Emmanuelle Marie (Odile Van Deth) - Riflessioni

Raccolta di preghiere e testi religiosi d’Autore, a cura di miriam bolfissimo
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Emmanuelle Marie (Odile Van Deth) - Riflessioni

Messaggio da miriam bolfissimo » mer feb 07, 2007 12:03 pm

      • Ecco che significa invocare la pace
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  • Nessuna preghiera ha effetti magici. Pregare per la pace è la richiesta fiduciosa di luce, di suggerimenti, di disponibilità personale perché lo Spirito possa aprirci gli occhi e vedere il poco che possiamo fare e quello che, in noi, ostacola la sua azione liberatrice.
Primo gennaio: giornata della pace. Nuove speranze o nuove delusioni? Preghiamo per la pace, ma le guerre continuano. Sembra che più si prega per la pace, più i conflitti divampano. Dio è forse estraneo alla nostra storia, o castiga l'umanità per i suoi innumerevoli misfatti? Oppure, è il nostro pregare inadeguato? Un piccino appena nato aspetta tutto dalla mamma. Chiede come può, con pianti, strilli e la mamma gli da il latte. Cresciuto, varcata da tempo la soglia dell'adolescenza, il giovane è ancora convinto che debbano essere i genitori a dargli tutto. È lunga e faticosa la strada dell'autonomia, perché porta con sé anche la solitudine, il distacco interiore dalla famiglia, per costruirsi senza poter contare su nessuno. Quando non troviamo soluzioni ai nostri problemi, ci pare normale trasferire su Dio quell'attesa di soccorso, che si era soliti cercare nella famiglia. Perché, allora, non risponde Dio a tante preghiere?

Una donna molto impegnata in parrocchia e per anni membro attivo di un movimento, nonostante le ripetute preghiere, non riusciva a correggere la sua intransigenza nei confronti degli altri, la sua estrema irritabilità, che la faceva perdurare in uno stato di profonda depressione. Un giorno, sentì un predicatore che invitava a riflettere, nella parabola del figliol prodigo, sulla figura del padre, così aperto a entrambi i figli nella loro diversa, ma in fondo simile, incomprensione del suo cuore. S'irrigidì, la signora, sul suo banco e pensò: «Non sarà mai! Come potrei pregare Dio come un padre, se penso al mio di padre, che era una persona squilibrata e violenta? Ci picchiava e feriva nostra madre, non solo a parole. La parola "padre" evoca in me una figura negativa da cui mi debbo difendere. Non potrei immaginarmelo diversamente. Dio è per me uno che mi punisce per le mie innumerevoli mancanze».

La notte seguente, fece un sogno: entrava in una nuova casa dove c'erano due stanze, una luminosa e pulita, l'altra buia, ingombra di vecchi mobili sporchi che appartenevano a suo padre. Sognava di svuotare la stanza di tutta quella roba, che la disgustava.

Al risveglio, capì che aveva sovrapposto l'immagine del suo genitore con quella del Padre del cielo. Quel sogno era la risposta a tante preghiere, aveva ormai la chiave per cambiare: doveva cercare di uscire definitivamente dalla stanza di suo padre, per iniziare a vivere con il cuore libero d'amare nella fiducia di essere ricambiata.

Ricordo un'altra persona che aveva avuto genitori molto premurosi, che continuavano ad aiutarla anche dopo essersi sposata e aver avuto dei figli. La donna non capiva perché non otteneva mai le cose che chiedeva nella preghiera rivolta a un Padre, descritto nella Bibbia ancora più attento, più buono e più potente dei suoi genitori. Una mattina, mentre meditava la parabola dei talenti, fu colpita da un'evidenza: Dio non è come i padri della terra. Ci rispetta, ci ama molto di più. Si affida a noi per portare a compimento il suo progetto di salvezza dell'umanità, dandoci tutto quello che ci serve per realizzarla nel nostro ambiente. Dio non si sostituisce all'uomo, gli suggerisce il bene che può realizzare, gli allarga la capacità di creatività.

Pregare per la pace non è, quindi, né chiedere ciecamente a un Dio, che riteniamo severo, pronto a castigare, una pace miracolistica; non è nemmeno aspettarsi da un Padre buono il miracolo. Nessuna preghiera ha effetti magici. È, invece, la richiesta fiduciosa di luce, di suggerimenti, di disponibilità personale perché lo Spirito possa aprirci gli occhi e vedere il poco che possiamo fare e quello che, in noi, ostacola la sua azione liberatrice.
  • Emmanuelle Marie
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mer feb 07, 2007 12:04 pm

      • Il tempo dell'orologio e il nostro tempo
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  • Come vivere il tempo, una realtà tutta nostra, irripetibile come la persona, che ci consente di esprimerci nella storia del mondo.
L'uomo non può permettere all'orologio e al calendario di renderlo cieco di fronte al fatto che ogni momento della sua vita è un miracolo e un mistero» (H. G. Wells). Un anno nuovo è iniziato, quale significato è possibile dare al tempo che scorre? Il tempo è quello dell'orologio, del calendario? Invecchiamo o ci sentiamo in un processo di crescita? Il tempo è lo spazio dove si svolge la storia, affidata al nostro contributo. C'è qualcosa di singolare in ogni istante. Ognuno di noi è irripetibile, per cui il nostro tempo è unico e ci appartiene. Nessuno ci prende il tempo, perché nessuno può rubare il valore del singolo. Quale contributo diamo alla storia? Se pensiamo di non potere influire sugli eventi internazionali nei gesti più quotidiani, manca quell'incarnazione del bene che solo ognuno può esprimere. La storia non può allora svolgersi nel senso della salvezza, il processo divino è bloccato. Quando siamo presenti al nostro vissuto, a ciò che siamo, con il nostro valore e i nostri limiti, il tempo può allargare la nostra intensità di presenza.

L'attesa fa parte della vita (nove mesi sono stati necessari per costruirci). Chi non vuole aspettare, ammazza il tempo, e quindi lo perde. La vita s'incarna nel tempo e il nostro modo di usarlo ci rivela il valore che diamo alla nostra esistenza. L’oggi che ci è dato di vivere non è ancora mai stato vissuto da nessuno, nessuno, quindi, può dirci come viverlo pienamente. Dal concepimento alla morte, siamo inseriti in un processo che ci dovrebbe portare alla pienezza. Il tempo è la materia e anche l'artefice di questo processo, a patto di accettare il frammento di ogni momento nella fiducia.
Chi resiste al tempo, rifiutando il suo fluire o cercando di accelerarlo, resta nell'immaturità; è come quei frutti che sono senza sapore né vitamine perché sono stati raccolti prima del tempo e fatti maturare artificialmente. Il tempo deve giungere a pienezza, quella pienezza che permette al Verbo di manifestarsi nella nostra vita. «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Come afferma Seneca: «Sarai meno schiavo del domani se avrai vissuto pienamente l'oggi. La vita passa tra i nostri rinvii». Per non incontrare il vuoto, riempiamo il tempo di cose urgenti da fare e di rimpianti quando sale l'impressione di aver omesso l'importante. I rimpianti, la depressione, lo star male sono qualche volta modi per riempire il vuoto che pare temibile.

La vita delle claustrali può sembrare assurda a chi ha paura del vuoto, ma segna la strada per tutti. Infatti, tutto vi è organizzato per imbattersi nel baratro del vuoto: si riducono i tempi rinchiudendoli tra due campane, si rimpiccioliscono gli spazi di evasione con la clausura, si misurano le parole con il silenzio. La realizzazione esterna della persona sembra addirittura ridotta a niente, senza l'esercizio di un lavoro professionale. È la porta stretta attraverso la quale entra meno l'esteriorità.

Anche nella vita del laico, o si fugge il vuoto, dando alle occupazioni quotidiane un valore assoluto, o si percepisce il tesoro racchiuso nell'impressione del vuoto. Allora, con mille tentennamenti, poco a poco si scende nella profondità della vita interiore, che è l'unico spazio in cui si costruisce, momento dopo momento, la pienezza alla quale tutti debbono giungere. Una vita «piena» (non «riempita») attraversa il proprio vuoto senza cercare di colmarlo.

È una vita che trova la sua pienezza nell'attenzione al profondo, alla relazione con sé, con l'altro e, soprattutto, nell'attenzione alla forza creatrice di Dio che è la nostra vita, affinché si possa manifestare attraverso i nostri gesti, le nostre parole, nelle nostre attese, nell'abbandono fiducioso alla sua presenza.
  • Emmanuelle Marie
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mer feb 07, 2007 12:13 pm

      • Il potere dell'amore contro la violenza
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  • È tentazione ricorrente ritenere che se ci fosse un Dio buono, tutto sarebbe diverso. E le nostre responsabilità?
Un anno in più per cogliere ogni giorno il dono della vita. In questi tempi di estrema violenza, è forte la tentazione di scoraggiarsi, di pensare che se ci fosse un Dio buono, tutto sarebbe diverso. E dimenticare che il Signore non è onnipotente, come recita il Credo. Lo è sì, nella sua divinità, in assoluto, ma siccome ha consegnato il creato e il tempo alla libertà della creatura, tutto quello che accade è frutto delle scelte umane. La violenza, quindi, è affidata alle mani del credente. Una bella consuetudine nelle parrocchie vuole che, alla vigilia del Capodanno, si celebrino insieme la richiesta di perdono e l'azione di grazie per gli sbagli e il bene compiuti durante l'anno passato; si affida, poi, l'anno nuovo al Signore, con il pericolo tuttavia di pensare che sarà lui ad aggiustare tutto, come la fata buona. Chiedere perdono per l'incompiutezza passata è ammettere certo i propri limiti, senza spaventarsene ma riconoscendone le conseguenze, che hanno contribuito al male planetario. Il tempo sprecato in affanni inutili, gli errori, che hanno comportato danni per sé o per gli altri, sono certo dovuti alla nostra fragilità, ma non sono forse anche frutto della nostra mancanza di fiducia nelle nostre capacità di far emergere il bene? Dio è il Bene ed è sempre presente.

Aspetta solo che crediamo abbastanza in Lui per scorgere, dietro ogni evento o cosa da fare, le possibilità offerte per farlo nascere. Sin dalla mattina, l'alzarsi con gioia risulta talvolta difficile, perché la giornata appare carica d'impegni noiosi o pesanti. Ebbene, è proprio in questo momento che scatta l'invito a credere nel bene soggiacente e a lottare così contro la violenza, che uscirebbe dal nostro malumore. Fermarsi al negativo è come rinunciare all'unico impegno importante: trasformare il quotidiano in modo da lasciare che il Bene nascosto in ogni evento emerga.

Chi si rende al lavoro o inizia le faccende quotidiane con malinconia, sprigiona attorno a sé onde malefiche, anche senza contatti diretti con altri. Per permettere a Dio di compiere la salvezza del mondo, dobbiamo semplicemente abbandonare ogni pensiero triste, nella certezza della presenza del Bene. Tutto diventa allora incontro con il Risorto, presente realmente, con il suo corpo invisibile ma altrettanto efficiente di quando s'incontrava con gli apostoli dopo la sua risurrezione.

L'Epifania, che segna l'inizio dell'anno, è proprio la manifestazione della sua partecipazione al concreto delle nostre giornate. Di fronte alla fatica, agli scontri, basta uno sguardo interiore verso di Lui, per ascoltare dentro di noi la Parola che ci indica la via da seguire, che sarà sempre quella della pace, della mitezza, dell'amore. Guardando il Tg, viene la voglia di lamentarsi di fronte a tanta violenza, mentre è un invito a mandare in spirito tanta benedizione su chi non conosce la benevolenza del Padre, che guarda a ciascuno con infinita tenerezza. Un medico diceva alla sua paziente che la migliore cura era aprire la mattina la finestra sulla metropoli e lanciare, sulla città e su tutto il mondo, onde di amore. Ha seguito il consiglio e la sua salute migliora.

Sentiamoci responsabili della violenza che dilaga in ogni parte del pianeta, e Dio ci consegnerà la sua onnipotenza benefica. Se i figli crescono in un ambiente fiducioso, aperto agli altri e amoroso, non saranno poi uomini d'affari spietati contro i concorrenti né politici guidati dalla corsa al denaro e al potere. Possediamo un potere immenso, se ci fidiamo di quello del Signore in noi. Basta pensare a chiedere al Risorto di essere presente tra noi e tra le persone con le quali siamo in contatto, dal giornalaio al capo ufficio, dal marito ai figli, e le relazioni cambiano. Ci vogliamo provare tutti i giorni?
  • Emmanuelle Marie
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Messaggio da miriam bolfissimo » mer feb 07, 2007 12:24 pm

      • Viviamo già nel tempo del Regno
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  • Un'intuizione di Albert Schweitzer, il celebre medico del lebbrosario di Lambarené, apre nuove e affascinanti prospettive per il nostro modo di vivere il momento che ci è dato.
Viene spontaneo, nel primo mese dell'anno, meditare sul tempo: come abbiamo vissuto l'anno trascorso, che sarà del nuovo? Ci spaventano le nostre incompiutezze, i giorni che si succedono senza che si riesca a cambiare come si vorrebbe. Ma Dio non condanna mai, egli conosce meglio di noi la nostra debolezza, il tempo è l'appuntamento con la sua presenza sempre efficiente. Albert Schweitzer (1875-1965), oltre a essere stato il medico del lebbrosario di Lambarené, immortalato dal film È mezzanotte, dottor Schweitzer, fu anche concertista d'organo, professore di teologia, e un ottimo esegeta. Scriveva: «La verità non ha un suo tempo particolare. La sua ora è adesso, sempre, e più che mai quando sembra maggiormente inopportuna alle circostanze del momento». Qual è la verità del tempo? A quale tempo diamo importanza?

Nel suo libro La vita di Gesù, Schweitzer afferma che il Signore viveva il suo tempo esistenziale nell'ottica di quello «escatologico», che non considerava come riservato alla fine dei tempi, bensì come quello del Regno che si sarebbe instaurato con la sua Passione.

Questa opinione, mi pare, apre nuove e affascinanti prospettive per il nostro modo di vivere il tempo che ci è dato, e ci da anche un punto di vista molto diverso e consolante di considerare le prove odierne. Con la risurrezione - spiega Schweitzer - è definitivamente iniziato il tempo fuori del nostro, ossia quello del Regno nel quale certo approderemo con la morte, ma dove siamo già ora inseriti se ne vogliamo essere consapevoli. Gesù è nato per anticipare sulla terra la vita del cielo. Alla sua nascita, del resto, è proprio l'annuncio che gli angeli avevano fatto ai pastori: «Vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato [...] un salvatore [...]. Gloria a Dio [... ] e pace in terra agli uomini che egli ama» (Lc 2, 10-11.14), espressione che si può tradurre: «agli uomini secondo il suo desiderio», cioè a chi crederà.

Ora la fede che ci vuole per ereditare la pace, è proprio quella richiesta costantemente da Gesù ai discepoli e riguarda la sua futura morte. Chiedeva loro di credere abbastanza nell'apertura imminente del Regno per non lasciarsi scandalizzare - ossia cadere nella tentazione della disperazione - di fronte alla grande prova della sua partenza apparentemente sterile.

Hanno ragione coloro che dicono che non è cambiato nulla con la venuta del Figlio di Dio sulla terra, che anzi il male cresce sempre più, se si limitano a ridurre l'opera di Cristo al solo dono della vita dopo morte. In realtà, non hanno fede e si lasciano scandalizzare dalla prova dell'apparente assenza di Dio dopo la Risurrezione di Cristo.

L'esistenza terrena del Signore, invece, ha aperto, per chi vuole credere, il tempo fuori del tempo nel quale siamo già cittadini del Regno, già capaci di vivere ogni evento, per sconvolgente che possa essere, come il terreno della vittoria di Dio sul male, attraverso la nostra fede. I lutti, le malattie, le calamità naturali o provocate dagli uomini sono ormai la continuazione della Passione di Cristo nei suoi fratelli e sbocciano sempre, per chi vive interiormente i propri dolori nello Spirito del Signore, che vive in ciascuno, nella serenità di un'esistenza più intensa. Già ora le nostre colpe sono perdonate, già ora chi non si scoraggia di fronte alle proprie incompiutezze, chi crede nella liberazione operata da Cristo, diventa come una porta che fa entrare il Regno, presente «in mezzo a noi», nel tessuto del quotidiano. La gioia del Natale è regalata a chi non si limita a dare fede alla Risurrezione di Cristo ma anche e soprattutto alla realtà del Regno, affidato a ciascuno perché cresca nel mondo.
  • Emmanuelle Marie
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun feb 19, 2007 11:24 am

      • Come si creano le false immagini di Dio
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  • «Quando tornerò troverò la fede sulla terra?», chiedeva Gesù. La fede è figlia dell'immagine che i cristiani danno di Dio, attraverso la loro vita, il loro modo di vedere, la loro fiducia nel Bene sempre all'opera.
Acquisire una fede adulta oggi è un'impresa insieme affascinante e difficile. Per il bambino, la relazione con Dio è simile a quella che ha con i genitori, a sua volta base di tutte le altre: con se stessi, con le persone... È quindi fondamentale avere una giusta immagine di Dio per instaurare, poi, un rapporto corretto con tutti.

Vi racconto la storia di Michele che soffre di depressione. Prega per ottenere la guarigione e si dispera perché invece sta sempre peggio. Quando era bambino, era il «cocco» della mamma, che lo proteggeva dai fratelli più grandi. Tutto quello di cui aveva bisogno gli veniva dato, ancora prima che aprisse bocca per chiederlo. Ora perché il Signore non lo esaudisce? Forse che Dio non esiste? Si rivolge a un amico sacerdote e, poco a poco, si rende conto di stare chiedendo a Dio di essere con lui super protettivo come lo era sua madre. Scopre che il Padre celeste lo rispetta troppo per sostituirsi a lui; non interviene magicamente, ma esaudisce in altro modo la sua preghiera. Viene suggerito a Michele di cercare le cause della situazione di disagio in cui si trova. Gradualmente si distacca dalla madre: non le telefona più tutti i giorni, impara a non aspettarsi che moglie e figli gli facciano da madre, a esprimere i suoi bisogni e a cercarne la soluzione.

Molti cristiani conservano nel cuore una paura di Dio, che impedisce alla loro fede di portare frutti di gioia, di fiducia nella vita.

Giovanna, di professione pianista, non è mai contenta di sé, si prodiga da sempre più del necessario, vive costantemente nella schiavitù dello sguardo e dell'opinione altrui. Pratica la religione perché ha paura di morire in stato di peccato. Pur essendo sposata, s'innamora di un musicista con il quale ha suonato in un concerto e s'accorge, con l'aiuto di uno psicologo, che, più che di quell'uomo, si è innamorata dell'immagine positiva di sé che i complimenti creavano. Prega per liberarsi da questo sentimento, ma senza risultato. Un giorno scopre per caso il passo d'Isaia 43,4 dove Dio afferma: «Tu sei prezioso ai miei occhi, sei degno di stima e io ti amo». Si ricorda allora che suo padre era molto severo quando lei non portava i migliori voti da scuola e si rende conto che ha sovrapposto l'immagine di questa severità del padre su Dio. Decide di ripetersi la frase d'Isaia ogni volta che cerca l'approvazione e teme sempre meno il giudizio altrui. E così anche il suo rapporto con i figli cambia: è meno apprensiva, più fiduciosa nelle loro possibilità.

Il modo con cui i genitori hanno vissuto eventi dolorosi segna profondamente il bambino e influisce sul suo rapporto con Dio.

Paola, ottima cristiana, parla con un'amica dei «nodi» da lei vissuti, in particolare della sua paura che i suoi cari possano morire. «Dio è il Dio della vita e vuole che tu viva pienamente», risponde l'amica. «Non sopporto questa espressione, per me è invece un Dio che fa morire e del resto ti confesso che sono piena di dubbi sulla sua esistenza». E racconta: «Da bambina, a sette anni ho visto morire improvvisamente la nonna. Qualche mese dopo, il nonno si ammalava di tumore e scompariva anche lui. Poi l'altra nonna ebbe un ictus e perse la parola. Tutto questo succedette in tre anni e io, senza mai osare parlarne con nessuno, cominciai a dubitare che ci fosse un Dio buono». Le era stato detto che se i nonni erano morti, era la volontà di Dio e lei aveva concluso che era un Dio troppo pericoloso e che era meglio dubitare della sua esistenza.

Da quando Adamo, anziché correre nelle braccia del Signore, che lo chiamava dopo la colpa, si nascose, come lui gli uomini continuano ad attribuire a Dio i loro sentimenti.
  • Emmanuelle Marie
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun feb 19, 2007 11:29 am

      • Il tempo fuori dal tempo
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  • Per gli ebrei il tempo è un presente che continua il passato, lo porta a compimento e si continua nel futuro.
Pensare il tempo evoca due dimensioni simultanee: l'esperienza quotidiana e l'interiorità che la sottende.

In ebraico, la lingua della Bibbia, il tempo non è coniugato come nelle nostre grammatiche occidentali moderne: è un presente che continua il passato, lo porta a compimento e si continua nel futuro. Quando gli ebrei fanno memoria di un evento biblico, è per renderlo presente oggi. La Pasqua, ad esempio, non è un ricordo storico, è una dinamica iniziata alcuni millenni fa con il salvataggio del popolo attraverso il mar Rosso e che continua oggi con la stessa forza di salvezza, per chi la celebra.

È lo stesso principio che, per noi cristiani, sta alla base di ogni celebrazione liturgica. Tuttavia, da occidentali, figli della cultura greca, riusciamo difficilmente a inserirci in questa visione di un evento passato, reso presente oggi con tutta la sua dinamicità ed efficacia. Il tempo ebraico s'innesca nella fede in Dio presente oggi e nella certezza che quello che Egli promette per domani si avvererà.

Il cristiano è invitato ad acquisire questo sguardo sulla presenza concreta del Signore nel tempo, l’interiorità è carica della nostra eredità secolare, gravata dalle sofferenze e dalle gioie vissute dalla nascita in poi, e già collegata con l'eternità che sostiene il tempo e gli da la sua densità.

I manager specialisti del tempo sanno che bisogna dare tempo all'organizzazione del tempo. Il credente sa dare tempo alla vita, che giunge a noi dall'eternità, per organizzare la propria realtà quotidiana in modo da fare spazio al Bene.

Laura mi meravigliò, quando mi chiese se non perdesse tempo, la sera, a non fare niente per «stare con sé». Faceva orazione senza saperlo e ricuperava in questi momenti l'unità e il senso della giornata.

La scommessa della vita è quella di trasformare il male in bene e il tempo ci è dato per questa alchimia.

Siamo spesso ossessionati dal risultato, come se dovessimo costantemente rispondere al desiderio dell'altro, lasciarci strumentalizzare dal potere che diamo a un altro su di noi per essere voluti bene. Occorre invece ricordare che tutto ciò che appartiene al creato è più piccolo dell'uomo e che il male inizia quando l'essere umano si fa servo di realtà che sono al di sotto di lui.

Taylor, con il suo famoso Time is money, ha introdotto una nuova schiavitù, quella del tempo materializzato nella resa. L’uomo viene ridotto a essere produttore di tempo, strumento di guadagno, per fornire una materia deperibile.

Ancora il popolo ebraico ci insegna come contribuire alla liberazione dell'uomo. Essi vivono il Sabato con una serietà le cui motivazioni ci sfuggono appunto perché non capiamo quanto il tempo sia spesso per noi uno spazio di frustrazione, di schiavitù piuttosto che di crescita. Il Sabato restituisce l'uguaglianza tra gli uomini: non c'è più ricco o povero, emarginato o inserito, perché in quella giornata fuori dal tempo, ogni persona ritrova la sua libertà, la sua dignità, e può finalmente dedicare il tempo a ciò che lo rende più umano.

Dobbiamo ricuperare, senza ossessività e probabilmente con ritmi diversi, questa dimensione sabbatica del tempo, per restituire alla nostra esistenza la sua pienezza. Ogni atto, ogni pensiero ha un'incidenza planetaria, se si pensa alle onde che si propagano, alle reazioni a catena su di noi e sugli altri del nostro minimo intervento.

L’interiorità, alla quale approdiamo attraverso i tempi, anche minimi, di silenzio consapevole, ci concede di ricucire le nostre storie, di recuperare il bene nascosto dietro l'atto negativo di ieri.

Allora il tempo può davvero diventare spazio di crescita, di maturazione, di creatività e di relazione, d'incontro con l'eternità, nella contemporaneità con il mondo e con la storia.
  • Emmanuelle Marie
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar feb 27, 2007 5:21 pm

      • La violenza è nelle nostre mani
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  • Il cristiano, come Abramo, è chiamato a credere, nonostante l'apparenza, che il Bene è sempre presente in ogni situazione.
In questi tempi in cui la violenza sembra crescere in modo spaventoso, i cristiani sono chiamati a due cose: non disperare, abbassando le braccia, come se acconsentissero alla vittoria del male, e credere che lo Spirito suggerisce a ciascuno come rispondere alla prepotenza dilagante di chi pensa di ottenere il bene con le bombe.

Il bene cresce insieme al male, ma fa meno notizia, meno rumore. Innumerevoli sono i gesti di solidarietà e di pace che sorgono nel mondo di fronte a ogni notizia esiziale: azioni per la liberazione degli ostaggi, accoglienza degli immigrati, iniziative in favore delle vittime del sottosviluppo. Ricordiamo che il mondo è stato consegnato all'uomo creato nel sesto giorno, che significa l'incompiutezza, per portarlo al settimo giorno, ossia al compimento. Dio si è ritirato, ma non è assente: ha deciso di affidarsi alle mani e alla mente dell'uomo, che ha il potere di renderlo presente nel suo quotidiano.

Come afferma Carlo Molari, Dio non fa le cose ma fa che le cose si facciano, continuando ad alimentare con la sua forza creatrice l'azione degli uomini.

Il male non è «voluto» da Dio, ma è solo la conseguenza del limite umano.

Il cristiano, alla stregua di Abramo, è chiamato a credere, nonostante l'apparenza, che il Bene è sempre presente, in ogni situazione, per apparire attraverso la fiducia e l'operosità generosa dei credenti.

Il mondo, oggi, ha un estremo bisogno di santi, vale a dire di persone che accettino, nel loro quotidiano, in ogni circostanza, di mettersi all'ascolto dello Spirito per rispondere con mitezza, nella certezza di collaborare così all'avvento del Bene.

Beatrice, ultima di una famiglia numerosa, era stata, durante la sua infanzia e adolescenza, in balìa degli scherni dei fratelli più grandi. Adulta, non capiva da dove uscisse la sua aggressività, fino al giorno in cui scoprì che si vendicava inconsciamente sul marito e persino sui figli delle sofferenze patite nella sua famiglia d'origine. Iniziò un cammino di conversione: di fronte ad ogni minaccia o incomprensione, «porse l'altra guancia», cioè accolse i torti, provando a rispondere con la tenerezza che sentiva per la debolezza altrui. Poco a poco, tutti cambiarono attorno a lei: il marito, disoccupato e disperato da due anni, accettò con gioia il lavoro al di sotto delle sue capacità, che aveva rifiutato in precedenza. I figli adolescenti cominciarono a dialogare senza paura con i genitori dei loro problemi.

Si sono fatti esperimenti in laboratorio con dei topi sulla violenza: con una certa dose di adrenalina, litigavano tra di loro fino ad ammazzarsi a vicenda. Con una dose più forte, facevano all'amore tutto il giorno.

Ogni stimolo di paura scarica anche nell'essere umano dell'adrenalina, che scatena la sua aggressività, senza che si renda conto delle ripercussioni planetarie di ogni parola o gesto: un piccolo malumore può generare una catena di dispetti, poi di ritorsioni, a raggi sempre più larghi, fino all'umiliazione di popoli interi che sfocia nel terrorismo; tuttavia c'è anche chi, di fronte al pericolo - di morte o semplicemente di perdere la faccia - sa frenare la salita d'adrenalina e attingere nel suo profondo alla tenerezza di Dio. Così, popoli interi giungono a una pace a lungo agognata, come nell'attuale Sudan.

Un adolescente affermava: «Essere cristiani è diventare fessi». Può, infatti, sembrare così, finché non si capisce che il Bene vince sempre e che, ben lungi dall'essere stupido, il credente diventa, poco a poco, simile al Padre del cielo, generando ondate di amore, che si diffondono più rapidamente di quelle deleterie.

Perché non sostituire, durante la prossima Quaresima, alle «penitenze» che servono più che altro alla buona coscienza, atti semplici di comprensione e di bontà, che si allargheranno fino ai confini delle zone calde del pianeta?
  • Emmanuelle Marie
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » mar feb 27, 2007 5:29 pm

      • Nelle distrazioni la vita quotidiana
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  • Conversando con il Signore di tutto quello che ci passa per la mente, si percepisce la vanità di tanti pensieri e i loro effetti deleteri su noi stessi.
Cinzia, psicanalista stimata, cristiana convinta, lamenta di non riuscire a pregare. Vive da sola e sa stare nella solitudine, ma non in silenzio con Dio. Si sente quasi in colpa per questo. Da trent'anni chiede al Signore di riuscire a pregare, senza nessun risultato. Sono sempre più numerosi, invece, gli occidentali che si dedicano a diverse forme di meditazione orientale, con effettivi benefici fisici, psicologici e morali, senza provare, a quanto pare, la ripugnanza provata da Cinzia.

Molte persone, come Cinzia, soffrono per non sapersi fermare a pregare. Oppure, come ho fatto anch'io per tanti anni, si sforzano di stare anche mezz'ora in silenzio, lottando strenuamente contro le distrazioni. Mi sembrava tanto, quando, tempo fa, ho capito che le cosiddette distrazioni sono la mia vita quotidiana che bussa alla porta dell'interiorità, perché la viva con il Signore. Tuttavia, la difficoltà rimaneva. Ho provato di tutto, dalla preghiera orientale del cuore alle «posizioni» dello yoga, dalla lettura dei mistici cristiani a quella dei maestri buddisti. L’importanza data dalle varie correnti orientali alla meditazione m'interpellava.

Non c'è niente di simile nel Vangelo, se non la raccomandazione di Gesù di pregare sempre.

Cosi ho iniziato nel corso della giornata a conversare con il Signore di tutto quello che mi passava per la mente. A poco a poco, ho percepito la vanità di tanti pensieri e i loro effetti deleteri sui miei nervi, sullo stato fisico e sull'umore. Ho capito che molte considerazioni sono menzognere, e, quindi, inutili fantasie, sia che riguardino il futuro, sia che ripetano affermazioni fasulle date per scontate, come: «non ci riuscirò mai» oppure «ho bisogno di tale cosa, altrimenti non reggo», sia, infine, che riproducano modi di pensare di altri.

Mi sono anche chiesta se la stessa paura del vuoto che assale taluni quando si dedicano alla preghiera silenziosa non fosse, essa pure, frutto di una falsa credenza. La tentazione, infatti, si basa sempre, come dimostrano le parole del serpente a Eva nel racconto della Genesi (Gn 3), su una menzogna che mira a opporsi alla vita dello Spirito nell'uomo.

Ci sono molti modi di pregare. Cinzia allude a quello che la tradizione cristiana chiama «orazione», da distinguere dalla meditazione, la quale sfrutta la capacità discorsiva della mente. Da buona psicanalista, lei probabilmente diffida del discorso interiore, spesso ingannatore, che rischia di riempire il tempo con immagini o parole, che possono certamente arricchire la vita interiore ma anche, talvolta, impedire l'ascolto dello Spirito. «Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? » (1 Cor 3, 16) affermava san Paolo.

Il grande ostacolo alla preghiera silenziosa non è forse la mancanza di fiducia nel dato di fede più evidente e insieme più sconvolgente e cioè che Dio ha creato l'essere umano per condividere il suo Essere con lui? Il suo Spirito, che abita in noi, è la radice del nostro essere vero, dell'immagine unica di Dio che noi siamo, spesso seppellita sotto atteggiamenti dettati dagli altri.

Il mondo, infatti, ci sollecita a tradire costantemente la nostra vera identità di figli del Regno, per indurci a conquistare stima, affetto, appoggio. Il rumore di questi pensieri vani stordisce il cuore, che non può più sentire la voce di Dio che lo chiama a essere semplicemente sé. Lo spavento di dover affrontare il proprio vuoto, di sentirsi sprovveduti di fronte alla relazione con Dio, può trasformarsi con l'orazione silenziosa «nel dolore del parto» (Rm 8,2 2) dell'essere vero, che lo Spirito fa nascere nel silenzio del cuore liberato dai pensieri menzogneri.

Pregare è sempre una conversione, che apre il cuore alla conoscenza di Dio Padre misericordioso e del conseguente amore compassionevole per le sue creature.
  • Emmanuelle Marie
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Messaggio da miriam bolfissimo » mer mar 07, 2007 9:40 am

      • Il mito della costola favorevole alla donna
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  • Essere donna è rinunciare alla rivalità con l'altro sesso per diventare compagna ed educatrice dell'uomo, ricordandogli il senso del limite accolto come apertura alle risorse inedite della vita.
La cosiddetta «emancipazione della donna», già iniziata nella seconda metà dell'Ottocento, è stata un evento fondamentale dell'evoluzione umana durante l'ultimo secolo. Cosa significa, dal punto di vista cristiano, questa presa di coscienza?

Ogni evoluzione del pensiero fa parte dell'Incarnazione, cioè del lungo e faticoso cammino dell'uomo per lasciar emergere la presenza di Dio nel cuore della realtà e diventarne consapevole: Dio, infatti, ha creato l'essere umano perché «coltivasse» la sua terra, cioè la sua esistenza, in collaborazione con lo Spirito creatore. Nel primo capitolo della Genesi, è detto che Dio creò l'essere umano «maschio e femmina», parola che indica la radicale uguaglianza tra l'uomo e la donna. La famosa «costola» del terzo capitolo tolta all'uomo - intendiamo «l'essere umano, uomo/donna» - è la traduzione di una parola ebraica, che indica il lato, addirittura la tendenza.

Si tratta, dunque, di ciò che i rabbini chiamano l'istinto, suddiviso in uno buono e uno cattivo, ossia la capacità di pensare e agire sotto la spinta dello Spirito o, invece, l'illusione di poter trovare con le proprie forze la felicità. Tuttavia, si può anche vedere nel mito della costola un'indicazione sull'essere della donna. Il testo dice: «Il Signore Dio plasmò con la costola una donna». La parola, tradotta con «plasmò», viene da una radice che significa «costruire» e anche «discernere», appunto, tra il bene e il male. Questo termine indica, quindi, una vocazione: la donna è una creatura capace di capire dove sta il vero bene, una persona quasi naturalmente dotata di saggezza. In questo senso, si può affermare che la donna è costituzionalmente profetica, poiché la profezia è, appunto, la visione delle conseguenze future degli atti compiuti.

La Bibbia è ricca d'esempi di donne più chiaroveggenti degli uomini, capaci esse di avvertire la presenza dello Spirito all'opera, le resistenze che l'umanità oppone loro e di correre, quindi, ai ripari. Giuditta impara che, di fronte alla minaccia del nemico accampato dì fronte alla città, i capi del popolo cedono alla disperazione. «Ringraziarne Dio - dice loro - che ci mette alla prova» e sarà lei, indifesa ma ricca di fiducia, a salvare i suoi.

Ma uno dei problemi dell'emancipazione della donna è stata la rivalità con l'uomo. Di fronte alla tendenza di ogni essere umano a gareggiare con l'altro, il Vangelo ci parla, invece, di piccolezza, raccomanda di scegliere l'ultimo posto. Mi pare che la donna cristiana debba reagire contro la tendenza a paragonarsi con l'altro sesso, tendenza che nuoce all'intesa familiare, lavorativa, politica. Ognuno ha le sue prerogative, che si completano senza prevaricazione.

Se la donna è «profetica», è perché è all'ascolto della vita e gode, quindi, di un'intelligenza particolare per proteggerla. Sente, come dice Giuditta (12, 18) «la vita dilatarsi» in lei, mentre l'uomo è più propenso ad edificare le necessarie strutture e a difenderle.

Essere donna è servire e custodire la qualità della vita, è credere che dietro ogni prova c'è una novità, un «di più» da scoprire. È intuire dietro la ribellione dell'adolescente, la sua ricerca d'identità, dietro la violenza, una sofferenza che attende la comprensione, dietro ogni male, l'attesa di un modo nuovo di crescere, nella fiducia della vittoria del Bene.

Essere donna, è saper aspettare nella fiducia, il sorgere di un altro modo d'essere. È, infine, rinunciare alla rivalità con l'altro sesso per diventare compagna ed educatrice dell'uomo, ricordandogli il senso del limite accolto come apertura alle risorse inedite della vita.
  • Emmanuelle Marie
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun mar 12, 2007 12:36 pm

      • Quaresima, cammino di verità e di vita
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  • Conversione vuoi dire passare da una mentalità di morte a quella di vita: per questo Quaresima non è solo periodo di sacrifici...
La Quaresima è un tempo che troppo spesso consideriamo come periodo di sacrifici, di penitenza, questo perché la parola «conversione» è una traduzione approssimativa del termine greco meta-noia che significa cambiare mentalità. Quando Gesù inizia il suo ministero, chiama tutti a cambiare il modo di pensare, ma non parla mai in termini morali, bensì di vita e di morte.

È necessario passare dalla mentalità puramente umana, che cerca di trovare con i propri mezzi il modo di organizzarsi una vita decente e possibilmente felice, alla certezza di essere figli di un Padre che è amore, che conduce l'esistenza di chi si apre alle ispirazioni interiori del suo Spirito, come faceva Gesù stesso. «Non hai chiesto sacrifici né olocausti per la colpa, allora ho detto: ecco, io vengo Signore, per fare la tua volontà», recita il salmo 39/40.

«Non voglio sacrifici ma la misericordia» è un grido divino che riecheggia lungo tutta la Sacra Scrittura. È questa tenerezza che apre al cambiamento del cuore, che scopre di essere infinitamente amato dal Padre, a prescindere dalle colpe e dal giudizio.

La conversione è la presa di coscienza di aver vissuto nell'obbedienza a schemi umani, senza il riferimento vitale alla presenza di Dio nel cuore dell'esistenza. L’educazione purtroppo induce spesso a conformarsi allo sguardo altrui, alla «bella figura», anziché aiutare a diventare se stessi, per manifestare l'immagine unica di Dio che ognuno è.

Un'amica mi scrive: «La mia storia non è la mia storia. O, piuttosto, non è stata scritta da me. Sono sempre stata un burattino nelle mani dei miei genitori prima, dei miei datori di lavoro poi, e della gente che frequentavo. Non ho mai scelto niente per me, non ho mai scelto niente da me. Tutto il mio passato non mi appartiene, non mi riguarda». Alludendo al passaggio che stava vivendo, aggiungeva: «Mi sento "vergine" come la prostituta, moglie del profeta Osea: sono nel deserto, dietro di me terra bruciata, davanti a me pagine bianche. Le ferite sono cicatrici, le sofferenze sono diventate un dolore sordo, antico, lontano, non mio. Sono tutta nuova, la mia vita inizia adesso. Oh, è vero, sono stata tradita, derubata della mia esistenza. Mi hanno portata dove non volevo andare, non sono mai stata dove avrei voluto andare. Ma non ero io, era l'altra me, una sconosciuta pronta a tutto pur di sopravvivere, cioè di piacere, di essere amata. Ecco, appunto, sopravvivere, di questo si è trattato fino ad ora, non vivere!». Ecco il cambiamento di mentalità evangelico e la sua liberazione. Allora si può cantare con Isaia: «Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma tu sarai chiamata Mio compiacimento, e la tua terra, Sposata, perché il Signore si compiacerà di te e la tua terra avrà uno sposo. Sì, come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te» (Is 62,4-5).

La conversione è richiesta per prepararsi alla Pasqua, cioè al passaggio dalla morte alla vita. Morte del vecchio personaggio conforme alla mentalità sociale perché viva l'essere vero, unico, libero dall'opinione altrui, attento invece a «fare la verità» come dice il Maestro.

Il lavoro interiore consiste nel rinunciare all'idolatria, che s'inginocchia di fronte all'altro per corrispondere alle sue attese. Ogni volta che l'altro è «tutto per me», gli si da il posto di Dio e ci si aliena da se stessi.

La coscienza personale è consapevole del vero bene, sa come comportarsi, ma è oberata dall'ossessiva ricerca dell'approvazione, che conduce alla schiavitù.

La Quaresima potrebbe essere un tempo in cui si distinguono i desideri dai bisogni che ne sono spesso solo la caricatura, come chi cerca di piacere anziché fidarsi della bontà intrinseca del suo essere.
  • Emmanuelle Marie
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun mar 19, 2007 2:58 pm

      • Quaresima: il tempo delle occasioni
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  • Alcune riflessioni per vivere con consapevole intensità questo periodo forte dell'anno liturgico.
La tradizione riassume la pratica quaresimale con tre obblighi: preghiera, digiuno, elemosina (questa parola viene dalla stessa radice greca di quella che pronunciamo spesso: eleison, che significa avere pietà, compassione).

Non è prettamente cristiana questa triplice usanza, bensì ebrea: il Talmud, raccolta di commenti biblici con indicazioni per la vita pratica, l'ha istituita in sostituzione dei sacrifici che non potevano più essere compiuti dopo la distruzione del Tempio. Mi pare che quest'origine, grazie all'interpretazione dei rabbini, possa illuminare il modo in cui vivere la Quaresima.

In ebraico, la preghiera è un «servizio», nel senso di un lavoro dovuto, un culto reso a Dio. L'uomo, creatura fallibile, necessita, per avvicinarsi al Signore, di una purificazione dalle colpe. Per cui si offrivano sacrifici di animali, simboli del popolo. Tre sono le parole ebraiche per dire sacrificio: «immolazione» (dell'animale), «dono» (di farina, olio) e «offerta», che viene dalla radice «avvicinarsi».

Questo è il senso che più ci interessa: di per sé, la rinuncia, che chiamiamo sacrificio, non giova a nulla se non è orientata all'avvicinare Dio; serve a tenere desto il desiderio, che solo il Signore può colmare. Ogni volta che cediamo alla soddisfazione di una fantasia che non sia indirizzata al vero bene, indeboliamo la nostra capacità d'incontrare Dio. Questo è il senso della sobrietà, raccomandata durante la Quaresima sin dai primi secoli del cristianesimo. Secondo gli ebrei, la preghiera serve a purificarsi, a domandare di non cadere nel peccato per avvicinarsi a Dio e per collaborare con il suo piano benefico.

Pregare per ottenere un piacere, perché tale persona superi l'esame o guarisca, è - dicono i rabbini - un atto sacrilego, perché è come sostituirsi a Dio stesso, come voler cambiare in modo miope il corso dell'avvento del Regno. Si deve invece chiedere la forza di sostenere la prova, che è la nostra partecipazione alla passione di Cristo, che ha preso su di sé il male del mondo.

La benedizione, diventata spesso un semplice gesto rituale, è in realtà la prima richiesta da fare nella preghiera, per ottenere la forza e la luce necessarie per lavorare al compimento del bene. Il vertice della preghiera è quindi unirsi al Signore, è l'adorazione, in cui si contempla Cristo, il suo cammino sulla terra, le sue reazioni di fronte alle contraddizioni, alla sua Passione e morte, per diventare, come lui nella forza dello Spirito, radicalmente obbedienti all'amore.

Una volta sgozzato l'animale, il sommo sacerdote ne mangiava le carni, immolate, offerte al Signore in rito d'espiazione per i peccati, come avesse condiviso il pasto con Dio. Mangiare è un gesto che mantiene in vita, che collabora, quindi, con la creazione. In tutte le religioni, è il luogo della partecipazione alla divinità, come nel quotidiano, è un tempo di forte condivisione.

Gesù affermava che il suo nutrimento era fare la volontà del Padre. Astenersi dal mangiare non ha valore in sé, ma diventa significativo se è il modo di riconoscere che ogni bene è dato da Dio e che ne vogliamo usare solo per quello di cui abbiamo bisogno, dando il sovrappiù al bisognoso. Inoltre, si diventa quello che si mangia e se il pasto è un atto di fraternità e di unione, il cibo è come spiritualizzato da chi lo usa per avere la forza di servire meglio il Padre nel prossimo.

Digiunare è dunque anche riconoscere la propria inadeguatezza a unirsi al Signore. Non è forse il senso - nel rito ambrosiano - del digiuno eucaristico, il venerdì di Quaresima? Il risparmio così realizzato deve servire alla carità, per reinserirsi nel disegno del Creatore, che vuole che ognuno si prenda cura del prossimo.

La Quaresima invita a restaurare ogni relazione, per entrare nel cammino di Cristo, che ha voluto salvare tutti i suoi fratelli.
  • Emmanuelle Marie
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun mar 26, 2007 2:13 pm

      • Convertirsi è come ricreare il mondo
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  • Riconoscere il proprio peccato è l'atto più alto che possa compiere la creatura. La richiesta di perdono dice che l'amore del Padre è infinitamente più grande della colpa.
Nel tempo di Quaresima, la Chiesa invita i fedeli al pentimento. Forse non è inutile precisare che il ravvedersi non ha nulla da spartire con il senso di colpa, che affonda le radici nel rifiuto dei propri limiti.

Martoriarsi con i rimorsi è solo superbia, mentre il pentimento è il rimpianto di avere misconosciuto il disegno d'amore di Dio e avere così creato danni a se stessi e agli altri. «Troppo grande è la mia colpa per essere perdonata» (Gn 4,13). Questo grido di Caino resta spesso nell'orizzonte del rapporto con Dio di chi non si perdona i propri sbagli.

Molti cristiani, infatti, sono come paralizzati nella vita interiore da un senso di colpevolezza, persino d'inadeguatezza, senza che sempre ci sia un fatto preciso da rimproverarsi. Nonostante echeggi, dalla Genesi alla parabola del figliol prodigo, il grido di Dio come sconvolto dalla scelta di morte della sua creatura: «Adamo, dove sei?», il credente resta spesso schiacciato sotto il peso dei propri difetti, come se fossero più grandi dell'Amore infinito.

All'origine di tale contraddizione c'è, ovviamente, l'educazione ricevuta, più propensa a rimproverare che non a spiegare che «sbagliando si impara», e soprattutto che il peccato non ha il potere di offuscare nell'uomo l'immagine di Dio.

Tuttavia, c'è di più … i pensieri menzogneri che inquinano il rapporto con Dio. Ogni tentazione, infatti, è sempre una bugia, che presenta come la via giusta un atteggiamento negativo, il quale provoca, poi, ulteriori difficoltà. Il serpente travisa la verità per indurre Eva a disobbedire al Creatore, mentre a Gesù il diavolo rappresenta la sua missione di salvatore sotto l'inganno di gesti demagogici.

Il peccato è sempre fondato su una menzogna: chi lo commette crede, il più delle volte in buona fede, di perseguire il suo bene, quando invece si imbatte in difficoltà più grandi di quelle che voleva evitare. La storia di Eva si ripete in ogni bambino, finché, da adulto, non può scegliere di cambiare rotta. C'è chi, mortificato nell'infanzia dal padre, decide, per vendicarsi, di superare tutti per farsi finalmente riconoscere, rendendosi insopportabilmente arrogante, salvo poi chiedersi perché le persone lo rifiutano. Oppure la ragazzina che, gelosa della sorellina coccolata dal padre, fingeva un mal di pancia per attirare la sua attenzione, e da adulta, perde facilmente il senso della realtà, come se continuasse a raccontarsi storie non vere, appena si sente in inferiorità.

Gesù, nel deserto, risponde a ogni sollecitazione del demonio con una Parola della Scrittura per insegnarci che le frasi menzognere si combattono con la Parola di verità. Il bambino umiliato dal padre può sentirsi dire, da adulto: «Tu sei mio figlio amato»; mentre alla donna che perde il senso della realtà, lo Spirito può suggerire: «La verità ti libererà».

Fare penitenza è uscire dalle false credenze, che hanno orientato inconsciamente l'esistenza in modo sbagliato. Di solito, uno sa di avere sbagliato, ma non sempre è in grado di correggersi, perché a sua insaputa obbedisce a una scelta sbagliata, fatta nell'infanzia per soffrire meno.

San Tommaso d'Aquino spiega che l'esistenza è guidata dalla prima decisione consapevole, finché uno si ravvede e cambia rotta. Quando uno decide di cambiare, è come se ricreasse il mondo, dicono i rabbini: se il peccato toglie al mondo il suo significato, il pentimento, invece, gli ridà senso.

Nella notte di Pasqua, la liturgia afferma: «Felice colpa». Riconoscere il proprio peccato, infatti, è l'atto più alto che possa compiere la creatura, in quanto la richiesta di perdono proclama l'amore del Padre, infinitamente più grande della colpa, e rinuncia alla menzogna «che ha fatto entrare la morte nel mondo» (Sap 2,24). Chi si ravvede partecipa alla risurrezione.
  • Emmanuelle Marie
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun apr 02, 2007 11:04 am

      • Perché ci attanaglia ancora la paura?
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  • Solo quando perse il lavoro, Fernando capì che aveva vissuto, fino a quel giorno, schiavo dell'apparenza, come un robot. Ma poi…
Noi, cristiani, abbiamo forse quei volti da risorti, che si augurava Nietzsche? Credere nella risurrezione, cambia la nostra vita? Come mai viviamo nella paura, se Cristo, con la sua morte e risurrezione, ci ha liberati da ogni paura, come scrive l'autore della lettera agli Ebrei (2, 14-15)?

Ogni timore, infatti, viene da quello di morire, cioè di perdere il bene più prezioso, che è la vita, e di cui ogni perdita, ogni pericolo, è il riflesso e l'annuncio. Se quindi fossimo liberati dal tremore che c'ispira la morte, saremmo, di conseguenza, liberati da ogni sgomento. Le perdite, le sconfitte diventerebbero «porta della speranza», ossia un'apertura verso un bene più grande, come dice il profeta Osea (2, 17), parlando di una valle in cui stavano le fosse comuni dei suppliziati.

La vita è un tirocinio per prepararci al grande traguardo dove tutto finirà, quando dovremo abbandonare tutti e tutto per congedarci in una radicale solitudine. Infatti, se Cristo è risorto, se si è fatto vedere in carne e ossa ai discepoli, dopo una morte che segnava l'apparente sconfitta della sua esistenza, non è forse per dirci che non c'è disgrazia che non sia per aprirci a un bene maggiore?

Solo quando Fernando perse il lavoro capì che aveva vissuto, fino a quel giorno, schiavo dell'apparenza, come un robot che non pensava più ad altro che alla routine di una vita vuota. Non sapeva come avrebbe trovato i soldi necessari per vivere, ma attraverso un incontro con un barbone, gli si aprì il cuore di fronte a chi soffriva più di lui, offrì da volontario le sue capacità d'amministratore a un'associazione nella quale si cercava di dare una formazione professionale anche a chi non aveva mai lavorato, persino ai senza fissa dimora. Nel giro di qualche mese trovò, in quell'ambito, un vero posto di lavoro, nel quale questa volta poteva dare un senso alla sua esistenza e realizzarsi come uomo e come cristiano.

Quante persone, grazie a un lutto, una malattia, un'infermità improvvisa, scoprono in sé delle risorse ignorate, attraverso le quali trovano la loro realizzazione! Come spiegare queste situazioni paradossali? Morendo, il Signore ci ha lasciato il suo Spirito, come se un nostro caro ci avesse trasmesso il suo modo di sentire, comprendere, agire. La sua vocazione umana era stata quella di «manifestare il Padre» (Gv 1, 18) attraverso i suoi gesti, le sue parole. Se siamo le sue membra, se lui è il capo del grande corpo che formiamo, anche noi siamo chiamati a esprimere, nel nostro quotidiano più banale, il Bene di cui il Padre è la fonte.

Quindi, anche con tutti gli sforzi possibili, diventare l'espressione del Padre non è in nostro potere, non dipende da un impegno morale, bensì da un mistero assai misconosciuto, ossia la Presenza dell'Essere alla radice di ogni esistenza.

Non si tratta di panteismo, secondo il quale ogni cosa o persona sarebbe Dio, ma della realizzazione del disegno divino, ossia l'espressione da parte dell'uomo creato a sua immagine e somiglianza, del Bene che lo fa esistere.

La libertà umana è la capacità di permettere a questo bene fatto uomo/donna di manifestarsi nel carattere, nei limiti, nelle scelte di ciascuno. Come Gesù ha lasciato lo Spirito del Padre agire attraverso di lui, così noi troviamo la nostra realizzazione piena quando permettiamo l'emergere dell'Essere nel nostro quotidiano, grazie alla nostra presa di coscienza della Presenza, alla radice della nostra esistenza, dello Spirito stesso del Signore. Come afferma Paolo: «Ora se lo Spirito di Colui che risuscitò Gesù da morte abita in voi, Colui che risuscitò da morte Cristo Gesù darà la vita anche ai vostri corpi mortali, in forza dello Spirito che abita in voi» (Rm 8, 11), non solo dopo la morte ma già da adesso, nella Vita divina presente nel nostro profondo, affidata alla nostra libertà.
  • Emmanuelle Marie
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar apr 10, 2007 4:25 pm

      • Una relazione capace di cambiare il mondo
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  • Il bene dell'umanità è stato affidato ai seguaci del Risorto, a patto che accettino di attraversare, anche loro, la morte di ogni giorno per risorgere a una relazione creatrice di vita.
La risurrezione del Signore è. un evento del passato oppure una dinamica tutt'oggi all'opera nella vita del mondo?

Il divario sempre più grande tra i pochi popoli ricchi e il resto del pianeta i pregnante di conflitti terrificanti, che possono scoppiare da un giorno all'altro. Il male sembra crescere a dismisura. Tuttavia, mai l'uomo si è reso così attento all'altro. Le dinamiche della comunicazione hanno destato iniziative planetarie di beneficenza internazionale, hanno fatto progredire la condizione della donna negli ultimi cinquant'anni più che mai dall'inizio del mondo.

Il bene si diffonde appunto perché la forza della risurrezione è attiva, e con essa, secondo la profezia di Cristo, anche le persecuzioni e il male, che ne è solo l'ombra. Gesù è risorto e una nuova forma relazionale si è diffusa nella storia, consegnata nelle mani dei credenti, perché anche i fedeli di altre religioni e gli atei ne siano contagiati. E lo sono.
Il bene dell'umanità è stato affidato ai seguaci del Risorto, a patto che accettino di attraversare, anche loro, la morte di ogni giorno per risorgere a una relazione creatrice di vita.

Quello che deve morire è l'abitudine di soddisfare i propri bisogni senza scoprire il desiderio di cui sono solo il simbolo. L’educazione è spesso la brutta copia della relazione, perché risponde al bisogno immediato del figlio, non al suo desiderio, che addirittura annebbia. Al bambino che piange, perché si sente insicuro e solo, si danno giocattoli o caramelle. Il suo desiderio di essere preso in considerazione, e non abbandonato a se stesso, è allora offuscato e addirittura dimenticato dalla risposta al bisogno di divertirsi o di godere. Da grande, non saprà che cosa vuole in verità e comprerà l'ultimo computer uscito sul mercato o un nuovo paio di scarpe, appena toccherà il suo vuoto interiore. Così cresce il consumismo dei ricchi con il loro malessere profondo, perché non lasciano spazio alla presenza operante della forza vitale del Risorto.

Ciò che deve risorgere e crescere nella relazione, lo dimostra Gesù. Anche lui è stato affrontato dal conflitto tra bisogno e desiderio. Lungo la sua vita, si è scontrato con la miopia di chi credeva di volergli bene, ostacolando il suo desiderio di manifestare il Padre, per venire incontro al suo bisogno umano di sicurezza. A dodici anni, i suoi genitori, pur santi, non capirono la sete del figlio di occuparsi delle cose del Padre. Adulto, i suoi familiari lo pensarono fuori di sé, mentre stava accogliendo i poveri, gli esclusi dal tempio e quindi dalla società perbene. Non è stato affatto esente dalle nostre tentazioni di colmare il proprio vuoto di creatura. Il suo grido sulla Croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato» non è stato l'unico momento di dubbio e di smarrimento della sua vita. Sono certamente state numerose le volte in cui ha sentito la solitudine, al punto di pensarsi abbandonato dal Padre, proprio come noi.

Tutte le sue apparizioni da Risorto sono improntate alla relazione. Alla Maddalena, la mattina di Pasqua, agli apostoli. Non rispose al loro bisogno della sua presenza ma al loro desiderio più vero, quello di continuare la sua opera, manifestando anch'essi il Padre attraverso la loro vita. Diventare capaci di relazione implica la morte a tutto ciò che ostacola l'incontro con l'altro. Morte al bisogno di stima, magari facendo atti eroici, come partire all'altro capo del mondo per stare vicino ai dimenticati della storia, senza accorgersi che, così facendo, si cerca ancora di colmare il proprio vuoto, strumentalizzando l'altro per i propri fini.

Morte, che permette all'Essere di risorgere in ciascuno. La certezza di chi si fida della vita contagia anche l'altro e lo riporta al senso della propria esistenza. Solo a questo punto può scattare la relazione, destinata a cambiare il mondo.
  • Emmanuelle Marie
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Messaggio da miriam bolfissimo » mar apr 17, 2007 10:31 am

      • Leggere la vita alla luce della risurrezione
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  • Il male non è voluto dal Creatore, ma fa parte dell'incompiutezza affidata all'essere umano perché la riduca, porti a compimento il disegno d'amore divino.
Il Signore è risorto. Tocca la nostra esistenza quotidiana? Eventi come lo tsunami, la situazione irachena, la diffusione dell'aids in Africa e in Cina, mettono alla prova la fede di chi ancora non sa che Dio, con la morte e la risurrezione di Cristo, si è decisamente rivelato come difensore delle vittime.

Il male non è voluto dal Creatore, ma fa parte dell'incompiutezza affidata all'essere umano perché la riduca, porti a compimento il disegno d'amore divino. Nelle moschee dei Paesi rovinati dal maremoto asiatico, alcuni imam hanno affermato che si trattava di un castigo di Dio. Persino delle suore hanno insegnato ai bambini rimasti orfani e raccolti nel loro collegio, che lo tsunami era stato un effetto della collera del Signore! Queste interpretazioni dimostrano l'ignoranza penosa di chi osa parlare di Colui che è radicalmente Altro, «lontano dai nostri pensieri», come asserisce Isaia. D'altra parte, è ugualmente errato rimandare i frutti della risurrezione al dopo morte, pretendendo di consolarsi dei quasi trecentomila morti in Asia con la speranza della vita eterna.

La risurrezione interessa il modo di condurre l'esistenza terrena. La morte di Gesù non è certo stata voluta dal Padre, bensì da un'umanità che non ha accolto il suo messaggio di radicale fraternità, di condivisione dei beni tra tutti e, soprattutto, appunto, la sua rivelazione di un Dio così diverso da quello in cui si credeva.

Il Signore è morto perché sconvolgeva l'ordine stabilito: rivelava un Dio amico dei peccatori, che vuole che chi sbaglia viva e non sia punito, bensì ammaestrato dal perdono amoroso di chi gli sta accanto. Non solo Dio non punisce mai, ma conosce l'incompiutezza umana, la quale non può accogliere in un istante il dono della vita divina. Con la sua risurrezione, Gesù mette il sigillo alla sua opera di rivelazione dell'amore del Padre: «Vado dal Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro» (Gv 20, 17).

Ormai, sappiamo che Dio non si è vendicato della morte dell'innocente, che ha invece dato all'umanità la possibilità di vivere del suo stesso Spirito che animava suo Figlio. Fin da questa vita, è consegnato all'uomo il modo divino di gestire la propria esistenza. «Non vi lascerò orfani - aveva affermato il Signore, prima di morire - ritornerò da voi. Il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete» (Gv 14, 18).

Perché mai afferma: «Voi vivrete»? Non sono forse vivi? Certo, lo sono, ma ancora non vivono della stessa vita di Dio, che sarà loro comunicata con il dono dello Spirito, il quale vive in ogni persona che cerca il bene, che, anche senza saperlo, collabora all'opera del Padre, che vuole che tutti siano salvi, ossia che tutti vivano della sua stessa vita.

Risorto è chi, di fronte a ogni evento, decisione, ascolta nel suo profondo la voce che gli indica dove sta il bene, come accrescere la vita per sé e attorno a sé, come trasformare ogni situazione in un momento di crescita, nella fiducia che non è solo, non è orfano. Il più delle volte non sappiamo cogliere questa voce, perché la paura, la tristezza, otturano l'orecchio interiore.

È sempre possibile, tuttavia, chiederci, in seguito, che cosa lo Spirito ci suggeriva nel momento della prova, come lo realizza ora Daniela, la cui infanzia era stata un martirio a causa della follia di sua madre, rimasta vedova molto presto. Oggi, ogni volta che è tentata di credersi incapace, come glielo ripeteva la madre, si mette in ascolto della Parola che il Signore le diceva, quando si sentiva schernita, umiliata, picchiata: «Sei preziosa ai miei occhi, sei degna di stima e io ti amo» (Is 43, 4); ritrova allora la forza di credere nel suo valore, orienta le sue piccole scelte quotidiane in modo positivo e, poco a poco, diventa un punto di riferimento per tante persone scoraggiate.
  • Emmanuelle Marie
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun apr 23, 2007 1:32 pm

      • Risorto dagli inferi
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  • Con la discesa agli inferi Cristo non solo ha condiviso la condizione mortale, ma è entrato fin nel baratro dei nostri cuori, là dove Dio ci sembra assente.
L’evento centrale della nostra fede è la passione, morte e risurrezione di Cristo. Mi chiedo spesso se la Pasqua cambi veramente qualche cosa nella mia vita, e forse non sono la sola a pormi questa domanda. Se davvero il Signore è risorto, allora è sempre presente, sempre attento a noi, pur nel rispetto della nostra libertà di crederci o no; noi, invece, non di rado siamo distratti, assenti e ci comportiamo come se fossimo abbandonati, in balia degli eventi.

Si parla spesso di Gesù che risorge dal sepolcro. In realtà, Egli risorge dopo essere disceso agli inferi, luogo diverso dall'inferno della dannazione perché condizione o stato di coloro che sono morti prima di Cristo. Il Signore, sceso negli inferi, discende anche nei nostri «inferni» personali, dove tutto ci sembra assurdo (gli eventi e le reazioni nostre o altrui) quando non riusciamo più a credere nella presenza di Dio e, per uscire dal dolore, ci arrangiamo da soli, con il nostro agire egoistico e violento.

C'è anche un inferno in terra, che è la conseguenza della durezza del cuore che non crede più nell'amore, che ha perso fiducia in Dio e non sa più leggere il senso di quello che succede. Ne conseguono scelte sbagliate, che possono portare ad atti distruttivi, che troncano la relazione con noi stessi, con gli altri e con Dio. È come se non avessimo occhi per vedere, oltre la realtà immediata, la presenza del risorto, che sta con noi nei nostri drammi, per tirarci fuori, per ridare vita alla relazione.

Il racconto della risurrezione nel Vangelo di Giovanni (capitolo 20) ci aiuta a comprendere meglio la potenza di quell'evento nella nostra vita quotidiana, attraverso i tre verbi greci usati dall'evangelista per esprimere «come» i testimoni hanno visto.

Maria «vede» il sepolcro vuoto e, affranta dal dolore, corre dai discepoli. Ha visto con gli occhi, ma non con lo spirito. Reagisce istintivamente, senza riflettere né ricordare le parole di Gesù che preannunciavano la sua risurrezione. Piange l'assenza dell'Amato, ma anche lei è assente da se stessa, dalla propria interiorità, dove Dio l'aspetta.

Anche Giovanni «vede» che il sepolcro è vuoto. Pietro invece, entrando nella grotta, «osserva» le bende a terra. Il sudario non è con le bende, giace a parte, come se fosse stato tolto in un secondo tempo e questo fatto lo induce a pensare. Infine, l'altro discepolo entra, «vede e crede», e nel testo, è usato un termine che indica «fissare intensamente, contemplare». Giovanni va oltre la pura osservazione degli oggetti e coglie il senso di quello che vede. «Vede e crede». Crede nell'avverarsi delle parole di Gesù. Anche se ancora non lo incontra «fisicamente», coglie la sua presenza, sa che il Maestro è lì, nella profondità della disperazione seguita alla sua morte. Crede che Cristo è vivo, e capisce che l'umanità è liberata dalla morte, ossia dal peccato che segna la morte della relazione. Comprende che l'alleanza tra Dio e l'umanità può essere ricomposta, anche dopo la ferita della colpa, anche dopo l'infedeltà, anche dentro la disperazione.

Con la Pasqua tutto è trasformato, perché Cristo non solo ha condiviso la nostra condizione sulla terra, ma è disceso fin nel baratro dei nostri cuori, là dove Dio sembra assente. «È diventato peccato per noi - dice Paolo (2Co 5,21) - affinché noi diventassimo giustizia di Dio in Lui». Come se in qualche modo avesse sperimentato, nella discesa agli inferi, la rottura della relazione prodotta dal peccato, perché noi la ritrovassimo attraverso il rapporto con Lui, che illumina i nostri cuori perché vedano e credano nella sua Presenza. Gesù chiama anche noi per nome nel profondo della nostra coscienza, perché, come Maddalena «ci voltiamo», guardiamo a Lui e non più solo a noi.

«Gesù le disse: "Maria!". Ella, voltatasi, gli disse in ebraico: "Rabbunì!", che vuol dire: "Maestro!"».
  • Emmanuelle Marie
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Messaggio da miriam bolfissimo » mer mag 02, 2007 5:41 pm

      • L’annunciazione sconvolge i piani di Maria
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  • Maria insegna ad ascoltare la Parola di Vita che lo Spirito suggerisce per trovare la strada giusta in ogni situazione.
Maggio, il mese tradizionalmente consacrato dalla pietà popolare a Maria. Molti cristiani soffrono per non riuscire a sentire la Vergine come madre e si colpevolizzano. Altri la pregano come fosse una dea, con pratiche quasi superstiziose.

Pochi, forse, la salutano come fece l'angelo: «piena di grazia», cioè come la creatura nella quale Dio ha potuto manifestarsi al punto d'incarnarsi in lei. Chi ha avuto una madre che l'ha fatto soffrire, non è in grado di entrare in una relazione positiva con la Madre. Oppure, chi ha avuto una mamma possessiva, teme che la Vergine gli chieda troppo. Nello stesso modo, una madre troppo protettiva, con la quale uno è rimasto come in simbiosi, desta nel cristiano un atteggiamento quasi idolatra o feticista verso Maria.

Chi è stata la Madonna? Senza negare il dogma dell'Immacolata concezione, si può cercare di veder di esso le radici umane, piuttosto che inquadrarlo solo come un intervento eccezionale di Dio.

Oggi si è sempre più attenti agli elementi che, attraverso il Dna, passano di generazione in generazione. Si nasce appesantiti dalle colpe degli antenati e dalle loro conseguenze. Si può pensare che, invece, Maria sia uscita da un lignaggio di ebrei sempre più fedeli alla presenza del Signore nella loro vita. L’assenza di peccato in Maria può allora essere vista non più come un privilegio che desta l'invidia - perché lei sì e io no? - bensì come la risposta del Padre alla fedeltà di tanti suoi avi. Inoltre, ogni essere umano è segnato dai sentimenti dei suoi genitori nel momento in cui è stato concepito: amore o sopraffazione, rispetto o egoismo, coscienza di collaborare con il Padre o senso d'onnipotenza, desiderio del bene dell'altro o soddisfazione del bisogno immediato.

L’Immacolata Concezione sprona, quindi, i genitori a prepararsi al momento in cui concepiscono un figlio, perché sia orientato alla Vita, al Bene, sin dal seno materno. Questo mistero incoraggia anche a lavorare su di sé, per saper educare i figli senza trasmettere i difetti, le paure, l'aggressività che li segnano nei rapporti con loro.

Maria riceve l'annuncio dell'Angelo. La tradizione dice che aveva deciso di restare vergine, in una civiltà in cui il principale dovere era di procreare. Era probabilmente così orientata a Dio, che non poteva concepire di appartenere a un altro. La sua libertà era così vasta da spingerla a una scelta controcorrente. Le viene proposto, invece, di partorire un figlio. Un mistico domenicano contemporaneo pensa che l'Annunciazione sia stata per lei una vera agonia.

Quando si progetta, nella fatica, una linea di vita che la vita costringe ad abbandonare, si attraversa un momento di dolorosa confusione: mi ero sbagliato, scegliendo di essere coerente con l'insegnamento del Vangelo, se debbo abbandonare la mia scelta di lavorare alla Caritas ed entrare in un'azienda capitalista per far vivere la mia famiglia? Ebbene, forse sì, per portare in quell'ambiente i valori sui quali ho costruito la mia via.

La fede della Madonna non crolla mai: di fronte al rifiuto di ospitalità a Betlemme, come a contatto con il bambino simile a tutti gli altri che nasce da lei, Maria ha dovuto Credere contro ogni apparenza. È stato senz'altro un difficile percorso di abbandono delle proprie prospettive per entrare nelle situazioni che le si presentavano. Quando Gesù, a dodici anni, le ricorda che «deve occuparsi delle cose del Padre», non capisce, ma non si ribella: «conserva tutto nel suo cuore», ossia, secondo la parola greca, mette a confronto con le parole della Scrittura quello che vive, per coglierne il senso. Così può affrontare la morte del Figlio: si fida, spera contro ogni speranza, sa che il Padre è più potente del male, della morte.
  • Emmanuelle Marie
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun mag 07, 2007 2:26 pm

      • Investire su di sé per diventare liberi
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  • La risurrezione chiama tutti a investire su di sé, a trovare dentro di sé le risorse per dare senso alla propria esistenza.
Che cosa farò da grande?», ovvero, qual è il senso della mia vita quando tutto crolla? Qual è la mia identità?

Il popolo ebraico, quando lasciò l'Egitto, era solo un'accozzaglia di gente, abituata alla schiavitù. Quarant'anni sono stati necessari perché diventasse consapevole della sua identità, che non era più quella riferita a una situazione di dipendenza bensì al senso della sua esistenza: essere testimone del Dio unico di fronte alle genti. Quaranta giorni sono stati necessari anche a Gesù stesso per capire che cosa avrebbe fatto da grande, cioè come si sarebbe realizzata la sua vocazione. L’aveva già intravista quando, dodicenne, aveva risposto ai suoi: «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio» (Lc 2,49)? Tuttavia era ancora un progetto poco delineato, come l'adolescente che dice di voler lavorare a servizio dei poveri, ma ancora non sa chi è e come si attualizzerà questo desiderio.

Molti pensano di avere raggiunto la propria identità fino al giorno in cui un cambiamento di lavoro o di residenza o, addirittura, il momento della pensione non scombussola l'equilibrio e sembra che la vita non abbia più senso.

Per liberare il popolo dalla schiavitù degli egiziani, Dio disse a Mosè che il faraone doveva lasciarlo partire «per servirlo nel deserto» (Es 7, 16). Doveva forse passare da una schiavitù all'altra? La chiave della libertà consisteva appunto nel «servire Dio» ossia nel riconoscerlo presente per ispirare in ogni evenienza la soluzione, a partire dalle capacità umane di ognuno, senza più aspettare come dei bambini un aiuto esterno, magari implorato da un Dio lontano.

Il Signore non agisce da taumaturgo, perché vuole operare attraverso l'uomo e rivelargli così il senso della sua esistenza, la sua capacità di fare il bene. Così Gesù stesso dovette imparare dalla solitudine del deserto il senso della sua vita. Doveva sì «occuparsi delle cose del Padre», cioè salvare l'umanità, ma come? La salvezza era forse sfamare tutti gratuitamente e rendere così gli uomini schiavi del miracolo? Stupire la gente con prestazioni miracolistiche, buttandosi dal pinnacolo del tempio?

Gesù invece capisce che, per salvare l'umanità, le deve prima ridare fiducia in se stessa, farle capire che la Parola del Signore indica in ogni evento la strada che ognuno deve poi inventarsi per camminare verso la propria identità di figlio del Padre.

Il Risorto introduce l'umanità nella libertà, consegnandole il suo Spirito. Con la Pasqua, è ormai dal di dentro dell'essere umano che Dio ispira, dona forza, si rivela attraverso le qualità e i limiti di ciascuno. Il volto unico di Dio che ognuno incarna è la sua identità.

Finché uno si definisce attraverso le sue relazioni, le occupazioni, il lavoro, la famiglia, la religione, investe la sua identità sull'esterno. Dipende da ciò che non è lui. La risurrezione invece chiama tutti a investire su di sé, a trovare dentro di sé le risorse per dare senso alla propria esistenza.

Non è egoismo, anzi. Appena l'uomo scopre di partecipare dell'Essere, che è Vita, Bene, Verità, diventa anche lui bene che si diffonde, verità che libera, esistenza unica e preziosa davanti a Dio e agli uomini. I propri limiti li vede nella tenerezza di Dio stesso, e diventa così pronto a scoprire in quelli degli altri la potenza del Risorto che, come dice Paolo, si manifesta nella debolezza. Non ricerca più, come il bambino, il senso della sua esistenza nell'approvazione altrui bensì nella consapevolezza della sua preziosità: non è più schiavo dello sguardo ma cammina verso se stesso per realizzare il bene dell'altro, per partecipare alla salvezza del mondo.

Investire su di sé, ecco la scommessa per diventare liberi, nella consapevolezza insieme della propria pochezza e dell'immensità della Vita che la anima.
  • Emmanuelle Marie
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun mag 14, 2007 11:37 am

      • Se si diventa quello che si mangia...
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  • Andare a fare eucaristia significa ricevere Cristo nella propria vita, per vivere con lui e a suo modo la giornata o la settimana.
Un amico scettico mi riproponeva recentemente l'obiezione dei farisei, quando il Signore affermava: «Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6, 51). Come puoi credere, mi diceva, che nella comunione si mangi e si beva il corpo e il sangue di Cristo? Siamo nell'anno che il Papa ha voluto consacrare all'eucaristia e alla fine di questo mese ricorrerà la festa del Corpus Domini. Proviamo dunque a cogliere l'incidenza di questo sacramento nella nostra vita.

Gesù ha istituito l'eucaristia durante un banchetto festivo. Si diventa quello che si mangia. Cristo si è dato da mangiare, perché l'uomo diventasse Dio. Il culto eucaristico ha patito le conseguenze della Controriforma, che ha enfatizzato l'adorazione dell'ostia a scapito del pasto. Giovanni XXIII aveva desiderato, durante il concilio Vaticano II, che fosse soppressa l'elevazione, istituita dal concilio di Trento in risposta all'affermazione luterana che negava la presenza reale oltre la messa. Il Papa buono voleva che si ritrovasse la dimensione della Passione e Risurrezione partecipata e assorbita dal fedele, in modo da affievolire una devozione troppo materializzante della presenza di Gesù nella particela e nel tabernacolo.

Dio vuole unirsi alla sua creatura. È proprio questo desiderio frainteso dall'uomo che lo aveva spinto, nel racconto della Genesi 3, a «mangiare il frutto» per «diventare come Dio». Alla vigilia della sua morte, il Signore si dà da mangiare ai suoi, per renderli partecipi del suo essere insieme umano e divino. Il gesto materiale di mangiare e bere è significante di una realtà spirituale, che opera secondo la fede di chi lo attua.

Gesù desidera proseguire la sua totale adesione al disegno del Padre attraverso chi crederà in Lui. Sa che sarà ucciso, non per volere di Dio bensì perché l'uomo non accoglie il suo modo di rivelare il Padre; vuole quindi che i suoi continuino, attraverso la loro vita concreta, questa rivelazione di un Dio che «vuole che tutti siano salvi», «che non vuole la morte del peccatore ma che viva». Ma conosce anche la debolezza umana. Al termine della sua vita terrestre, desidera infondere nei suoi la perfezione alla quale è giunto, «crescendo in sapienza, età e grazia» (Lc 2, 51) attraverso mille prove.

Ascoltare la sua Parola, nella prima parte della messa, significa appropriarsi della sua mentalità. Viene poi il momento della consacrazione, in cui il Signore si rende presente in modo «vero, reale e sostanziale» (concilio di Trento, Sessione XIII, Sul sacramento dell'Eucaristia, 4), per poter essere mangiato, assorbito, e così trasformare chi lo riceve in se stesso. Giovanni, nel racconto della Passione, non parla della cena ma della lavanda dei piedi, come per ricordare che l'Eucaristia ha senso solo se chi la riceve fa suo l'atteggiamento del Signore, servo dei fratelli. Tonino Bello ha insistito sulla «Chiesa del grembiule», una Chiesa fedele al suo Maestro, che cinga il grembiule dello schiavo, per compiere i gesti più umili dell'amore.

Pia era depressa. Le sembrava che non sarebbe mai riuscita a dare valore alla sua esistenza di disoccupata. Un amico sacerdote le consigliò di andare spesso a Messa: «La vita si alimenta - disse - vai a rifocillarti!». Dopo alcune settimane, trovò un lavoro e incontrò persino l'uomo della sua vita. Andare a fare eucaristia significa ricevere Cristo nella propria vita, per vivere con lui e a suo modo la giornata o la settimana.

Gesù, Dio «salva», è venuto a insegnare a tutti la via giusta, quella del dono di sé, del perdono radicale, che consiste nel ripetere, di fronte ad ogni malvagità: «Non sanno quello che fanno». Ricevere il Signore nell'eucaristia è mangiare la sua comprensione della fatica quotidiana, è trovare in questo cibo la forza di vedere il Bene all'opera in ogni situazione, è credere che il Signore vive ogni momento con chi lo riceve.
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun giu 04, 2007 2:59 pm

      • Gesù Cristo, umanamente uno sconfitto
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  • La guerra fa paura. La tentazione è quella di sentirsi impotenti, arrabbiati contro i potenti. Eppure...
Gesù ha spesso invitato a fidarsi del Padre, che sa di che cosa abbiamo bisogno. «Non temete quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l'anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l'anima e il corpo nella Geenna» (Mt 10,28), affermava, alludendo al male, sempre in agguato per insinuare nei cuori la diffidenza e così precipitare l'uomo lontano da Dio.

L’illusione di potersi salvare da soli è la miopia che fa temere la morte come se fosse la fine di tutto. I tempi turbati come il nostro sono un invito a entrare nella vocazione cristiana, che si fonda sulla morte e risurrezione di Cristo, vocazione a testimoniare della presenza del Padre, sempre all'opera. Dio non è sconfitto dal male, semmai il suo disegno di salvezza è ritardato dalla diffidenza dei credenti, che si comportano come se il Bene si limitasse a questa vita.

Tradizionalmente, il mese di giugno è consacrato al Sacro Cuore. È una devozione che, forse, oggi sembra obsoleta, solo perché è stata, appunto, presentata come devozione, mentre si tratta del fondamento stesso della nostra speranza.

«Dio ha tanto amato il mondo» da fare l'impossibile per rivelare il suo amore agli uomini, ingannati dai beni a portata di mano, mentre tutto quello che appartiene a questa vita non è la verità, ne è solo il simbolo. Il successo reale è la concretezza dell'amore nel quotidiano, quello che spinge a sconfiggere la preoccupazione di mancare per condividere con gli altri. La vera vittoria non è quella delle armi, bensì la fede nella vita che non può morire.

Il Padre ha mandato suo Figlio per insegnarci che, anche se uno sembra sconfitto dal male, come Gesù sulla Croce, è vittorioso della morte stessa e del male, attraverso il perdono invocato sulla Croce per tutti.

Meditare, durante questo mese, sull'amore di Cristo è proprio entrare nella consapevolezza che solo il dono di sé, la fiducia nella Presenza del Padre nel cuore di ogni vita, può sconfiggere la violenza.

Nel libro della Genesi (cap. 32), Giacobbe, dopo aver lottato per un'intera notte con l'Angelo del Signore, capisce che, nonostante il suo terrore di essere ucciso da suo fratello Esaù, del quale aveva rubato con furbizia il diritto di primogenitura, deve affrontare l'incontro. Appena lo vede arrivare con quattrocento uomini armati, si prostra sette volte davanti a lui, come era l'uso davanti al santuario di Dio. Durante la sua lotta con l'Angelo, la notte precedente, Giacobbe aveva capito che se era stato benedetto, nonostante la sua coscienza gli rimproverasse le sue numerose disonestà, la stessa benedizione del Signore riposava anche sul suo fratello nemico. Contro ogni attesa, «Esaù gli corre incontro, gli si getta al collo, lo bacia e tutti e due piangono» (Gn 33, 4).

La preghiera più efficace per la pace non sarebbe forse quella di prostrarci interiormente davanti ad ogni nemico nella vita quotidiana, ossia di sostituire l'aggressività contro tale o talaltro che ci ha fatto un torto, con l'adorazione di fronte alla Presenza del Padre in questa persona? Non sarebbe il miglior modo di riconoscere che contribuiamo, con le nostre piccole violenze a quella in atto nel Golfo, mentre il Signore aspetta da noi che ci prostriamo nella preghiera sette volte di fronte ad un Saddam Hussein e ad un Bush, anche loro suoi figli amati?

La Presenza di Dio, Padre di tutti, abita anche nei personaggi più violenti: il miglior modo di vincere la guerra è certamente di sconfiggere ogni violenza nel nostro quotidiano, anche nei pensieri contro i belligeranti. Il Sacro Cuore ci invita a invocare, anche noi, il perdono del Padre su tutti, consapevoli che la guerra è la conseguenza delle rivendicazioni che alimentiamo nel nostro cuore.
  • Emmanuelle Marie
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun giu 11, 2007 2:05 pm

      • La forza dell'Eucaristia
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  • Il gusto delle cose di Dio, il sapore della gratuità nelle relazioni umane, infondono nel cuore una serenità che niente può turbare, anche se è fragile e scompare spesso nelle fatiche quotidiane.
Quest'anno, la festa di sant'Antonio di Padova segue di poco quella del Corpo del Signore. In un sermone (II dopo la Pentecoste), Antonio scrive: «La sapienza, così chiamata da sapore, appaga e sazia completamente, mentre il piacere lascia il vuoto. La sapienza procura dolcezza, il piacere lascia l'amarezza. Chi serve la sapienza è libero, chi serve il piacere è un misero schiavo».

Nel linguaggio odierno, si potrebbe dire che il gusto delle cose di Dio, il sapore della gratuità nelle relazioni umane, infondono nel cuore una serenità che niente può turbare, anche se t fragile e scompare spesso nelle fatiche quotidiane. Il «piacere» invece è quel godimento egoista che cerca in tutto il proprio tornaconto, diffondendo dinamiche negative di invidia, di violenza, di risentimento, di rivalità.

Abbiamo tutti bisogno di piaceri, e sant'Antonio non voleva certo togliere ai fedeli la gioia delle cose che addolciscono la vita. C'è anzi un dovere di farsi star bene, altrimenti si rischia di trasmettere attorno a sé il malumore e la tristezza. Solo l'amore fa star bene, solo il piacere condiviso o costruito con gli altri ha senso. Ma l'amore è il più delle volte frainteso: tutti cercano nell'altro atteggiamenti compensatori rispetto alle fatiche dell'esistenza o gratificanti per supplire ai propri limiti.

Nel momento in cui Gesù istituisce l'eucaristia, dopo essersi fatto il servo che lava i piedi dei commensali, afferma: «Come il Padre ha amato me, così ho amato voi, rimanete nel mio amore. Amatevi gli uni gli altri» (Gv 15, 9). La parola greca agape, usata dall'evangelista, è un vocabolo riservato all'amore che viene da Dio.

Per questo Gesù aggiunge che da «un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 34s.). L’agape non è, quindi, alla portata dell'uomo senza la presenza in lui di Dio stesso. È l'amore che nasce nell'uomo quando accoglie l'azione di Dio in un cuore sgombro dalla ricerca di un affetto totalizzante, che farebbe dell'altro un idolo. È il dono della vita stessa di Dio diffusa nell'uomo, che nessuno può procurarsi neanche con sforzi e sacrifici. È l'unico affetto che meriti il nome di amore, perché è puro dono all'altro, attento al suo vero bene, nel rispetto della sua libertà.

L'eucaristia è il frutto dell'amore infinito del Padre, efficiente in Cristo. È l'offerta, attraverso un cibo semplice: pane e vino, della vita divina offerta all'uomo. Valeria era stata costretta, in collegio, ad andare a messa ogni mattina, fino a provarne come un'indigestione. Adulta, cercava di vivere la sua fede in modo coerente, ma poco a poco la sua vita era diventata scialba, non trovava più senso nelle cose che faceva.

Un amico prete, al quale si apriva di questo disagio, le chiese se partecipasse regolarmente all'Eucaristia. Davanti alla sua risposta negativa, la incoraggiò a tornarvi, anche se le prediche le davano fastidio, anche se non sentiva nulla, anche se le sembrava di piegarsi a un rito apparentemente vuoto e senza senso.

Seguì il consiglio e, per sua meraviglia, pur distratta e spesso incapace di pregare durante la messa, s'accorse che le sue giornate erano diverse, ritrovavano colore di vita. Non era magico: la sua fede nel partecipare al Dono di Cristo permetteva alla Vita divina di irrigare la sua esistenza. Accoglieva pienamente l'azione di Dio e così le consentiva di aprirle il cuore, perché potesse scorgere i doni seminati lungo la giornata, negli incontri e persino nei suoi limiti.
  • Emmanuelle Marie
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun giu 18, 2007 10:45 am

      • Cara, benefica collera
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  • Quando Giuseppina capì che aveva represso la sua rabbia contro suo padre e piangeva per farsi voler bene, sfociò in lei una tempesta d'ira contro tutti. E si sentì liberata.
L'ira fa paura. La mia e quella degli altri. Come la tempesta, il terremoto, il temporale. È temibile, perché vietata sin dall'infanzia, ma più spaventosa ancora quando non è diretta contro altri, perché si riversa contro se stessi. Quale bambino non ha accumulato dentro di sé moli di collera, repressa dalla paura di non essere più amato? Adulto, trascinerà una vita amareggiata, triste, malaticcia, perché l'aggressività, che non ha potuto manifestarsi, divora ogni possibilità di felicità.

Giuseppina, sessant'anni, era depressa da molto tempo. Piangeva e s'innamorava spesso dei preti. Amori impossibili, ai quali attribuiva la sua malinconia. Durante un corso di esercizi spirituali, si rivide a quattro anni. Suo padre lasciava la casa per andare a vivere con un'altra donna del paese e sua madre, che stava stendendo la biancheria nel giardino, piangeva. La bambina pensò: «Ora, la mamma non potrà più volermi bene, perché papa non l'ama più». E, per ritrovare l'affetto materno, si mise a piangere, per fare come la mamma. Giuseppina capì allora che, da quando aveva quattro anni, aveva represso la sua rabbia contro suo padre e piangeva per farsi voler bene. A questo punto, sfociò in lei una tempesta d'ira contro il padre, la madre, tutti. Questa collera segnò l'inizio della guarigione. La violenza, quando non colpisce l'altro, corrode la psiche. Come Giacomina, che non riusciva a sposarsi, perché se fosse stata felice, avrebbe dato ai genitori la conferma di aver dato l'educazione giusta. Preferiva infliggere questa punizione ai suoi, piuttosto che concedersi la propria realizzazione.

L'aggressività è forza vitale, che permette di mangiare, di camminare, di studiare, di lavorare. L’educazione insegna a temerla, mentre è solo da orientare nel modo giusto.

Un giovane sacerdote cappellano in carcere, andava la sera a visitare le famiglie dei detenuti. Quando tornava tardi a casa, apriva la chiesa e urlava la sua collera davanti al Signore, per tutte le ingiustizie di cui questa gente era vittima. Insultava persino Dio, ben consapevole che queste bestemmie erano le grida di una fede incrollabile nel dolore del Signore che, come lui, era adirato di fronte al male. Queste strane preghiere gli permettevano di essere, durante la giornata, un uomo dolcissimo, sempre sorridente.

La collera si deve esprimere, senza essere devastante per gli altri. Non serve la violenza, che suscita altra rabbia e ulteriori ingiustizie, ma è necessaria la presa di coscienza dei danni subiti e della ribellione repressa che continua a distruggere finché non si sente accolta.

L'aggressività soffocata è la radice dei soprusi, della menzogna per farsi avanti, della legge della giungla, mentre è la forza vitale chiamata a diventare mitezza, relazione aperta, e soprattutto cura di sé, della parte profonda rimasta bloccata. Il Signore ha dato spazio all'ira più volte, mai contro le persone, ma per confondere l'ipocrisia, che teneva prigionieri della loro superbia i notabili del tempio e schiacciava il popolino.

Ebbene, la superbia è anch'essa frutto di rabbia addormentata, che si vendica nell'opprimere l'altro. Una volta riconosciuta come rivincita, si trasforma in umile considerazione del male fatto e in comprensione del limite di chi ha suscitato le collere mute dell'infanzia.

Ogni moto d'ira è un invito a prendersi cura di sé, delle antiche ferite, per abbandonare poi i comportamenti che danneggiano la propria vita. Chi perde tempo e se ne vergogna, facilmente fa pagare a se stesso la severità degli educatori che non gli lasciava lo spazio del gioco. Chi beve, mangia troppo o niente, si distrugge con la stessa rabbia che esperiva nel non sentirsi amato o riconosciuto dai genitori. Se oggi, da adulto, riesce a dar diritto di cittadinanza alla sua ira, potrà perdonare a chi ha suscitato e vietato la sua collera e liberare preziose forze vitali.
  • Emmanuelle Marie
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun giu 25, 2007 10:42 am

      • E Cinzia si riscoprì creatura nuova
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  • La forza, la luce, la sicurezza di Dio ci sono sempre offerte, ma il Signore rispetta la nostra libertà: bisogna allora aprirgli la porta della nostra vita.
Giugno, mese segnato da tante feste che riassumono l'itinerario cristiano. La Pentecoste, con la certezza della presenza dello Spirito nel cuore di ogni battezzato, introduce nel seno della Trinità, come nella famiglia più sicura e amorosa. La festa del Corpus Domini, che attualizza la Cena del giovedì santo, incorpora il cristiano a Cristo e lo alimenta della vita divina. Infine, la festa dei Santi Pietro e Paolo ricorda l'appartenenza alla Chiesa, voluta dal Signore sul fondamento degli apostoli.

È un mese in cui possiamo chiederci come l'essere credenti si rifletta nel quotidiano. Parlando ultimamente con un'amica di alcune difficoltà che incontravo con il mio temperamento, lei mi rispose che io forse non credevo nella potenza di Gesù Cristo in me, che mi aveva già trasformato. Continuavo - affermava - a credermi segnata da eventi passati, mentre la forza del perdono e l'azione purificatrice dello Spirito mi avevano guarito.

Mi è venuto in mente il passo di Paolo dove afferma: «Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose di prima sono passate, ne sono nate di nuove!» (2 Cor 5, 17). Ho capito, infatti, che vivevo come se non fossi stata rigenerata dalla partecipazione ai sacramenti, che realizzano oggi gli stessi gesti di guarigione, di perdono, che Gesù compiva sulle strade della Palestina.

Spesso, infatti, abbiamo capitò la radice di certe reazioni, abbiamo anche perdonato chi ne è stato la causa, e nonostante questa presa di coscienza, ricadiamo nelle vecchie abitudini, come se fossimo ancora determinati da vecchie ferite. Manca la fiducia nell'azione redentrice dello Spirito.

Uno può essere timido, bloccato al punto da non poter utilizzare la propria intelligenza, nonostante evidenti successi universitari e lavorativi. Forse è stato ferito da una maestra, che gli ha detto che non era capace di seguire le lezioni, e così si vieta di pensarsi in grado di affrontare il quotidiano o il contatto con gli altri. Se ha perdonato la persona che lo ha bloccato da bambino, perché non credere che la forza dello Spirito lo aiuta oggi a superare la sua timidezza?

Un altro, segnato da un padre autoritario, ha forse preso l'abitudine di ricorrere a chi ha autorità per fare le sue scelte. Se riconosce che è figlio dell'unico Padre, è in grado di deliberare da solo sul da farsi, perché trova la sicurezza nella Presenza della Trinità nel suo cuore.

Cinzia era sempre stanca. Aveva avuto un'infanzia difficile che l'aveva costretta a usare molta energia al fine di controllare tutto, per soffrire meno. Una lunga terapia psicologica l'aveva aiutata a liberarsi del suo passato, ma la fatica l'accompagnava ancora. Cominciò a partecipare all'eucaristia anche durante la settimana, quando lo poteva fare. Le venne l'idea di chiedere nella comunione che il vigore di Cristo nutrisse la sua debolezza, e a poco a poco s'accorse di non temere più le fatiche. Un giorno, scoprì sorpresa che aveva fatto jogging con un'amica senza essersi fermata prima della sua compagna, come succedeva di solito.

La forza, la luce, la sicurezza di Dio ci sono offerte costantemente. Tuttavia, il Signore rispetta la nostra libertà. Bisogna aprirgli la porta della nostra vita, secondo la promessa dell'Apocalisse 3, 20: «Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui». Personalmente, sono rimasta bloccata per molti anni nello scrivere, anche se pubblicavo libri e articoli, perché mia madre aveva spesso criticato i mei compiti. Ho preso l'abitudine di aprire al Signore la porta del mio lavoro e, a poco a poco, è scomparso il terrore della pagina bianca.

Il Padre opera sempre, ma non in modo magico. Molti cristiani lamentano di non avere il tempo di pregare. Fare entrare il Signore in tutto quello che viviamo è il miglior modo di pregare sempre.
  • Emmanuelle Marie
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun lug 02, 2007 4:16 pm

      • Eucaristia, icona della condivisione
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  • E noi abbiamo fatto della messa un rito, un precetto, una cerimonia svuotata di senso, un susseguirsi di gesti e parole incomprensibili e magiche...
La condivisione non è solidarietà. Ogni essere umano è naturalmente solidale: fa parte dell'istinto vitale. È il fondamento della famiglia, del patriottismo, di ogni appartenenza a qualsiasi gruppo. D'altra parte, di fronte a qualcuno che soffre, l'aiuto dato viene spesso dal riflesso di sé che uno vede nell'altro: la persona ferita, triste o inferma rivela a chi la vede quale potrebbe essere la sua sorte e scatta istintivamente il bisogno di soccorrere come si vorrebbe esserlo in tali circostanze. Molte azioni apparentemente generose nascono da questo sentimento di solidarietà. Il volontariato può, talvolta, trovare in esso la sua fonte, ingannando chi, credendo di dedicarsi agli altri, risponde, invece, a una pulsione rivolta a se stesso.

La solidarietà è senz'altro ciò che l'uomo, lasciato ai suoi soli sentimenti, può dimostrare di meglio, ma non è ancora condivisione. Negli anni 70, sono nate in Italia molte comunità per giovani di strada. Si parlava di condivisione. Erano gruppi dove, talvolta, era persino difficile individuare l'operatore rispetto al ragazzo in difficoltà e questo appariva come la massima condivisione. Alcuni anni dopo, quando uscì la legge sulle cooperative, queste comunità si organizzarono, stipendiarono gli ex volontari.

Di passaggio in uno dei loro laboratori di lavoro, ritrovai alcuni ragazzi che avevo conosciuto prima. Ma la grinta e l'allegria di una volta erano scomparse; chiesi loro che cosa fosse successo. «Non è più come all'inizio - risposero - perché i rapporti tra noi e gli operatori sono cambiati. Non siamo più alla pari, loro sono pagati per occuparsi di noi, la comunità è ormai un'azienda e conta forse più il rendimento della persona».

In realtà, nessuno era cambiato, la stessa generosità animava gli operatori, la comunità si era allargata per offrire un sostegno a più ragazzi, ma, inevitabilmente, anche le spese erano aumentate e bisognava dare più stabilità a chi faceva funzionare tutto. La condivisione si sgretolava per mostrare il suo vero volto, quello della solidarietà.

Quando Dio creò l'uomo, gli offrì la terra e tutti i suoi beni: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino»(Gn 2, 17), da spartire con tutti. Il disegno del Creatore era rendere l'uomo simile a Lui stesso mediante la felicità, che nasce dal condividere il proprio bene. L’uomo, invece, s'impadronisce in genere del frutto della vita, lo vuole per sé e il male emerge così nella storia.

Il Creatore voleva un'umanità di condivisione, dove non ci sarebbero stati poveri e dove tutti sarebbero cresciuti nel rispetto dell'altro e dei suoi bisogni. La disobbedienza a questo disegno di Dio ha sconvolto l'ordine universale: non ci prepariamo forse a un'apocalisse cosmica che non verrà dal ciclo bensì dalla sete d'accaparramento che crea squilibri climatici micidiali?

Cristo è venuto a salvare il mondo attraverso la sua obbedienza al Padre. Quando moltiplica i pani, riporta l'umanità al disegno del Creatore: condividere il poco per nutrire tutti. Ci dà la chiave di quel segno nel benedire Dio prima di spezzare il pane, come per affermare che ogni bene viene dal Padre, che da gratuitamente a tutti. Questo gesto si ripete a ogni eucaristia, come per indurre i cristiani a benedire Dio, fonte di ogni bene, sempre e per tutto.

Cosa abbiamo fatto della mensa, della messa? Un rito, un precetto, una cerimonia svuotata di senso, un susseguirsi di gesti e parole incomprensibili e magiche, mentre l'eucaristia è realmente un momento di salvezza e insieme la chiave di una relazione di condivisione tra tutti. «Fate questo in memoria di me», spezzate il vostro pane con l'altro e la terra sarà salvata dall'ingiustizia; lavatevi i piedi gli uni agli altri, cioè rinunciate a farvi padroni dell'altro, e il mondo diventerà il Regno di pace.
  • Emmanuelle Marie
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun lug 09, 2007 10:36 am

      • Ferie, un'occasione per ritrovarsi
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  • Le ferie potrebbero essere, nella distensione e nel riposo, il tempo pensoso in cui ricostruire la propria vita, ricomporre le relazioni dentro di sé, in modo da riannodarle, al rientro, nella verità e nella libertà.
Tempo di ferie, di riposo, ma spesso si ritorna più stanchi di prima. Tempo di vacanza, di tempo libero, in cui ascoltare le proposte della vita, cui durante l'anno non si osa prestare attenzione e ripercorrere la propria storia per chiarire i nodi, che ostacolano la serenità e le relazioni.

Carla aveva fatto una lunga psicoanalisi e stava bene. Poi, un trasferimento in un'altra città la trovò impreparata. Le sembrava improvvisamente che la sua esistenza non avesse più senso. Ritornò da un'analista. Le sedute si succedevano, lei, sul divano, parlava mentre la psicologa freudiana non diceva quasi niente, appena una parola alla fine: una provocazione brevissima che la sconcertava, ma poi scopriva di stare sempre meglio. Il tempo che dedicava ogni mattina alla meditazione maturava la sua comprensione, illuminando il disorientamento provato dalla breve frase dell'analista. A un certo punto, percepì che la preghiera poteva essere quel dialogo con lo Spirito nel quale ripercorrere la propria storia, parlandogli dei dolori, in cui si originava il suo attuale disagio. La sua meditazione si riempì delle sue collere represse da bambina per non rincorrere la perdita dell'amore materno, mentre si chiudeva nello stupore del costatare che il Signore stava dalla sua parte. Una mattina seppe che la sua esistenza stava nelle sue mani, mentre finora era rimasta vittima sconsolata, che si rovinava nell'obbedire a sua madre attraverso tutte le persone che le chiedevano una cosa, vendicandosi poi su se stessa nel colpevolizzarsi. Non ebbe più bisogno delle sedute. Le continuò ogni giorno con il Signore, che la illuminava con dolcezza.

Le ferie potrebbero essere, nella distensione e nel riposo, il tempo pensoso in cui ricostruire la propria vita, ricomporre le relazioni dentro di sé, in modo da riannodarle, al rientro, nella verità e nella libertà. Spesso infatti gli screzi, che attribuiamo agli altri - i quali hanno certamente la loro parte - vengono dall'attesa infantile che riportiamo sulle persone. Carla non sapeva dire di no, e poi si lamentava per l'incomprensione del marito, dei figli, dei colleghi, senza vedere che rimaneva prigioniera della sua storia con un madre autoritaria.

La preghiera fa spesso paura, perché la noia invade chi aspetta ciecamente che il Signore parli. In realtà, è un momento in cui uno si rivivifica, che si può fare nella passeggiata o nel riposo sulla spiaggia. Ognuno è un'immagine unica di Dio, che costituisce il suo essere vero. Tuttavia, questa immagine resta seppellita sotto le ingiunzioni dell'educazione ricevuta, della società nella quale si vive.

La tristezza, l'ira, persino certi malesseri fisici, sono reazioni contro queste abitudini mentali, che non appartengono all'essere vero. Guardare queste negatività nella certezza che lo Spirito, più intimo a noi di noi stessi, capisce tutto quello che si muove in noi, apre spazi di libertà.

Dio abita in una stanza segreta, che non apriamo mai, perché la ignoriamo, e ci lamentiamo che non ci venga in aiuto. La chiave di questa porta, però, è nelle nostre mani. Se non la spalanchiamo, il Signore è come prigioniero della nostra ignoranza e non può manifestarsi.

Prima Carla credeva di pregare perché in ogni circostanza si sforzava di lodare Dio. Le sue meditazioni l'avevano invece messa a contatto con Cristo, che viveva in lei il suo inferno, ma non aveva potuto soccorrerla, fintantoché si presentava a lui nelle belle vesti della lode anziché raccontargli i suoi dolori per riceverne consolazione e soluzione. La sua meraviglia fu grande nello scoprire che, da quando ogni giorno prendeva il tempo di ripercorrere con il Signore il suo vissuto, anche attorno a lei le persone stavano meglio. Persino il marito, disoccupato, ritrovò un posto di lavoro.
  • Emmanuelle Marie
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Messaggio da miriam bolfissimo » lun lug 16, 2007 10:58 am

      • A generale richiesta: santo, subito!
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  • Gli striscioni che richiedevano l'immediata beatificazione di papa Wojtyla hanno fatto arricciare il naso a più di un cardinale ligio al Codice. Benedetto XVI invece...


Gli striscioni che chiedevano: «Santo subito!» il giorno del funerale del Papa in piazza San Pietro ricordavano le canonizzazioni dei primi secoli per acclamazione popolare. Alcuni cardinali, ligi al diritto ecclesiale, che esige un lasso di cinque anni prima di parlare di fare del defunto un santo, vedendoli ondeggiare sotto il vento di quel giorno, arricciarono il naso. Ed ecco che quarantadue giorni dopo la morte di Giovanni Paolo II, il 13 maggio 2004, Benedetto XVI annunciava l'apertura del processo per la sua beatificazione.

La santità, che cos'è? Nessuno è santo se non Dio. La stessa cosa dicasi dell'amore: nessuno può affermare di amare, se non l'Amore infinito, il Dio Trino. Quindi, solo chi vive nella consapevolezza della presenza in sé del Signore Santo e Amoroso effonde attorno a sé un alone di santità e d'autentico amore. Non per questo l'uomo sfugge ai propri limiti. Anche Giovanni Paolo II ha fatto errori, ha valutato alcune cose secondo l'ottica sua, legata al suo ambiente nativo, alla sua storia.

Non è stato santo per le sue notevoli doti di protagonista dei mass media, capace di attirare folle oceaniche. Le pop star sono, anche loro, capaci di riempire stadi e piazze.. La sua santità è come scoppiata negli ultimi giorni della sua esistenza, ma era cresciuta attraverso le tre lunghe ore quotidiane consacrate alla preghiera, la sua costante tensione verso la dimensione spirituale, la fede con la quale adempì il suo compito. La santità è come il fiore che cresce lungo una vita per dare alla fine il frutto sorprendente di una totale trasparenza alla presenza del Signore nei gesti, nelle parole o nel silenzio della persona.

La parola «santo» in ebraico significa «separato». Separato dai costumi dell'uomo esteriore. Poco a poco, Giovanni Paolo II ha dovuto consentire a lasciare il suo modo di fare il vicario di Cristo, persino la capacità di parlare, per calarsi nei costumi divini di Cristo stesso, che ci ha salvato nel silenzio e l'umiliazione della croce.

Il nostro mondo muore di fame spirituale. Ha bisogno di modelli nuovi, che dimostrino la potenza di Dio in chi resta, in ogni circostanza, in ascolto interiore del Vangelo, senza pretendere alcuna efficacia, perché lascia che sia il Signore ad agire a modo suo attraverso i suoi limiti di creatura. Non ha bisogno, la nostra società, di clamorosi miracoli né di raduni giganteschi, dopo i quali, nonostante il Papa avesse parlato di morale sessuale, il campo rimaneva sporco di preservativi e di siringhe.

Forse, nelle sue ultime settimane, Giovanni Paolo II ha trasmesso maggiormente il messaggio del Signore che non durante il suo lungo pontificato. La sua impotenza fisica, il suo silenzio forzato, erano carichi di una forza più convincente dei suoi più bei discorsi o encicliche. Era un vecchio muto, che tuttavia voleva salutare la gente che si era spostata in piazza San Pietro per vederlo. Per vedere un volto sfigurato, nel quale traspariva quello del Padre eterno, nell'umile consenso alla fatica quotidiana, in una speranza ostinata.

Il mondo vive nella superficialità. Chi critica il papato e l'istituzione lo fa dal pulpito dell'esteriorità. La via della santità è quella della quotidianità anonima, di una preghiera costante, che è semplice apertura del cuore alla presenza dello Spirito, guida nei più piccoli particolari della giornata verso la comprensione del senso profondo dell'emozione, dell'evento, della richiesta del prossimo. È fiducia sconfinata nell'amore, che accompagna ogni essere umano lungo l'esistenza con la parola sommessa, che si fa breccia in fondo al cuore per dare significato anche alle situazioni più assurde e dolorose, un significato di salvezza attraverso il perdono, l'accoglienza radicale quanto quella del Padre per i figli prodighi e pentiti.
  • Emmanuelle Marie
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun lug 23, 2007 1:19 pm

      • Santità è ascoltare i desideri profondi
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  • Se la via della santità appare faticosa, è solo perché ci lasciamo prendere da desideri che non sono nostri, che si piegano a quelli della moda, degli altri.
Luglio, agosto, mesi di ferie, di distensione, di riposo, di rinnovamento. Questo tempo, anziché una parentesi nella vita di fede, può diventare un'opportunità per crescere nella vita spirituale.

Quarant'anni fa, il Concilio Vaticano II lanciava una grande novità: tutti sono chiamati alla santità, non solo i mistici, i religiosi, ma tutte le persone «in qualsiasi situazione di vita o luogo» (Lumen Gentium 40). Il ruolo dei laici nelle parrocchie, nelle diocesi, nella liturgia è stato riconosciuto, ma la santità continua forse a essere considerata come una via eccezionale, riservata ad alcuni eletti. Appare ancora come via caratterizzata da sofferenze, rinunce, divieti, in pratica non percorribile dalla gente comune, presa da tante altre cose.

Che cos'è la santità? Che cosa Dio si aspetta dai suoi figli? La storia di Caino rivela quanto il dialogo con la voce interiore dello Spirito spinga l'essere umano a diventare fedele a se stesso, al suo vero desiderio. Caino sembra anelare solo al gradimento divino di cui gode il fratello, mentre il Signore, quando gli chiede perché è irritato, cerca di farlo approdare al suo desiderio. Caino, però, è incapace di entrare in contatto con se stesso. Guarda agli altri, vuole quello che loro hanno, ma non sa che cosa veramente lo potrebbe realizzare.

Non capisce che ognuno è unico, e di conseguenza porta un desiderio unico. Il male viene da questo equivoco. È infatti difficile percepire dove tende la nostra aspirazione, abituati come siamo dall'infanzia a piegarci al volere degli altri. Gesù nel Vangelo chiede costantemente a chi gli domanda la guarigione: «Che cosa vuoi»?, come se il suo principale interesse fosse quello di destare il vero desiderio nascosto dietro la preoccupazione della salute.

Il Padre, dunque, è innamorato del desiderio dell'uomo. Molti fanno fatica a pregare nel Padre nostro il versetto: «Sia fatta la tua volontà», perché pensano che questa si opponga alle loro attese. Invece la sua volontà è proprio la realizzazione piena della creatura. Se la via della santità appare faticosa, è solo perché ci lasciamo prendere da desideri che non sono nostri, che si piegano a quelli della moda, degli altri. Per questo la gente è sempre più inquieta, la famiglia si disgrega, la fatica quotidiana appare più pesante.

Anche per i più fedeli ai sacramenti, Dio resta spesso ai margini delle faccende quotidiane, mentre il Vaticano II aveva invitato i cristiani ad aprire ogni ambito della vita al soffio dello Spirito, per illuminare il mondo con una testimonianza autentica. La pausa estiva si offre quindi come opportunità per far entrare Cristo nei dinamismi della nostra esistenza concreta, in modo che egli possa raggiungere, attraverso gli atteggiamenti e le scelte che suggerirà, la gente che incontreremo. «Sto alla porta e busso» (Ap 3,20). Nel nostro intimo Dio è come rinchiuso, inutile, mentre ci dibattiamo nelle fatiche quotidiane, senza aprirgliene la porta.

Viviamo come orfani, mentre abbiamo un Padre nascosto nella nostra umanità, pronto a trasfigurarla, a ispirarci la parola e il gesto adeguati. È necessario aprire a Dio non solo la nostra giornata nel suo insieme, ma ogni momento di essa: dalla nuotata in mare alla passeggiata, dalla gita al divertimento serale con gli amici. E questa la chiave della santità: Dio che alimenta continuamente la sua Vita in ogni credente, permettendogli di rendere autentica la propria esistenza.

Quale tipo di distensione speriamo? Quale vacanza colmerebbe la nostra attesa? Perché non fare delle nostre vacanze un'esperienza di quella santità, offerta a tutti, che inizia con l'ascolto del proprio desiderio, il quale esprime l'immagine unica di Dio che ognuno è? Perché non spalancare il cuore in ogni momento allo Spirito, affinché ci orienti alla fedeltà al nostro vero desiderio? La santità è liberante. È l'attualizzazione del battesimo, l'ingresso nella vita nuova dove ognuno può essere se stesso.
  • Emmanuelle Marie
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun set 10, 2007 4:50 pm

      • Un insegnamento che cambia la vita
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  • Battezzare i bambini, mandarli al catechismo, senza che la famiglia cambi il proprio modo di vedere, risulta vano, perché...
Settembre, è il tempo del rientro dalle ferie, dell'inizio della scuola, del catechismo. Quale educazione dare ai piccoli per farne degli adulti sereni e dei cristiani realizzati"?

«Ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo», aveva detto il Signore nel commiato definitivo agli apostoli, pur avendo affermato prima che sarebbe stato con l'umanità fino alla fine dei secoli. Il battesimo, quindi, è, innanzitutto un insegnamento da ricevere, capace di cambiare la vita.

La parola «battezzare» significa «immergere». Forse l'uso di questo termine greco, trasportato nella nostra lingua, ostacola la comprensione dell'ultima parola di Cristo prima di ascendere in ciclo. Che cosa intendeva ordinare agli apostoli? Forse un rito, lui che aveva tanto insistito sul culto in spirito e in verità? L’acqua del battesimo, nella quale il catecumeno o il neonato sono immersi, è un simbolo, che significa una realtà che necessita di un ammaestramento. Se questa iniziazione manca, l'energia contenuta nel rito rimane come assopita.

Un'amica mi scriveva, dopo aver letto un articolo in cui si parlava di riluttanza per le regole della pratica religiosa: «Quanto peso si da a cose che veramente sono del tutto secondarie per non vedere l'essenziale! Perché le Chiese non spiegano quella che io chiamo "la via mistica" e chiude queste disquisizioni una volta per tutte?». Risponderei che le Chiese non possono trasmettere quello che i singoli, le famiglie, non vivono, perché il Vangelo non è un sapere bensì un nuovo modo di concepire la vita, una liberazione, fonte di gioia imperitura.

«Ammaestrare» è, secondo Gesù, immergere il cristiano nelle tre persone che sono un solo Dio. L’acqua del battesimo è il simbolo di questa realtà incredibile: a tutti la vita persa da Adamo, la vita di Dio stesso, è offerta e la si ritrova quando ci si lascia immergere nell'amore del Padre per tutti. Il cristiano entra a far parte della realtà di Dio, cioè nell'amore, fonte di una gioia che supera i piccoli piaceri consumistici. Che cosa, infatti, può realizzare meglio la persona del trasmettere il senso della vita attraverso testimonianze d'affetto, di compassione, di perdono? Giovanna, profondamente cristiana, s'accorge, dopo vent'anni di matrimonio, che suo marito è psicotico e non riesce più ad amarlo. Tuttavia, pensa che è figlio del Padre, il quale glielo affida perché lo Spirito gli manifesti l'amore attraverso di lei. Poco a poco, anziché criticarlo, sente la compassione invaderla e il marito, che inconsciamente percepisce che non è più giudicato ma accolto così com'è, comincia a cambiare.

Si educano spesso i bambini e i giovani alla paura di mancare, alla competizione con gli altri, come se la vita fosse una giungla dove vince il più forte. «Non temere, piccolo gregge», affermava Gesù, perché tutto quello che succede penetra, attraverso il credente, nella comunione trini-taria, in cui lo Spirito ispira la via d'uscita che vincerà il male. Come i pesci sono portati e nutriti dal mare, così la vita umana del battezzato è sostenuta e cresciuta dall'Amore infinito.

Essere battezzati significa dunque essere presenti alla Presenza, scoprire quella vita mistica, che non è riservata ai santi ma che è semplicemente la realtà della fede, una realtà nascosta ma così efficiente da cambiare totalmente la mentalità. Conversione è la traduzione della parola greca che significa appunto: cambiamento di mentalità. Battezzare i bambini, mandarli al catechismo, senza che la famiglia cambi il proprio modo di vedere risulta vano: non prenderanno mai coscienza della presenza in loro dell'energia divina, capace di farli camminare come Gesù all'ascolto del Padre per fare, come lui, cose grandi.
  • Emmanuelle Marie
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Messaggio da miriam bolfissimo » lun set 24, 2007 10:49 am

      • Dopo le ferie, in cerca di senso
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  • L'uomo è fatto a immagine di Dio, quindi per realizzarsi pienamente, ognuno deve diventare sempre più se stesso, con l'aiuto dello Spirito, ospite silenzioso di ogni vita.
Le ferie, tempo atteso e sperato come riposo, rinnovamento, liberazione dalle esigenze lavorative e dall'aria inquinata delle città. Si è partiti con la speranza di trascorrerle in accordo profondo con se stessi e di potersi esprimere realizzando i desideri più vari e legittimi. Le vacanze hanno lo scopo di farci riprendere le forze fisiche e psichiche, di ridare colore al grigiore quotidiano. Ma il modo di trascorrerle è anche l'espressione della personalità, che si manifesta nelle scelte, nei gusti e nelle tendenze. Poi, al ritorno a casa, alla ripresa del trantran di tutti i giorni, spesso subentra l'amarezza per la fine di un periodo troppo breve, vissuto come una parentesi felice: oppure si insinua la delusione per non aver concluso nulla di buono e, paradossalmente, con l'esigenza di doversi adesso riposare dopo... tanta fatica. Qual è la ragione di questo disappunto? Il grosso problema che angustia le persone, anche se non ne sono pienamente coscienti, è quello del senso da dare alla propria esistenza. Qualunque sia l'attività, questa domanda di senso inquieta come un tormento, anche se non emerge esplicitamente, perché coinvolge insieme l'identità e il proprio valore.

Ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi» (Mt 7,17). Questa verità accompagna la riflessione quotidiana anche dei non credenti, che vogliono valutare la propria esistenza. Nel prologo di Giovanni (v. 18), è descritta la vocazione essenziale di Gesù: «Dio nessuno l'ha mai visto: il Figlio unigenito lo ha rivelato». Gesù è venuto per rivelare chi fosse Dio: un Dio che salva e perdona. Ogni uomo partecipa di questa vocazione, perché la sua identità è l'immagine unica del Creatore che ha incisa nel profondo del suo cuore. Per realizzarsi pienamente, ognuno deve quindi diventare sempre più se stesso, con l'aiuto dello Spirito, ospite silenzioso di ogni vita. Di fronte a ogni scelta, anche la più terra terra, è in gioco questa crescita dell'identità, senza la quale nessuno può sentirsi pienamente felice di esistere. Si tratta semplicemente di ascoltare con serietà i propri desideri più veri, nascosti dietro quelli più immediati, dettati dagli altri, dalla società. Che cosa voglio fare della mie giornate? Come posso sentirmi veramente in armonia con me stesso? Per questo discernimento, lo Spirito «viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili» scrive san Paolo ai Romani (8, 26).

Ultimamente, di fronte a un disagio profondo, ho cominciato a pregare, per capire che cosa fare. Per mezz'ora, ho guardato l'orologio, pensato a mille cose futili, pur cercando di rinnovare costantemente la certezza che lo Spirito operava in me. Alla fine, senza che io sapessi come fosse avvenuto, ho visto chiaramente come gestire il problema che mi aveva assillato per parecchi giorni e ho sentito di essere in conformità con la volontà di Dio, perché pienamente fedele a me stessa.

L’unico compito umano è la propria realizzazione, che è la progressiva rivelazione dell'immagine di Dio che ognuno è. Riposare, divertirsi, viaggiare, allenarsi nello sport preferito, tutte queste cose sono modi per «diventare» meglio se stessi. Suppongono la libertà di usare il tempo in armonia con la verità di sé, senza compromessi ma anche nell'ascolto della libertà altrui. Non è egoismo, è solo fedeltà all'identità profonda. Su questa base solida, lo Spirito può insegnare come mediare le proprie decisioni con la famiglia, con gli amici, e come ascoltare anche i veri desideri degli altri. Allora, qualunque siano state le vacanze, si tornerà a casa felici, perché questo tempo sarà servito alla crescita dell'essere vero.
  • Emmanuelle Marie
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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Emmanuelle Marie (Odile Van Deth) - Riflessioni

Messaggio da miriam bolfissimo » lun ott 01, 2007 2:17 pm

        • La fragile e forte Teresa di Lisieux
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  • Solo la consapevolezza di essere amati dal Padre rende possibile essere e realizzare quello che uno è.
Il mese di ottobre inizia con la festa di santa Teresa del Bambino Gesù. La piccola carmelitana diventata dottore della Chiesa, perché ebbe l'audacia di andare controcorrente rispetto alla mentalità impregnata di giansenismo del suo tempo, rivelando al mondo un Dio di tenerezza più che di giustizia, di misericordia più che di condanna, di prossimità più che di gloriosa altezza. Forse oggi, ancora, è più che mai necessaria la «piccola dottrina» di Teresa; tuttavia perché sia accessibile al nostro tempo, è necessario rispolverarla e leggerla alla luce delle motivazioni profonde.

Qual è stato il suo percorso? Orfana di madre a quattro anni, era stata una bambina estremamente sensibile e fragile. Tuttavia fu circondata di un affetto raro. Imparò dalle sorelle e dal padre a essere degna di essere amata. È un dato che spesso, anche nelle famiglie più unite, manca nell'educazione. Tutti, più o meno, approdiamo all'età adulta con tanti timori, titubanze o pretese che mascherano un'insicurezza di fondo. Questa situazione è dovuta alla mancanza d'amore reale, alla quasi impossibilità, cioè, di amare, conseguenza del peccato. «Senza di me, non potete fare nulla» aveva avvertito il Signore, meno che mai amare.

Il sentimento materno è certo una realtà, ma non basta per infondere al bambino la sicurezza della propria dignità, che proviene non dalle qualità personali bensì dall'essere figlio di Dio. Troppo spesso, il piccolo e poi l'adolescente pensano di aver perso l'affetto dei genitori quando hanno commesso qualche marachella o, addirittura, quando le loro scelte non sono in linea con quelle attese dalla famiglia. «Anche se fossi colpevole dei più grandi peccati, mi butterei nelle braccia del Padre e non temerei, perché la sua tenerezza è più grande delle mie colpe», affermava Teresa, scandalizzando così le consorelle. Aveva meno forte che in altri quell'insicurezza, che chiamerei «lacuna nell'essere» e che, invece, chi ha sentito di meritare l'amore, si porta dietro per tutta la vita, finché non scopre l'amore indefettibile di Dio, la cui relazione con l'essere umano nulla può rompere.

Nonostante questa fondamentale certezza, Teresa era rimasta fragile di fronte al minimo rimprovero. Sul letto di morte, a sua sorella che le chiedeva che cosa dire alle «piccole anime» scoraggiate di fronte ai loro sforzi inutili per diventare virtuose, rispose: «Dite loro di fare come me, di porre un atto energico e tutto il resto seguirà». Alludeva all'ultimo Natale trascorso in famiglia, prima di entrare in Carmelo, a quindici anni.

Tornando dalla messa di mezzanotte, sentì suo padre brontolare perché aveva ancora messo le sue scarpe davanti al camino - è una tradizione francese per ricevere regali - e, contrariamente alla sua abitudine di piangere alla minima contrarietà, trattenne le sue lacrime. In quella notte, Teresa percepì, nella sua radicale debolezza, la sua imprescindibile solitudine. Suo padre, tanto amato, ormai non la capiva più. L'aveva mai capita?

Il cosiddetto «spirito d'infanzia» non è l'infantilismo che, troppo facilmente, si è letto nei suoi scritti. Sembra invece essere il passaggio necessariamente doloroso della presa di coscienza dell'insicurezza di ogni essere umano, che non si è sentito accolto nella sua diversità e unicità, alla fiducia incondizionata nella tenera paternità divina.

Di solito, per tutta la vita, fino alla vecchiaia, tutti aspettano dagli altri una conferma del proprio valore. La ricerca dell'anima gemella, gli innamoramenti, le amicizie, sono, il più delle volte, un'illusione che spinge a immaginare di avere incontrato finalmente l'amore incondizionato, indispensabile per vivere. Solo la consapevolezza di essere amati dal Padre infonde il diritto di essere e realizzare la persona che uno è.
  • Emmanuelle Marie
      • Io voglio amare soltanto per Te tutto quello che amo... (santa Teresa di Lisieaux)[/list:u][/list:u][/list:u]

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