. Le rimproverava la vicenda dolorosa del fratello, che aveva sconvolto la famiglia. A un certo punto, si fermò, spaventata dalla sua audacia, nel timore di averla ferita. La madre invece rispose con dolcezza: «Continua, figlia mia, dimmi tutto quello che hai da dirmi». «Mamma, ti ringrazio, è la prima volta della mia vita che mi ascolti». Quella madre aveva costantemente provveduto alle necessità dei numerosi figli, senza mai aver saputo prendere il tempo di prestare l'attenzione di cui avevano bisogno, più che del buon ordine della casa.

L'unica cosa necessaria è l'ascolto della vita, è il prendere contatto con la sorgente di verità che sgorga nel cuore di ciascuno. Come Maria, possiamo sederci, dentro di noi, ai piedi del Signore, sempre presente nel nostro profondo.

Cristo ripete, nel Vangelo, di non preoccuparci. L’inquietudine è il vampiro che mangia la nostra vita, che acceca la mente, le impedisce di cogliere l'essenziale. Come Marta, quella madre era rimasta ferma a quello che pensava essere il suo dovere, mentre i figli erano più affamati del suo ascolto che non del pranzo. Si era privata del dialogo affettuoso con loro, lamentandosi forse della loro scarsa collaborazione. Più intenta al suo ruolo, non aveva saputo dare ai figli il primo posto. Vivere, è entrare in contatto con il vero sé, per accogliere il vero dell'altro. È dare il primo posto all'ascolto della Vita per sgombrare in sé e attorno a sé il rumore dei falsi doveri.

Maria di Betania ci insegna il vero senso dell'esistenza: semplicemente vivere, cioè non lasciarsi turbare dal trambusto esterno, dalle sollecitazioni dei convenevoli, per entrare in contatto con la propria vita.

Prepararci al Natale, più che commuoverci di fronte alla povertà del presepio, consiste nell'abbandonare quello che ostacola la vita in noi e negli altri, per renderci attenti al senso di quello che facciamo, che vogliamo. Tutto allora s'orienta verso la Vita, liberandoci dall'impressione di vuoto che proviamo quando, la sera, stanchi e delusi, non capiamo perché, dopo tanta fatica, magari al servizio altrui, non ci sentiamo realizzati.
  • Emmanuelle Marie
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun dic 17, 2007 3:50 pm

      • Quando l'attesa è un atto di fiducia
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  • Fiducia non nel Dio che potrebbe intralciare i miei progetti ma in Colui che li realizza in modo diverso, molto più ricco di quello che potevo immaginare.
Ti piace aspettare? A me l'attesa pesa oltre misura, la odio, eppure mi piace il tempo d'Avvento. Forse lo vivo più come una speranza che come un tempo vuoto, carico d'apprensione, che mi fa contare i giorni fino al risultato desiderato o i minuti fino all'arrivo del tram.

L’attesa ti confronta con il tuo vuoto di creatura limitata. Non hai presa nemmeno sull'istante che viene. Se sei di un temperamento ansioso poi, anche se ti dicono di fidarti della vita, che le cose andranno bene, t'immagini tutte le possibili catastrofi, che intralceranno i tuoi progetti. Ecco la parola importante buttata lì: mi hanno insegnato a fare progetti, a non lasciarmi trascinare dall'esistenza già impostata. Bene, mi fisso dei traguardi, organizzo il mio tempo, ma mi viene subito l'angoscia che qualcosa venga a scombussolare i miei piani. Mi avevano poi insegnato, nella mia lontana infanzia, che Dio teneva le redini della mia storia, che era lui a ostacolare i miei programmi se non coincidevano con i suoi. Indovinare poi quali erano i suoi, diventava insieme un'altra apprensione e una latente ribellione. D'altronde, non mi piaceva la rassegnazione, che sa di passività, quasi di menefreghismo.

Il 2 ottobre 2005, Benedetto XVI ha risposto a questa falsa idea così diffusa, che i progetti umani siano ostacolati da un Dio tirannico: «Noi uomini, ai quali la creazione, per così dire, è affidata in gestione, la usurpiamo. Vogliamo esserne i padroni in prima persona e da soli. Vogliamo possedere il mondo e la nostra stessa vita in modo illimitato. Dio ci è d'intralcio. O si fa di Lui una semplice frase devota o Egli viene negato del tutto, bandito dalla vita pubblica, così da perdere ogni significato». L’Avvento ricorda il tempo in cui Maria aspettava suo figlio. Anche lei aveva avuto un altro progetto: contrariamente all'uso del suo tempo, non intendeva sposarsi. L’annuncio dell'Angelo è stato senz'altro per lei una vera agonia. Doveva rinunciare al suo proposito, con il rischio di essere lapidata, come ogni donna incinta senza essere sposata. Come essere sicura che la visione dell'Angelo fosse vera e non un'illusione? Ha dovuto aspettare nove mesi per sapere come sarebbe finita questa imprevista vicenda. La sua fiducia in Dio fu tale da tacere, per aspettare che Giuseppe capisse da solo o con altri modi quello che succedeva.

Aspettare è dunque un atto di fiducia, non nel Dio che potrebbe intralciare i miei progetti ma in Colui che li realizza in modo diverso, molto più ricco di quello che potevo immaginare. La nostra fretta ci fa «usurpare» i tempi, le cose, il creato.

L’Avvento è il tempo in cui i credenti sono invitati a rinunciare a pensare di essere i padroni della propria esistenza, di poter vedere chiaramente il meglio per se stessi. È il tempo dell'affidamento allo Spirito, in cui il cristiano è chiamato a credere che i suoi obiettivi sono giusti e vengono da Dio, ma che li deve aprire allo Spirito, perché glieli faccia vedere sotto la loro vera luce e li fecondi.

Non cerco più ora d'indovinare cosa Dio vuole da me, mi basta saper attendere dopo aver accettato di ripensare i miei scopi per capirne il vero senso. Se mi voglio dedicare a una determinata professione e non trovo il posto di lavoro corrispondente, forse mi debbo interrogare per capire qual è il mio vero obiettivo: carrierismo o servizio, sicurezza o vera passione. Come Maria, che ha visto realizzarsi il suo progetto di totale consacrazione a Dio in un modo inimmaginabile ma eccelso, nel dare la luce a suo Figlio, i miei desideri saranno sempre soddisfatti, se mi offro serenamente il tempo di una pazienza fiduciosa nel Signore che, lungi dall'intralciarli, li vuole vedere fiorire e dare veri frutti d'amore.
  • Emmanuelle Marie
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Messaggio da miriam bolfissimo » dom dic 23, 2007 10:33 pm

      • Il Messia: una venuta annunciata
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  • L'Avvento è tempo di verità e di coerenza. Il Signore desidera nascere in ogni cristiano, per rivivere nella vita di ciascuno la sua esistenza umana, intessuta di totale fiducia nel Padre, di amore per i fratelli e di attenzione ai più poveri.
L’Avvento è segnato dalla figura di Giovanni Battista, incaricato di preparare i cuori per la venuta del Messia. La liturgia lo propone come il santo da invocare per disporre i cuori ad accogliere la nascita di Cristo. Gesù, nato più di 2000 anni fa, è vivo oggi e vuole nascere in ogni uomo e donna «di buona volontà», disponibili cioè a fare spazio al Signore nella propria vita.

Elia e Giovanni Battista. Due figure potenti. Due uomini di Dio: l'uno è figura tipica del profeta dell'Antico Testamento, l'altro è il «nuovo Elia» (Mt 11,14), la cui vocazione è di annunciare la venuta del Messia. L'uno riceve, come Mosè, la rivelazione del nome di Dio sull'Oreb, l'altro vede lo Spirito scendere su Gesù in forma di colomba. Giovanni è vestito con la divisa tipica del profeta: «Indossava una veste di peli di cammello, stretta ai fianchi con una cintura di pelle» (Mt 3,4). Come Elia, il grande profeta, è pieno di zelo per Dio. Elia vive ai tempi di Acab, re del Nord, «che fa ciò che è male agli occhi del Signore, peggio di tutti i suoi predecessori» (1 Re 16,30). La funzione del profeta è di proclamare con la propria vita il Dio unico e di combattere gli idoli. Elia è mandato ad Acab, perché questi «ha abbandonato i comandi del Signore e ha seguito Baal», un falso dio (1 Re 18,18). Deve annunciargli una grande siccità che porterà la carestia, come castigo per l'infedeltà del popolo e del re.

L’infedeltà a Dio è sempre idolatria ed è simboleggiata, nell'Antico Testamento, dai culti ai falsi dèi. Nel cuore umano, l'idolo prende il posto del Signore. Idolatra è chi pone la propria speranza nelle creature o negli oggetti. Non è un caso se l'altro Giovanni, l'apostolo, conclude la sua prima lettera con l'esortazione a «guardarsi dagli idoli» (1 Gv 5,21). È la tentazione costante di tutti: fidarsi del successo, trovare la sicurezza nel denaro, aspettare che la persona amata riempia il proprio bisogno d'amore.

Proprio contro questa tentazione, Giovanni Battista predica un battesimo di penitenza, vale a dire di ritorno al vero Dio, e chiede di non appoggiarsi al fatto che gli ebrei sono figli di Abramo (anche la religione può diventare un idolo per chi non è coerente nel quotidiano con ciò in cui crede). Raccomanda di non cercare il denaro e nemmeno di possedere beni in sovrappiù: chi ha due tuniche ne deve dare una a chi non ne ha. I militari sono sollecitati a rinunciare alla violenza. Il popolo riconosce i suoi peccati e riceve il battesimo nel Giordano, che è il fiume da attraversare per entrare nella terra promessa, la terra dell'incontro con Dio.

Immergersi nelle sue acque significa accettare di purificarsi da tutto ciò che impedisce la vita di relazione con il Signore. Ecco l'itinerario che la Chiesa propone ai cristiani per prepararsi alla venuta di Cristo nella loro esistenza.

Più tardi, a proposito di Giovanni Battista, il Signore affermerà che, se anche «fra i nati di donna non è mai sorto uno più grande, tuttavia il più piccolo nel Regno dei cicli è da considerare più grande di lui» (Lc 7,28). Che cosa significa per noi? Gesù nasce non solo nella povertà, ma inerme come qualsiasi neonato, quindi ben diverso dall'immagine del Messia annunciato da Giovanni, che avrebbe «ripulito la sua aia» (Lc 3,17). La violenza di alcuni gesti profetici appartiene ormai al passato.

Chi oggi vuole essere discepolo di Cristo, lotta contro il male in sé e fuori di sé con la pazienza, l'umiltà, la tenerezza dell'amore. L'Avvento è un periodo di verità e di coerenza. Il Signore desidera nascere in ogni cristiano, per rivivere nella vita di ciascuno la sua esistenza umana, intessuta di totale fiducia nel Padre, d'amore per i fratelli, d'attenzione ai più poveri. Di fronte alle prove, suggerisce a ogni cristiano di porsi in ascolto dello Spirito che vive in lui.
  • Emmanuelle Marie
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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